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K – Volume 7: Casa (con un racconto di Marco Amerighi)

ottobre 26, 2023
https://64.media.tumblr.com/252f6d18e98ebcf2c55790993b8336ab/4c9782a98dab4795-e0/s1280x1920/15f75f26adae4ce396f69d37695b63ef6b703519.jpgK – Linkiesta fiction – Rivista letteraria di Linkiesta – disponibile dal 27 ottobre 2023 – Volume 7: Casa
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K è la rivista letteraria di Linkiesta curata da Nadia Terranova e Christian Rocca. Dopo i numeri tematici su Sesso, Memoria, Città, Felicità, Pianeta e Magia arriva il nuovo numero dedicato alla Casa.

Di seguito, pubblichiamo la prima parte del racconto di Marco Amerighi intitolato “Ero venuto in questa casa per smettere di bere”

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Torna a fine ottobre K con un omaggio alla scrittrice e attivista ucraina Victoria Amelina (con un suo testo e una poesia incentrate sul tema di questo numero).
Ad accompagnare le parole di Victoria Amelina un servizio fotografico che ritrae i pezzi di casa che gli ucraini fuggiti dall’invasione russa hanno portato con sé.
Come scrive Nadia Terranova nel suo editoriale che apre questo numero di K:
«Sono case di adulti, d’infanzia o d’invenzione, case che sopravviveranno alle loro narrazioni, case che se ne infischiano di noi che ci facciamo i conti o li apriamo. Case continenti, case in terre straniere, case che ci hanno respinto o hanno continuato a chiamarci».

In questo numero sono presenti 16 racconti di: Roberto Alajmo, Marco Amerighi, Ilaria Bernardini, Diego De Silva, Paolo Di Paolo, Antonio Esposito, Mattia Insolia, Jhumpa Lahiri, Vincenzo Latronico, Antonella Lattanzi, Doriana Leondeff, Giusi Marchetta, Romana Petri, Lorena Spampinato, Chiara Valerio, Anna Voltaggio e l’intervista di Annalisa De Simone a Bianca Pitzorno.
Un’idea diversa di casa è raccontata – come accennato in premessa – da Victoria Amelina, scrittrice e attivista ucraina, morta il 1° luglio 2023 a causa di un raid missilistico russo a Kramatorsk. La ricordiamo in questo numero pubblicando un suo testo e una sua poesia. Ad accompagnare le parole di Victoria Amelina, in apertura del volume, un servizio fotografico di Matteo Bellomo e Stefania Zanetti ritrae i pezzi di casa che gli ucraini fuggiti dall’invasione russa hanno portato con sé.
Il nuovo numero di K sarà presentato a Milano presso la Libreria Verso il 27 ottobre con Nadia Terranova, Marco Amerighi, Ilaria Bernardini, Vincenzo Latronico e Mario De Santis.
K è in vendita al prezzo di 20 euro nelle migliori librerie italiane a partire da metà ottobre e sullo store de Linkiesta: https://store.linkiesta.it/
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Ero venuto in questa casa per smettere di bere

di Marco Amerighi

Ad Alice

All’inizio, quando mi ero fatto ingoiare dalla disperazione, mi avevano tenuto a galla gli amici. Telefonate, aperitivi, camminate notturne. Fingiti un buono e dormirai sonni sereni. Come sempre esagero. Qualcuno di loro mi stava vicino perché mi voleva bene davvero e riteneva che con un po’ d’affetto e di comprensione ne sarei venuto fuori. Non ero mica un caso disperato. In fondo continuavo a presentarmi al lavoro, a mangiare in mensa con i colleghi, a dormire nel trilocale che io e Franca avevamo affittato esclusivamente perché affacciava su un parchetto e che ora ci puniva perché riecheggiava esclusivamente delle risate altrui. Nei mesi successivi, tuttavia, finii col mettere insieme così tanti debiti, litigi e figure di merda che anche gli amici più pazienti, persino quelli che avevano più bisogno di vedere me di quanto io ne avessi di vedere loro, sparirono. Franca espresse il desiderio di tornare da sua madre, nell’attesa che mi riprendessi. Ero sempre stato un uomo di poche parole, più a mio agio con le ritirate che con le battaglie. L’accompagnai ai binari in un pomeriggio di primavera che prometteva pioggia, quando l’abbracciai mi sentii il corpo ricoperto di cocci di bottiglia. Pochi secondi dopo mi immersi di nuovo nel traffico cittadino, un lombrico vigliacco che affonda nel cuore della terra.

Ogni giorno alle cinque iniziavo a bere. Vino, grappa, gin, scotch, amari alle erbe, non faceva differenza cosa. Più bevevo, tuttavia, e più mi saliva la rabbia, una rabbia ridicola e incontrollabile che mi spingeva a esibirmi in stronzaggini isteriche con chiunque mi capitasse a tiro, finché un tizio più grosso di me, o soltanto più sobrio, non mi rimetteva al mio posto. Certe volte capitava che qualche donna sola mi soccorresse. Non cadevano mai due volte nello stesso errore. Eppure svegliarmi nelle loro case, circondato da oggetti che non avevo mai visto, avvolto in profumi di incensi indiani o spezie medio-orientali, mi dava la piacevole illusione di essere qualcun altro.
Poi era arrivata Anna.
In una manciata di ore l’avevo deliziata mostrandole il repertorio completo: una rissa con un fascistello; una fuga da un creditore; uno svenimento, già nudo, ai piedi del suo letto. La rividi un paio di settimane dopo, mentre uscivo dalla porta sul retro dell’ufficio per non incrociare il mio superiore. «Sono contenta di vederti». Risi pensando che scherzasse, se non che un attimo dopo mi invitò a trascorrere un weekend in montagna con lei. «È una vecchia casa di famiglia. Io ci vado quando ho bisogno di rimettermi in sesto. Magari se ci andiamo insieme riusciamo a dare un taglio agli eccessi». Ne dubitavo fortemente. Ma se c’è una cosa bella dell’essere allo stremo è che puoi fare a meno della sincerità. «E poi è così bella che non si può morire senza averla vista» aggiunse, come se dalla semplice osservazione delle mie occhiaie o delle mie mani tremanti avesse dedotto quanto tempo mi restava. «Allora verrò a vederla. Così dopo potrò morire in pace». Lei mi diede una spinta e fingendosi arrabbiata disse che non le piacevano gli uomini macabri. «A me non piacciono neanche quelli allegri».

Se per la maggior parte dei visitatori sarebbe stato improbabile non provare un senso di sollievo di fronte allo sconfinato giardino all’inglese bordato di larici americani e pini secolari, io ero attratto solo dalla casa. Il motivo, credo, stava nel fatto che aveva due anime opposte e inconciliabili. L’esterno restituiva un senso di allegria. Forse per l’intonaco giallo, o per le strombature che facevano sembrare le finestre più ariose, o per le quattro canalette per l’acqua a forma di ranocchie che pendevano dal terrazzo del secondo piano. Era come se l’architetto di cui Anna mi aveva pronunciato con orgoglio il doppio cognome, e che io avevo dimenticato l’istante dopo, avesse pensato ogni dettaglio di quell’edificio non alla ricerca di un’armonia con la natura circostante ma di un divertimento sprezzante e signorile. All’interno, però, la casa tornava a essere quello che ci si aspettava: una patetica, umida baita di montagna, con camerate intasate da letti a castello, pareti foderate di abete e bagnetti verde felce.
Anna mi mostrò i quadri che ritraevano il progetto disegnato dal celebre architetto con due cognomi, un primo piano di Aldo Moro, più i volti dei tre fratelli che avevano commissionato i lavori nei primi anni Sessanta: una preside di scuola, un ingegnere e un ministro non ricordo di cosa che era morto d’infarto durante un discorso in Senato. Fuori dal salotto una scala centrale si attorcigliava fino a un’esile soffitta da cui scolavano passi, schiamazzi e gemiti.
«Non siamo soli?».
Anna arrossì. «Ci sono i miei nipoti».
«Anni?».
«E chi lo sa, ogni estate tornano che sembra ne abbiano cinque in più. Puoi chiederglielo tu, comunque. Stanno scendendo».
Sentii una fitta allo stomaco e un principio di nausea. Non amavo gli sconosciuti, meno ancora quelli che non bevevano alcol e non potevano offrirmene.
«Ho fatto il tè freddo. Vado a prenderlo».
Quando la vidi scomparire in cucina, aprii il mobiletto dei liquori con la punta della scarpa e misi a fuoco due o tre bottiglie dall’aria familiare, dopodiché mi avvicinai al telefono, chiusi la cornetta sotto l’orecchio e marcai il numero di casa. Lo facevo spesso, anche dall’ufficio, senza un vero motivo: me ne restavo immobile e lo ascoltavo suonare a vuoto immaginando il trillo che scivolava inutilmente tra le stanze.
«Hai visto il mio Bacillus?».
Dietro di me era comparso un adolescente magro magro, con i capelli lunghi e le guance butterate di acne.
«Cosa?».
«Il mio insetto stecco», disse, poi puntò l’indice in alto. «Pensano che sia uno scherzo divertente. Io lo ritengo infantile».
Lo guardai come si guarda un deserto.
«Non a caso lo chiamano insetto fantasma». Quando intuì che non avevo capito un accidente aggiunse: «Si mimetizza».
«Per questo è divertente!», gridarono delle voci all’unisono dalla soffitta, prima di scoppiare a ridere.
Alzai la testa ma non vidi nessuno. Appena tornai all’adolescente lo trovai steso sul pavimento, spazzava la stanza a mano aperta. Pochi secondi dopo era di nuovo in piedi, l’insetto faceva l’altalena tra le sue dita. «Lo conosco meglio di me stesso», disse con il sorriso di un angelo. Quindi risalì le scale, la soffitta si rianimò per qualche secondo, i passi si trasformarono in salti, finché non tornò il silenzio. E Anna, con due bicchieri di tè freddo.
«Sei molto cara».
«E tu molto cretino. Sono tornati nella loro tana?».
Portai il bicchiere alle labbra e annuii, immaginando di strafogarmi con uno di quei nocini o limoncelli fatti in casa.

(…)

(Riproduzione riservata)

Marco Amerighi

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