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IL PERIODO DEL SILENZIO di Francesca Manfredi (La nave di Teseo) – recensione

marzo 6, 2024

Il periodo del silenzio - Francesca Manfredi - copertina“Il periodo del silenzio” di Francesca Manfredi (La nave di Teseo)

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di Daniela Sessa

Racchiudere in un’immagine Il periodo del silenzio”, il romanzo di Francesca Manfredi? Un Benjamin Button della parola. Cristina Martino, la protagonista ventottenne archeologa precaria, va all’indietro come il personaggio di F. S. Fitzgerald e di David Fincher, rientra nel limbo uterino tra esistenza e non esistenza, laddove la posizione fetale diventa l’ultimo stadio di una vita incapace di disegnare linee che non siano circolari. Certo, Benjamin è affetto da una malattia ed è il tempo a scegliere per lui: lo fa giovane di mente e vecchio di corpo, sfidando amori e affetti a rincorrerlo. Cristina Martino, invece, decide di lanciare lei la sfida al tempo, a questo tempo babelico. La sfida è il silenzio. Il pegno è la solitudine. La resa è la lallazione. Dalla non parola alla non parola: così il tempo di Cristina, vittima e carnefice, gira su se stesso. L’invenzione narrativa di Francesca Manfredi se non è originale (sul silenzio c’è una tradizione artistica e letteraria sterminata), è indubbiamente affascinante. Insinua il desiderio di alzare la mano e dire “assente” in una dimensione in cui privato e pubblico sono l’uno il predicato dell’altro. Infosfera, secondo la geniale definizione del filosofo Luciano Floridi, è questo circolo in cui dire è esistere, chiacchierare è riflettere, informare è depistare. Ma Cristina si spinge ancora oltre. Decidere di staccare gli account social è il primo passo, poi staccherà i social affettivi, familiari, sentimentali, infine quelli sessuali per chiudersi in un mondo senza rumore, neppure il suo: “Questo è il momento in cui la testa mi frigge per liberarsi e pulirsi, e i pensieri sono i fantasmi delle parole sbagliate”. Per chi va alla ricerca delle motivazioni del silenzio di Cristina e sono l’amica Silvia (influencer in crisi), Daniele (l’amante), Elena (la sorella), il gruppo d’aiuto per il mutismo selettivo, la direttrice della biblioteca presso cui lavora, lo stesso pesce Harpo (anzi, Harpo probabilmente lo sa, lui che è muto e costretto a vivere in un ambiente artificiale), per loro il silenzio prende la forma di una patologia, di una disfunzione caratteriale, un’ipoteca infantile. Invece, per Cristina smettere di comunicare è una sorta di ribellione, una presa di coscienza di quanto sia rumoroso il mondo. A questo punto che il rumore sia un suono, talvolta anche musica, risulta superfluo, perché questo libro bulimico di spunti tematici, spesso in difficoltà a trovare posto nel magma narrativo, è uno spietato e lucido (come la scrittura: netta, linda, impietosa) atto d’accusa contro l’uso sconsiderato della parola. Che è il tema dei temi della contemporaneità. Manfredi fa di Cristina e del suo mondo di trentenni irrisolti – vagano tra locali e alcool e serie cult- l’exemplum del presente. Si chiede cosa siamo e risponde “gente portata a condividere tutto”. Il metaverso è già la nostra casa, fuori di esso siamo solo ologrammi: un click e si sparisce. Cristina compie un viaggio di redenzione: dagli inferi dei social, al purgatorio del silenzio fino all’elevazione spirituale in cui l’estasi coincide con l’assottigliamento fisico. C’è un passaggio fondamentale del romanzo in cui Elena ricorda quando da piccole lei e Cristina giocavano all’indovinello “Se fai il mio nome, scompaio”. In quell’indovinello che Cristina risolve da grande tacendo, Manfredi condensa il senso della sua operazione letteraria: raccontare la crisi dell’identità come crisi della parola “lettere scalpitanti e veloci come treni, che si rincorrevano a formare parole, alcune di queste ricevevano la grazia di essere scelte e potevano finire sulla bocca degli esseri umani”. Ed è lì che le parole vengono adulterate, fraintese, stuprate. O solo regredite al nonsense, all’emonji, al like: quando il linguaggio umano diventa icona si mette in atto la dis-umanizzazione. Rettile e branchia, animale in attesa di un novello Prometeo che spunti l’arma del linguaggio prima di riconsegnarlo agli uomini. Non accadrà. “Il periodo del silenzio” racconta una storia senza via di scampo: il silenzio farà di Cristina una influencer, una specie di santona con migliaia di followers, mentre la sua rarefazione resta sullo sfondo, marginale come quando si sceglie uno sfondo bugiardo per la call da casa. “L’essere umano non è capace di adattarsi al silenzio” afferma Cristina e viene da pensare a un altro bellissimo romanzo sul silenzio di Don DeLillo. Lo scrittore immagina nel suo “Il silenzio”  Manahattan ridotta al buio e perciò al silenzio da un crash informatico, un terremoto immateriale in cui due coppie dentro una casa parlano ma il linguaggio privo del supporto digitale manca di sequenzialità, logica e nel buio torna una primitiva onomatopea dei corpi. Come Cristina che lacera il silenzio del mondo con un gorgheggio da neonato. “nessuna parola di senso compiuto, solo suoni e sillabe… una lingua fresca come la neve appena caduta”. Se c’è una speranza nel romanzo di Manfredi è un pugno di neve. O magari non c’è speranza ma solo Silvia con le sue unghie perfette, un bicchiere di vino e la sigaretta e con il suo dolorante candore “come il suicidio riafferma la vita, il silenzio riafferma le parole”. Il problema è allora quale silenzio, se il silenzio rischia di diventare un hype. Forse il senso di tutto questo nostro presente è Silvia con il cellulare perennemente illuminato di notifiche.

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La scheda del libro: “Il periodo del silenzio” di Francesca Manfredi (La nave di Teseo)

Dall’autrice Premio Campiello Opera prima con Un buon posto dove stare, un romanzo dirompente che riavvolge il nastro della nostra vita, dal rumore assordante al silenzio, in un mondo che non smette di parlare.

«Ogni parola porta ad altre e altre e altre ancora, e ognuna di queste ti spezzerà il cuore, prima o poi.»

Cristina Martino ha ventotto anni, è laureata in Archeologia e lavora, precaria, in una biblioteca di dipartimento all’università di Torino. Ha una vita piuttosto monotona, una famiglia ordinaria, nessun trauma. Ha avuto qualche relazione di breve durata – una, in particolare, che le è rimasta dentro con una forma di dolenza irrisolta – ha un flirt con Daniele, conosciuto da poco, e un’amica, Silvia, che sembra il suo opposto; ogni cosa in lei tende all’evasione dalla norma, al rumore, all’eccesso di vita. Una sera, presa da un impulso, Cristina decide di eliminare i suoi profili social. Un gesto senza motivazione apparente, non insolito, di certo non rivoluzionario: eppure, questa sarà la prima tappa del suo percorso verso il silenzio, perché, gradualmente, Cristina smette di comunicare. Pur continuando la sua vita quotidiana, smette di parlare alle persone in biblioteca, a sua sorella, ai suoi genitori, smette di parlare a Silvia, persino a Daniele. Mantiene dapprima un contatto minimo, attraverso biglietti e messaggi essenziali e, infine, elimina anche quello. Cristina scivola sempre più in una forma di rarefazione, di invisibilità fisica, in cui il silenzio diventa la scelta di una sparizione dal mondo. Quando un articolo sulla sua storia diventa virale, in tanti cominciano a emularla, attribuendo al suo silenzio significati universali e necessari, mentre nessuno sembra più sapere dove Cristina si trovi davvero, e se tornerà. Con una scrittura nitida e puntuale, che segue come una pelle l’evoluzione di Cristina e il suo rapporto con il silenzio, Francesca Manfredi scrive un romanzo teso e potente, che riflette sulla solitudine oppressa dal caos, sul vuoto comunicativo dei nostri rapporti, sulla forza che ancora può avere la parola, quando rinasce vergine e vera.

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Francesca Manfredi è nata a Reggio Emilia nel 1988 e vive a Torino. Presso La nave di Teseo ha pubblicato la raccolta di racconti Un buon posto dove stare (2017) – con cui ha vinto il premio Campiello Opera Prima ed è stata finalista al premio Chiara, premio Settembrini, premio Berto e premio Zocca Giovani – e il romanzo L’impero della polvere (2019), finalista al premio Dolores Prato e tradotto in inglese, francese e spagnolo.

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