ORAZIO LABBATE racconta LO SCURU

febbraio 26, 2015

ORAZIO LABBATE ci racconta il suo romanzo LO SCURU (Tunuè). Un estratto del libro è disponibile qui

di Orazio Labbate

Perché “Lo Scuru” abbia possibilità di essere narrato, si deve annunciare una innaturale Trinità che il romanzo stesso dichiara di contenere nelle sue pagine: Lo Scuru, la Statua e U Diavulu. Questa scomposizione possiede gli elementi necessari di cui posso servirmi a mo’ di guida perché il racconto del libro si possa sostanziare in diversi periodi, posti e idee della mia breve vita, che hanno favorito la nascita del romanzo.

Il primo elemento: Lo Scuru

E’ stata la morte a farmi partorire lo Scuru.
A Butera, il mio paese natale (nonché spazio empirico e metafisico ove avviene principalmente Lo Scuru), morì mia nonna, quando avevo diciotto anni. La conoscenza del dolore, e l’evoluzione d’esso nella camera ardente, sino al punto di vederlo tramutarsi, secondo i miei occhi, in storpiamento delle cose reali, mi ha condotto a rivoluzionare la mia vita. Lì, in quel non-luogo, teatro della fine della carne, le potenti visioni religiose si sono scatenate. Visioni che covavo, anni prima da ragazzino, nella veste di chierichetto della parrocchia di San Rocco. La rabbia si è quindi frammischiata all’immaginazione di un nuovo ambiente e di una nuova, oscura, religione cattolica. Vidi quindi, grazie alla metafisica che accoglievo, le persone piangenti quali demoni o angeli, e poi vidi anche il soffitto divaricarsi per accogliere una luce e una Croce alle quali mia nonna si iniziò. Per contro, l’empiria fu padrona al cimitero dove mi resi conto definitivamente che mia nonna Maria fosse ormai sola: carne spenta. Fossimo io e lei nello Scuru. In questa Entità innominabile che è metà divina e metà diabolica eppure talmente malinconica, senza un Dio sopra di Essa solo gli uomini in grado di capirla.
Trascorsi la notte a scrivere in giro per il paese con un taccuino in mano, e poi di nuovo di nascosto al cimitero, da solo, scegliendo così i miei futuri posti di scrittura: la solitudine (la mia stanza), e i cimiteri. Ho dunque incominciato con impeto a scrivere il manoscritto embrionale che si chiamava “Sicilia mestruata” così battezzato dal mio maestro nonché grande sostenitore e amico Antonio Moresco.
Prima non avevo mai scritto seriamente, prima leggevo da impazzato Kafka, Dostoevskij, Borges, Bulgakov, Faulkner, McCarthy, Burroughs, Bufalino, D’Arrigo, e i gotici classici quali Hoffmann, Nodier, Meyrink, Poe, Stoker, e altri mentori di letteratura.

Il secondo elemento: la Statua

Da giovane chierichetto mi procurava suggestione, fino a incubi, una statua di cartapesta che rappresentava il Cristo accogliente dolorosamente sulle spalle la croce; la statua è chiamata a Butera: Il Signore dei Puci. Veniva condotta nottetempo, durante il Giovedì Santo, davanti alle diverse chiese paesane. La statua era fisiognomicamente orribile tale da indurmi a trasformarla, nella mia immagine infantile, alla mia prima idea iconica di Satana. Era come se la statua fosse posseduta, come se fosse accaduta una sorta di possessione rivolta verso un oggetto inanimato, un’originale vittima senza vita, all’interno di un significato, so bene, irrazionale dal punto di vista demonologico-possessorio.
Io tuttavia accudivo queste paure, e lo sentivo dentro di me, e percepivo sarebbero divenute humus fertile per una tensione alla letteratura che ancora pulsava e dunque non si dimostrava chiara. Pertanto la statua divenne, sedimentatasi nella mia mente tramite il tempo, un elemento di pensiero ancora addormentato ma pronto per essere pregato, coll’arte, fino al definitivo Lo Scuru.

Il terzo elemento: U Diavulu

U Diavulu non è solo stato, attraverso la rappresentazione figurata, il Signore dei Puci, è nella Trinità del romanzo anche lo stesso Lucifero che secondo la mia letteratura, in una veste gotico-americana, si manifesta e rivive lungo i territori di Butera e Gela. Trionfa in quel tratto stradale abbandonato, con la violenza degli incendi, colla potenza dei colori scuri e illuminati, colle nuove croci sacrileghe che sono gli spaccati pali legnosi della luce lasciati ardere la sera, con le chiesette lasciate preda di un solo lumino e non consacrate. Lucifero che è pure il cielo scoperchiato di stelle luminosissime nella Sicilia meridionale dove Esso abita. La sconfinata desolazione della strada Butera-Gela è per me dunque dominio del Diavulu.
I campi sono i suoi regni apocalittici, secchi e costellati di alberi spogli, sembra che sia già avvenuta la battaglia ultimativa dei due Cieli, pare che tutti i dimenticati e i solitari camminino la notte nella pianura infernale gelese la quale introduce alla città greca e al suo castello underground, il petrolchimico Eni. Pare allora possibile ricostruire una scena di True Detective, pare allora verificabile anche lì l’impazzata corsa di Llewelyn Moss di Non è un paese per vecchi.

In conclusione, per chiudere questa narrazione personale, propongo delle domande chiare e razionali che possono sorgere dopo questa lettura o dopo la lettura del romanzo: “perché non vi è luce in questa tua Sicilia meridionale? Perché è così oscura? Perché la bruttezza di una statua deve rimandare al Demonio? Perché la Sicilia meridionale è americana e infernale? Siamo in Texas o nella Sicilia meridionale?”
Ecco, queste questioni sono il motivo per cui ho scritto Lo Scuru, e sono anche il libro nella sua remota verità.

(Riproduzione riservata)

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Orazio Labbate è nato a Mazzarino nel 1985 ma ha vissuto sin dall’infanzia a Butera; si è poi laureato in giurisprudenza all’università Bocconi. Collabora con le riviste on line Il primo amore e Repubblica nomade. Dirige la rubrica «Mostri notturni» sulla rivista Fuori Asse. Il suo blog è Sicilia texana.

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