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JOHN CHEEVER: Le lettere (un estratto della postfazione)

febbraio 27, 2015

Pubblichiamo un estratto della postfazione del volume “LE LETTERE” di JOHN CHEEVER (Feltrinelli). La postfazione è firmata da Tommaso Pincio (che è anche il traduttore dell’opera). Per accedere allo “speciale” sul libro, cliccare qui…
Il volume è curato da Benjamin Cheever (figlio dello scrittore)

Il libro
“Conservare una lettera è come cercare di preservare un bacio” diceva John Cheever per esortare parenti e amici a gettare quelle che lui scriveva. E proprio perché convinto che i destinatari gli avrebbero dato ascolto, il Cˇechov dell’America suburbana ha confidato per lettera pensieri e timori, eventi importanti e cose di tutti i giorni, e lo ha fatto con un candore, una freschezza, un senso dell’umorismo, una verità che non si riscontrano neppure nei diari. Recuperata e riunita dal figlio dello scrittore, la corrispondenza di Cheever può essere considerata a tutti gli effetti un’autobiografia involontaria, e per questo più sincera e incantevole di una normale autobiografia”.

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La postfazione di “LE LETTERE di JOHN CHEEVER (Feltrinelli)

L’ergastolo delle apparenze

di Tommaso Pincio

Lessi il mio primo Cheever in piscina. Potrei abbellire il ricordo
di questo colpo di fulmine aggiungendovi una menzogna tutto
sommato innocente, come spesso faceva anche Cheever nelle sue
lettere. Del resto, nessuno si stupirebbe più di tanto se dicessi che
il racconto in questione era Il nuotatore. Forse non sarebbe neppure
necessario mentire, basterebbe limitarsi a dire di avere letto
Cheever per la prima volta in piscina, senza specificare alcunché,
e il pensiero di ognuno andrebbe all’istante al suo racconto più
famoso. Sarebbe la cosa più logica, più naturale. L’ipotesi è a tal
punto plausibile che a volte il dubbio mi sfiora. Magari ricordo
male, mi dico, magari era davvero Il nuotatore. Ma ricordo benissimo,
non era affatto Il nuotatore. Per giunta, poco importa di
quale Cheever si trattasse. Nelle mie molte estati trascorse in piscina
ho letto tanti di quei libri da poter tranquillamente affermare
che le mie letture di gioventù sono state perlopiù letture da piscina.
È una lista lunghissima, quella degli autori che ho scoperto su
una sedia a sdraio, a bordovasca. Che tra questi vi sia rientrato
anche Cheever è un fatto scontato, nell’ordine delle cose, anzi della
statistica, e perciò privo di un significato speciale.
Nondimeno di quel particolare incontro mi sono rimaste immagini
vivide, e non mi riferisco tanto alle immagini evocate dallo
scrittore nelle sue pagine, bensì all’ambiente che avevo attorno
mentre leggevo. Rivedo come fosse ora il libro aperto nelle mie
mani, il bianco della carta risplendere sotto i raggi del sole inghiottendo
le parole nel suo bagliore, vedo il prato all’inglese che circonda
la piscina e le alte siepi che fanno da recinzione, sento lo
sciabordio dell’acqua, le grida di qualche bambino, le chiacchiere
di una giovane coppia poco lontano. A nessuno dei molti altri libri
che ho letto in quella piscina riesco ad associare immagini altrettanto
vive; so di averli letti in quel luogo e in un dato periodo, ricordo
l’impressione che ne ho ricavato, ma non riesco a rivedere
me stesso mentre leggo in piscina.
Non saprei dire con esattezza perché la mia memoria abbia
avuto un così speciale riguardo per Cheever, ma escludo che il
perché vada cercato nel fatto che il suo libro mi sia piaciuto più di
altri. A lume di logica, si potrebbe perfino giungere alla conclusione
opposta: che il circondario mi sia rimasto impresso perché il
libro non mi catturò granché. L’ipotesi che preferisco, e forse la
più verosimile, è tuttavia un’altra. Malgrado si trovasse nel centro
di Roma, notoriamente caotico e rumoroso, la piscina era immersa
in una tranquillità quasi irreale; era pulita, ordinata, frequentata
da poche persone, sempre le stesse e tutte molto perbene, lo scenario
ideale di un racconto di Cheever insomma. Tale somiglianza
è evidentemente immaginaria ed effimera, ma il nocciolo della
questione consiste proprio in questo, nella sua falsità, nella precarietà
delle apparenze.
A fare di John Cheever il cantore supremo del New England
suburbano fu la sua profonda conoscenza della puritana ossessione
per l’ordine e il decoro tipica di quelle zone. Nei suoi racconti,
pare spesso infierire su certe ipocrisie e lo fa con quell’ironia contegnosa
che è un tratto distintivo del suo stile. Pensare che le disprezzasse
sarebbe un grave errore. Era il suo mondo, ne coglieva
distintamente limiti e piccolezze, ma questo non gli impediva affatto
di amarlo, anzi lo amava proprio per i limiti e le piccolezze.
Il culto delle apparenze praticato in famiglia e coi vicini, al riparo
dal ritmo convulso della grande città, in case immerse nella natura,
protette da giardini ben curati e steccati meticolosamente dipinti,
costituiva per lui lo specchio ideale nel quale contemplare la
condizione umana. A Cheever non sfuggiva di certo quanto possa
essere meschino il mortificante spettacolo delle menzogne domestiche
messo in scena ogni giorno allo scopo di tenere in piedi un
matrimonio traballante o un’amicizia densa di risentimenti o magari
soltanto un vago rispetto di sé. Essendo quotidiana, la finzione
domestica è, prima ancora che meschina, una gabbia, una prigione
nella quale ci si rinchiude a vita, e in quanto tale presuppone
anche dedizione e sofferenze, e dunque una dignità, la dignità
propria del prigioniero.
Nel 1979, tracciando un bilancio in età ormai avanzata, Cheever
riconobbe che uno dei temi fondamentali della sua opera andava
ricercato nella prigionia, che fosse l’esilio in un paesino del
New England o i rigori di una passione personale o la pena da
scontare in un carcere vero e proprio come quello descritto in
Falconer. “Mi sono spesso ritrovato ingabbiato dai miei limiti fisici
e intellettuali,” aggiunse nella medesima circostanza, “ma credo
che la scoperta delle libertà che un individuo può godere nelle
restrizioni della propria mortalità è di fatto l’essenza del vivere su
questo pianeta.” Nel pianeta John Cheever, la prigionia più definitiva,
o almeno quella che era all’origine di ogni altra forma di reclusione,
restava in ogni caso l’ergastolo delle apparenze, e il perché
è ovvio: soltanto le apparenze sono per la vita e a prova di
fuga. In fin dei conti, da un paesino del New England è sempre
possibile andarsene, come si può tentare un’evasione o rinunciare
a una passione. Liberarsi una volta per tutte della schiavitù di recitare
una parte è invece impossibile, a meno di non tagliare i ponti
col prossimo e limitarsi a un’esistenza di totale indipendenza e
solitudine. Essere sempre e soltanto se stessi restando in rapporti
buoni o decenti con il consorzio umano è una pretesa da folli:
presto o tardi arriva il momento in cui si è costretti a essere ciò che
non si è o che non si vorrebbe essere. Nella buona e nella cattiva
sorte, così ci si unisce in matrimonio; il patto sociale non prevede
un giuramento tanto esplicito, ma poco cambia: nella verità e nella
menzogna, soltanto così si può stare al mondo.
Ridurre John Cheever all’immagine che spesso ne viene data,
ovvero quella di un elegante narratore della vita dei sobborghi, il
brillante fustigatore dei vizi del ceto medio americano, significa
eliminare dal quadro ciò che è davvero essenziale, le lancinanti
contraddizioni che sono il sale dell’esistenza, ovunque e comunque.
A dispetto delle frequenti scappatelle e di quelle che lui chiamava
le “tendenze difficili”, John Cheever non sarebbe John
Cheever se non fosse stato uno strenuo difensore della monogamia
e un ancor più fiero oppositore dell’omosessualità. Nulla è più
giustificato di leggere il suo fermo intento di non considerarsi
omosessuale come una negazione, un meccanismo di autodifesa
messo in moto dalla paura di un qualcosa che non poteva accettare.
Nondimeno, quando Cheever parlava in quei termini, quando
affermava che l’omosessualità rende gli uomini ridicoli, quando
magnificava i vantaggi della monogamia, non era tanto a se stesso
che pensava. Parlava in quei termini in nome delle apparenze, perché
in esse vedeva qualcosa di essenziale e irrinunciabile, prima
ancora che inevitabile.
[…]
(Riproduzione riservata)

© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

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John Cheever (Quincy, Massachusetts, 1912 – Ossining, New York, 1982) è stato uno dei massimi scrittori americani del Novecento. Vincitore del premio Pulitzer con I racconti (1979; Feltrinelli, 2012), eccelse anche nel romanzo con capolavori come Cronache della famiglia Wapshot (1957; Feltrinelli, 2012), Bullet Park (1969; Feltrinelli, 2012), Falconer (1977; Feltrinelli, 2013) e Sembrava il paradiso (1982; Feltrinelli, 2014). I suoi ritratti dell’inquieta borghesia americana sono stati di ispirazione per un’infinita serie di scrittori, registi e artisti visivi. Feltrinelli sta riproponendo tutte le sue opere principali, fra le quali sono da segnalare anche la raccolta dei suoi racconti (2012), i suoi diari inediti scritti tra la fine degli anni quaranta e il 1982 (Una specie di solitudine, 2012) e le sue lettere (2015). Feltrinelli ha inoltre pubblicato, nella collana digitale Zoom, Il nuotatore (2012).

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© Letteratitudine

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