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PIETRA È IL MIO NOME, di Lorenzo Beccati (un capitolo del libro)

marzo 6, 2014

Pubblichiamo un capitolo del romanzo di Lorenzo Beccati intitolato PIETRA È IL MIO NOME (Editrice Nord)

Il libro
Genova, 1601. La chiamano la Tunisina. La disprezzano. La temono. Eppure è a lei che i genovesi si rivolgono quando hanno bisogno d’aiuto. Pietra sostiene di essere una rabdomante. In realtà è solo una donna consapevole che il mondo non le perdonerebbe mai il suo straordinario intuito e il suo eccezionale acume. Talenti grazie ai quali riesce a trovare non solo sorgenti d’acqua, ma anche bambini scomparsi e gioielli rubati. E, quando vengono compiuti delitti all’apparenza inspiegabili, persino le autorità cittadine si avvalgono dei suoi servigi. In questo caso, però, Pietra è stata chiamata dal Bargello per un motivo diverso: accanto al corpo di una donna, picchiata a morte, è stata trovata una bacchetta da rabdomante, circostanza che fa di lei la principale indiziata dell’omicidio. Per dimostrare la propria innocenza, Pietra sarà costretta a indagare per conto proprio e, ben presto, si renderà conto che quella giovane è come un fantasma emerso dalle ombre del suo passato, che riporta in superficie vecchi rancori e rimpianti mai sopiti. E adesso è venuto il momento di affrontarli, prima che l’assassino torni per lei…

* * *

Il primo capitolo di  PIETRA È IL MIO NOME di Lorenzo Beccati (Editrice Nord)
Genova, 2 marzo 1601, venerdì di carnevale

Come da occhi di demoni, le fiamme escono dalle due finestre più in alto del palazzo dei conti de Negri in vico Lepre. Vorticando, colonne di fumo raggiungono il tetto e salgono nel cielo di una notte senza nuvole.
Per strada, nessuno si accorge di nulla. I genovesi sono impegnati a festeggiare « il carnevale dei folli », tirandosi arance e limoni e inseguendosi lungo i carruggi.
Un gruppo di musici suona all’angolo di una strada e un bambino corre dietro ai passanti per chiedere un obolo. « Una moneta per la musica e una per gli angeli! »
Alcuni giovani ballano e fanno giravolte, ubriachi d’allegria. Da un carro in movimento, delle bambine, vestite da ancelle, lanciano sui passanti petali di rosa e ridono, come se fosse una marachella.
Solo una figura scura, un’ombra di ragazza alta e magra, addossata al muro della casa di fronte all’edificio che brucia, tiene gli occhi chiari da gatta triste sulle lingue di fuoco che, strisciando, hanno invaso la parte alta del palazzo. Sembra che il suo sguardo
alimenti le fiamme. Ha un volto affilato che mostra appena i suoi ventidue anni. Indossa una veste nera che non disegna le forme del corpo e uno scialle che copre le spalle ossute e leggermente curve. Una cintura le cinge la vita sottile, ma senza stringere. I capelli corvini sono raccolti con impegno sulla parte bassa della nuca. Ha labbra carnose e una fossetta le nasce al centro di una sola guancia ogni volta che sorride. Non capita spesso.
Le dita sono affusolate e l’indice è lungo quanto il medio. È di una bellezza non convenzionale e non usa belletti per esaltarla.
Il suo nome è Pietra, ma tutti la conoscono come « la Tunisina ».
Finalmente alcuni passanti si accorgono dell’incendio e si mettono a urlare: « Al fuoco! Al fuoco! »
Nel salone da ballo del palazzo, l’orchestra è impegnata in un crescendo e nessuno sente le grida. Poi un suonatore di violino coglie una voce lontana e si ferma.
E piano piano anche gli altri musici si zittiscono. Il padrone di casa, il conte Luigi de Negri, si scosta dal mento la finta barba verde del travestimento carnevalesco e si avvicina agli orchestrali, per redarguirli della pausa. Con il silenzio, però, ora sente anche lui gli strepiti e le urla dei passanti. Allora apre di slancio la porta finestra che dà sul balcone al centro della facciata, e guardare in strada. Non appena si sporge, vedendo le fiamme e il fumo, strepita, roco: « La casa va a fuoco! Presto, uscite! Via, via, via! »
Tutti corrono, urlano, spingono per guadagnare l’uscita e salvarsi la pelle. Senza rispetto di casta, i primi a raggiungere le maniglie dei battenti sono i camerieri e i servi di sala. E, non appena la porta si spalanca, le fiamme, come belve affamate, balzano loro addosso. Grida e tonfi sordi accompagnano la disordinata, inutile corsa attraverso il salone degli uomini avvolti dal fuoco.
Dalla strada si sentono invocazioni, maledizioni e pugni disperati sul legno: per timore di
rappresaglie carnevalesche, qualcuno aveva infatti chiuso a doppia mandata la porta della servitù. Giunge di corsa il custode con grosse chiavi e i battenti sono aperti in fretta. Per prima, esce una nobildonna vestita all’orientale, con lo strascico in fiamme.
Un cavaliere coraggioso le strappa la veste e poi è costretto a fare altrettanto con le sottovesti, fino ad arrivare alla pelle arrossata. Solo quando è salva, la poveretta pensa al decoro e si copre come può .
Tossendo, un uomo si toglie dal volto la maschera da faina per respirare meglio. Un prete inquisitore cerca di spegnere le fiamme che gli avvolgono il braccio soffocandole con una tovaglia strappata dal tavolo. Un cane guaisce e si rotola nel porfido della strada, nel tentativo
di sopire il dolore che gli divora il fianco, ma le fiamme hanno la meglio e si cibano del lungo pelo nero della bestia. Un giovane musico si lancia dalla finestra del primo piano, con il violino sottobraccio, per proteggerlo. Un cavaliere corre, reggendo a fatica una ragazza diafana con i capelli in fiamme: la giovane indossa una vezzosa mascherina rossa che la rende sorridente, nonostante la tragedia che si va consumando.
Due cuoche e una serva escono correndo da un ingresso laterale, portando in salvo pile di piatti ornati d’oro zecchino. In un sestiere confinante, sul sagrato della cattedrale di San Lorenzo, decine di uomini e donne euforici si stanno dando battaglia con lanci di uova, risparmiando solo le donne incinte. I giochi si arrestano non appena le campane della chiesa suonano a distesa per segnalare l’incendio. E un pennacchio di fumo orienta i cittadini volenterosi a capire dove possono accorrere per dare una mano.
In breve, una folla vociante si assiepa davanti a Palazzo de Negri e osserva il fuoco che sbuca dalle finestre in alto, poi si rintana, richiamato da un vuoto d’aria, e ricompare, più vivido e imponente di prima.
I volti delle statue sulla facciata s’illuminano e pare ridano. Senza il minimo preavviso, un boato: le vetrate del palazzo in fiamme esplodono. Una pioggia di vetro cade sui passanti, facendoli fuggire in ogni direzione, come se fossero stati sorpresi da un temporale estivo. I costumi di carnevale che molti indossano rendono grottesca la tragedia. Un senatore con la testa da coniglio è colpito in piena faccia da frammenti di vetro e non sa darsi pace, neanche quella fosse un’offesa alla sua carica. Tre centauri scalpitano, con le zampe posticce che ardono, e si strappano di dosso i costumi.
Impassibile, nell’ombra, la ragazza in nero, quella che chiamano « la Tunisina », è colta al viso da una scheggia di vetro. Senza mutare espressione, si terge il sangue, passando la manica del vestito sopra la ferita.
Da un carruggio adiacente arrivano uomini armati di secchi e gettano l’acqua all’interno del palazzo, ma le fiamme non la degnano di uno sguardo e continuano a divorare tutto ciò che trovano sul loro cammino. Uscendo dall’ingresso principale – e a dispetto del ventre prominente –, il conte de Negri regge per le ascelle la consorte e la sorella. Mentre avanza
nel vicolo per portarle al sicuro, continua a impartire ordini. Non si capisce a chi, giacché nessuno gli ubbidisce.
La contessa si ostina a urlare un nome: « Nicolò… Nicolò… » Pazza d’apprensione, si guarda in giro, in cerca di qualcuno cui chiedere aiuto. Con un balzo al cuore, vede la ragazza nell’ombra. Si precipita da lei e le afferra il vestito all’altezza del petto scarno.
« Tu… io ti conosco. Sei la Tunisina. Ti chiami Pietra. »
« Non mi chiamo Pietra, ma Petra, io… »
La contessa de Negri scaccia la frase con uno scatto del mento e continua: « Trova mio figlio. È ancora dentro. Tu hai il potere: usalo! Non lasciare che bruci ».
La ragazza non si muove, inclina la testa, piega appena le ginocchia e pare indifesa, al pari di uno scoiattolo fradicio. Persino i capelli sembrano più slavati di qualche istante prima. «Vi chiedo scusa, ma io non posso aiutarvi. »
A rinforzo della contessa, arriva il marito e, a brutto muso, affronta la ragazza vestita di nero. L’uomo puzza di fumo e aglio. « Entra in casa mia e cerca mio figlio », sibila. « E, se non lo trovi, augurati di bruciare perché, non appena uscirai, ti ucciderò cento volte con queste mani.»
Per niente intimorita, Pietra fa per voltarsi e andarsene. Furioso, il conte de Negri la colpisce con un manrovescio, lasciandole sulla guancia insanguinata il segno degli anelli.
Pietra si limita a fissarlo. Nel suo sguardo non c’è ne´ disprezzo ne´ dolore. Non c’è nulla.
La nobildonna si avvicina e, in silenzio, le sfiora una mano, come per scusarsi. Infastidita dalla carezza più che dallo schiaffo, la ragazza chiede: « Quanti anni ha il bambino? »
Anche se con tono differente, i genitori rispondono insieme: « Otto ».
Poi la contessa guarda la Tunisina dritta negli occhi e sussurra: « Salva il mio bambino. Usa il potere che Iddio ti ha dato. Abbi pietà di una madre ». La giovane in nero abbassa la testa in segno di resa.
« Farò ciò che è nelle mie facoltà. Comunque voi cominciate a piangerlo.»
Pietra è una rabdomante.

(Riproduzione riservata)

© 2014 Casa Editrice Nord s.u.r.l.
Gruppo editoriale Mauri Spagnol

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Lorenzo Beccati è nato a Genova nel 1955. Dai primi anni ’80, è il più stretto complice di Antonio Ricci, con il quale ha collaborato a creare alcuni dei programmi televisivi più fortunati di tutti i tempi. DaDrive-In a Paperissima a Striscia la notizia, Lorenzo Beccati può considerarsi uno degli autori più importanti della storia della televisione italiana. Il suo sito è www.lorenzobeccati.com.

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