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ARANCIO (e non solo): intervista a Emanuele Pettener

novembre 27, 2014

ARANCIOCopertina_Arancio.jpg (e non solo): intervista a Emanuele Pettener

di Massimo Maugeri

Emanuele Pettener è nato a Venezia, ma vive negli Stati Uniti dal 2000 dove insegna lingua e letteratura italiana alla Florida Atlantic University. E non è un caso che il suo nuovo romanzo, “Arancio” (Meligrana, 2014), sia ambientato proprio in Florida. Un estratto del libro è disponibile qui…

Ne approfittiamo per discutiamo con l’autore sia della sua personale “storia americana”, sia del romanzo…

– Emanuele, raccontaci – intanto – la tua storia. Cosa ti ha spinto a lasciare l’Italia per recarti negli Stati Uniti?
La mia fortuna, la mia provvida sventura, è stata esser licenziato. Lavoravo in una piccola televisione, presentavo piccoli programmi, ero un piccolo Pippo Baudo, con venature di Costanzo, però magro. Ero ragionevolmente ottimista che da lì a poco m’avrebbero proposto la direzione del Festival di Sanremo, invece puff, tutto è svanito. Ho vissuto per un anno l’umiliante marchio a pelle della parola “disoccupato” che, ancorché un disagio economico, comporta il disprezzo del consesso sociale. Al diavolo il consesso sociale! Nessuno rispondeva alle mie profferte lavorative, malgrado la prosa fiorita dei miei curriculum. È passato un trenino alato per l’America e non ci ho pensato un attimo, l’unico pensiero è stato: “se devo fallire, meglio farlo lontano dagli occhi di famigliari, amici, e soprattutto nemici”. Del resto l’America la sognavo sin da piccino, ricordo che volevo vivere a Topolinia. Oggi vivo a Boca Raton. I conti tornano.

– Che tipo di realtà hai trovato lì in Florida, all’università dove insegni (Florida Atlantic University)?
Un realtà meravigliosa. Credevo avrei fatto il cameriere, l’imbianchino, riparato steccati, ho sempre avuto un’immaginazione romantica. Invece m’han concesso una borsa di studio per studiare quello che amavo, un paio di classi d’italiano da insegnare, un salario per mantenermi durante gli studi. M’hanno dato fiducia. Già il primo anno si son fidati d’affidarmi una classe di letteratura. D’invitarmi a New York a presentare un saggio su John Fante, e fra il pubblico c’era l’editore di una rivista che me ne propose la pubblicazione. Un anno prima di ottenere il dottorato, m’hanno offerto un lavoro full time. Nemmeno quand’ero Pippo Baudo avevo ricevuto tanta fiducia.

Cosa puoi dirci del tuo rapporto con gli studenti?
Inizialmente eravamo quasi coetanei, avvertivo l’urgenza di stabilir distanze. Ora che ho vent’anni più di loro, c’è di sicuro un sentimento che allora non provavo: tenerezza. La vita è così complicata a vent’anni! La maggior parte dei miei studenti studia e lavora, per pagarsi le tasse universitarie. Conduco una mia studentessa attraverso i labirinti delle preposizioni articolate, poi me la ritrovo al bar del campus a servirmi il caffé. Sì, provo tenerezza, affetto, ammirazione per i miei studenti. Però se osano tirare fuori il cellulare durante le lezioni, me li mangio vivi.

Come vedono l’Italia? Come la valutano? Che tipo di considerazioni fanno i tuoi studenti e le persone che frequenti lì negli USA?
“Gli Italiani sanno vivere”. Circola questa diceria. Che non smentisco, ho l’impressione che il mio lavoro dipenda da essa, e in fondo c’è del vero. Ciascuno di noi ha un Paese immaginario nel cuore (Proust ce lo racconta alla fine del primo volume della sua fiaba), e sono convinto che per gli Americani il primo sia l’Italia. Amano l’Italia – l’Italia dalla bellezza incomparabile, dalla cucina suprema, ma soprattutto l’Italia che sa rallentare il ritmo delle giornate, l’Italia senza fretta, che sa godere delle piccole cose. Prendere un aperitivo in piazza prima di cena, quando arriva primavera, sedersi attorno a un tavolo per pranzare con la famiglia, “eating is meeting for you Italians!” – e questo li commuove, li riempie di nostalgia per qualcosa che non hanno mai vissuto. Ambizione e competitività vengono instillate nel cuore degli Americani sin da bambini, l’angoscia più grande è venir catalogati “losers,” e questa pazza corsa all’oro comincia a stancare qualcuno. Ricordo uno studente dirmi: my parents are millionaire and miserable. “Noi viviamo per lavorare, voi lavorate per vivere,” mi ripetono spesso i miei ragazzi, e io taccio: nessuno dovrebbe macchiarsi del peccato di rovinare i paesi immaginari.

Copertina_Arancio.jpg– Parliamo un po’ del tuo romanzo, edito da Meligrana e Priamo, e intitolato “Arancio”. Come nasce?
Dal mio gusto per la commedia verbale, sviluppatosi grazie alla frequentazione assidua di Oscar Wilde, e dal mio amore per il colore, che il sud della Florida asseconda gioiosamente. E forse da quello che ho raccontato all’inizio, la desolazione di mendicare un lavoro e il bisogno d’inventarsi l’America.

– Raccontaci qualcosa del protagonista del libro: il maestro di tango Tommaso Arancio. Che tipo è?
Mooolto pigro. Pensa quasi unicamente a mangiare. Dichiara senza ostentare d’avere fra i suoi amici Balzac e Dean Martin (tiene a distanza Jim Morrison perche’ gli vomita sempre sul tappeto) e si rende conto che la cosa puo’ sembrare balzana, perciò propone l’ipotesi che la gente famosa, dopo morta, vada a vivere in Florida. E, caro Massimo, posso suffragare questa ipotesi: giuro che un paio di Hemingway li ho visti anch’io, e almeno una decina di Glorie Swanson!

Un altro personaggio importante è “la grassona”. Cosa puoi dirci di lei?
La grassona è la donna più ricca d’America, una grande editrice (e molti sospettano vertice della piramide malavitosa). Ha individuato le necessità primarie di ogni essere umano: riempire la pancia, l’anima, e l’ego. Ha cominciato quindi aprendo un ristorante dove serviva polpette fritte di alligatore, si è poi specializzata nella produzione di cibi e riviste annesse che curassero le ferite dei cuori spezzati, infine ha aperto una catena di scuole di scrittura creativa.

Quali tipi di sfide dovrà affrontare Tommaso a seguito del suo trasferimento in Florida?

La grassona s’innamora follemente di Tommaso, e lo assume come editorialista al “Baja Topon Post”. Gli affida la rubrica “Italians do it better,” dove Tommaso è costretto a dar suggerimenti sentimentali – gli abitanti di Baja Topon credono che tutto si possa imparare, anche l’amore, e proliferano i manuali “how to” – ma conservare il lavoro (e non finire nel calderone dei disoccupati di cui si diceva) è complicato, anche perché allo stesso tempo deve trovare stratagemmi per fuggire alle avances della grassona e alle manipolazioni dei suoi colleghi, la procace Petunia Jones e l’arrapatissimo Glenn Grant, oltre ai salamelecchi del direttore del “Baja Topon Post,” John Besançon. Ma Tommaso è un romantico e quando incontra Alice capisce finalmente il consiglio (apparentemente semplice) che gli ha dato il suo amico barista (che afferma di essere Dio, ma Tommaso non ci crede, c’è un limite a tutto): “Fa’ quello che vuoi”.

Grazie per la chiacchierata, caro Emanuele.
Grazie a te, Massimo, e grazie ai lettori di Letteratitudine che sono arrivati fin qui. Ciao!

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