Home > Articoli e varie > SPECIALE PREMIO CALVINO 2015

SPECIALE PREMIO CALVINO 2015

giugno 18, 2015

SPECIALE PREMIO CALVINO 2015: vincono Cristian Mannu e Valerio Callieri

Cristian Mannu

Valerio Callieri

La Giuria (composta da: Paolo Giordano, Dacia Maraini, Francesco Permunian, Fabio Stassi, Chiara Valerio) decide di assegnare il premio ex aequo ai romanzi: Maria di Ísili di Cristian Mannu e Teorema dell’incompletezza di Valerio Callieri.

Maria di Ísili si colloca con timbro originale nel solco della sempre viva e fruttuosa tradizione sarda: testo denso e compiuto, dal sorprendente respiro metrico, fatto di una polifonia di voci, tra le quali si staglia quella della protagonista, una donna che, nel tragico inanellarsi degli avvenimenti, incurante degli interdetti sociali, segue la legge del desiderio.

Teorema dell’incompletezza con spirito fresco e ardimentoso, avvalendosi di una variegata tastiera linguistica, affronta in modo documentalmente inappuntabile uno scorcio di storia italiana, gli anni del conflitto sociale e del terrorismo, in stretto intreccio con la realtà desublimata e postpolitica di oggi, un presente nel quale il fantasma del passato si insinua con effetti perturbanti.

Daniel di Schuler

Una menzione speciale della Giuria va ad Alberto Kappa. Note di un risveglio di Daniel di Schuler. Un oggetto misterioso, stratificato, enciclopedico, racchiuso nel tempo di un risveglio mattutino, dall’apparente tratto divagante e dall’attitudine giocosa, che, senza parere, dispiega con ingegnosità, attraverso l’occhio di un uomo qualunque, una storia antropologica dell’Italia dagli anni sessanta ad oggi.

Yasmin Incretolli

Una seconda menzione speciale della Giuria va a Ultrantropo(rno)morfismo di Yasmin Incretolli, romanzo fieramente «ultrasperimentale», che, in una sorta di esibita estetica del disagio e della sgradevolezza, persegue l’estremo. Gli esiti sovente inediti ed efficaci dell’ardua scelta stilistica e l’intensità della passione adolescenziale narrata rendono il testo della giovanissima autrice un’interessante scommessa.

* * *

APPROFONDIMENTO SUI LIBRI VINCITORI

 MARIA DI ÍSILI
(Cristian Mannu, 1977)

Visualizzazione di _DSC1226edit.jpgUn coro polifonico che racconta, attraverso diversi capitoli-soggettive (narrazioni in prima persona di dieci diversi personaggi) un tragico intreccio di vite ambientato in una Sardegna remota, prevalentemente rurale (ma non solo, c’è anche uno spezzone cittadino, cagliaritano), dove la storia, la storia nazionale (e con essa una cronologia a cui appigliarsi) fa irruzione solo tardi con lo scudetto del Cagliari del 1970 e l’invenzione della Costa Smeralda degli anni Sessanta. Una Sardegna fatta di donne vestite di nero, ramai vagabondi e sciupafemmine, levatrici e figli burdi (illegittimi), di segreti indicibili e indicibili fatti di sangue, di mammane-accabadore e richiami a Grazia Deledda. Sono voci di vivi e di morti, come in una sorta di Spoon River isolano, associazione peraltro suggerita dall’autore con la citazione in epigrafe del Suonatore Jones di De André. Sono voci individuali e individuate, vivide e reali, ciascuna con la sua intonazione e con la sua particolare piegatura (tanto è lirica, appassionatamente delicata la voce di Maria, un bellissimo personaggio, quanto è grossolana e prosaica – forse troppo – la voce di Michele Pinna, suo padre per l’anagrafe). Questa capacità di cambiare registro, questa duttilità della scrittura (con un ricorso, anche, al dialetto, attento e calibrato) è uno dei pregi del libro insieme alla sua sapiente architettura, all’ardita e riuscita costruzione di una trama coerente attraverso frammenti, progressive acquisizioni, progressivi avvicinamenti a qualcosa che comunque continua a sfuggire. Come in Rashomon, la vicenda viene declinata da diversi punti di vista: ne emergono le mille sfaccettature della verità, la sua ineludibile relatività. Lo stesso personaggio, Antonio Lallài, “girovago d’amore e del rame”, ci appare ora come guastatore di famiglie, ora come nomade romantico, ora come amato e amante appassionato, ora come preda, unicamente, del demone della conquista.
La visione che scaturisce dall’insieme del romanzo è una visione drammatica, dall’orizzonte chiuso: tutti i personaggi, in qualche modo, escono sconfitti dalla loro esperienza esistenziale, sia quelli che si abbarbicano ai valori tradizionali dell’onore, della religiosità, del rispetto dei ruoli sessuali, sia chi, come Maria, il personaggio princeps (attorno alla cui contrastata e convulsa storia d’amore con Antonio Lallài si aggruma l’intero romanzo), segue un proprio intimo percorso travalicando i valori costituiti. Nell’ultimo capitolo, quello intestato a una seconda Maria, nipote della prima, si tenta una conciliazione finale, pacificante, ma non a caso, forse, appare il pezzo meno riuscito.
Ancora una volta si ripropone per gli scrittori sardi il rapporto con la tradizione (ed anche, quindi, con la loro lingua), con una tradizione che appare sempre feconda, non di maniera: la tradizione, insomma, “è sempre con te”, pur fruttificando in maniere sempre diverse, ma che pare abbiano bisogno di una struttura permanente in cui inserirsi. E il nostro autore si inserisce degnamente in essa con un proprio taglio decisamente personale. Qui non abbiamo banditi, balentes, faide, ma una strategia delle emozioni e dei sentimenti tragica, insieme profondamente individualistica e culturalmente conformista, che sembra essere la cifra autentica di questa tradizione.

CRISTIAN MANNU, classe 1977, è papà di tre figli (l’ultimo nato meno di un mese fa) e vive a Cagliari, dove da una decina d’anni lavora come commerciale per un istituto di credito. Ha frequentato lo storico Liceo Ginnasio “Siotto . Pintor” (lo stesso di Sergio Atzeni e Flavio Soriga), e solo la tesi lo separa dalla Laurea in Filologia italiana

 

* * *

TEOREMA DELL’INCOMPLETEZZA
(Valerio Callieri, 1980)

Visualizzazione di _DSC1209edit.jpgTeorema dell’incompletezza è un romanzo stratificato, impervio, denso, che affronta in modo inconsueto gli anni che, in Italia, hanno condotto alla stagione del terrorismo, culminata con il rapimento di Aldo Moro e con le drammatiche vicende concernenti il memoriale dell’onorevole democristiano, mai ritrovato nella sua versione originale. Il giovane autore affronta, sulla base di un’ottima documentazione, la storia italiana dell’ultimo cinquantennio intrecciandola con una vicenda privata che si svolge prevalentemente ai giorni nostri.
Il romanzo si rivela come l’interessante tentativo di fare irrompere la finzione letteraria nello spazio dei testimoni e della memoria, in un continuo e duplice tentativo di interpretare la storia e di reinventarla, non attenendosi a linee narrative codificate, quali la memorialistica delle vittime o dei carnefici, o la ricostruzione dei torbidi segreti e dei complotti del potere. Siamo a Roma in un ambiente periferico, a Centocelle (sfondo pasoliniano), tra perdigiorno, piccoli spacciatori, universitari arenati ma non privi di una loro cultura, per quanto mimetizzata. Viene ammazzato il proprietario di un bar. I figli, Tito, un poliziotto di fede neofascista (tra l’altro, convinto protagonista dei fatti di Bolzaneto), e il fratello più giovane ‒ un laureato dei nostri tempi dall’impiego inadeguato e dallo spirito blandamente movimentista, accidioso e non alieno dal fare uso di sostanze, che sogna, per spirito di risentimento una “pandemia mondiale” ‒ per motivi diversi, vogliono capire chi è il responsabile, vogliono in qualche modo fare giustizia, vendicando la morte del padre, visto che ufficialmente il caso è stato chiuso come uno scontato fatto di rapina. La voce narrante è quella del fratello minore, di cui non conosceremo mai il nome, ma solo un soprannome, chicchè, di per sé emblematico della sua anodina postura esistenziale. Si sentono investiti, in particolare Tito, della missione di Oreste, o di quella di Amleto (di passata, notiamo che il testo, tra le righe, è tutto intessuto di riferimenti colti, come dissimulati dal linguaggio spesso dialettale o gergale). Tito, per capire, sintetizza in una serie di rapide annotazioni criptate la storia italiana dei misteri, delle stragi, a partire dal crollo del fascismo. A poco a poco la verità emerge, una verità che non è certamente quella desiderata da Tito (il quale, nel suo delirio ideologico di un mondo fatto di guerrieri e di re, vagheggia un padre segretamente coadiutore dell’ordine costituito). In realtà, il padre, ex fonditore alla Fiat negli anni Sessanta, all’epoca della grande immigrazione (precisa, la descrizione della Torino operaia e contestatrice di quegli anni), nasconde un passato da rapinatore prima (quando dopo un incidente sul lavoro che distrugge la vita di un amico, decide di “diventare inferno”) e da fiancheggiatore delle BR poi, come amante di una fanatica e appassionata brigatista, Clelia, coinvolta nella vicenda del memoriale Moro. E proprio nel destino di tale memoriale, del quale si fornisce un’immaginosa, ma non implausibile soluzione, sta il movente del delitto. Vengono a galla, nell’intricata vicenda, connivenze di ogni tipo tra ambienti malavitosi, politici e forze dell’ordine (si staglia qui la figura di Pierpaolo, dagli occhi melmosi e dal sorriso retrattile, uomo di potere, un re nel linguaggio di Tito, amico di gioventù del padre e capo, poi, della polizia). Interessante e nuovo è l’impianto, narrativo che vede l’irrompere del passato nel presente (come in V di Pynchon) in una sorta di ponte di Einstein-Rosen, che assicura un passaggio tra diversi punti spazio-temporali: al figlio minore si presenta insistentemente il fantasma del padre (Amleto) tramite cui riesce a visionare con nitidezza episodi del passato.
Le pagine del romanzo, però, non ci offrono solamente il racconto serrato e credibile di una vera e propria indagine, ma possiedono una poetica di fondo che costituisce il pregio maggiore del libro: l’incessante tensione tra la necessità di ricordare, personificata dal fantasma del padre (ma forse anche dal fantasma di Moro, che aleggia per tutto il libro), e il desiderio di non sapere, di non farsi “voltare la faccia dagli schiaffi del passato” ‒ resistenza simboleggiata da un esercito di indolenti cavallette che abitano la mente del protagonista ‒, unita al continuo interrogarsi sulla verità di ciò che accade, che non è mai certa né dimostrabile (secondo il Teorema dell’Incompletezza di Gödel, ogni sistema contiene delle proposizioni vere che non sono dimostrabili all’interno del sistema stesso, spiega un’amica al nostro protagonista, ma ciò non deve toglierci la spinta e il coraggio a voler sapere e capire, perché esistono cose vere e non dimostrabili a cui vale la pena credere).
La scrittura è buona. L’originale impianto del romanzo è talora debordante (si vuole forse dire troppo, benché le cose siano tenute, tutto sommato, sotto controllo), con un finale piuttosto affrettato, dove la narrazione sembra trasformarsi in un action movie americaneggiante. Aspetto peraltro emendabile. Resta il coraggioso azzardo della costruzione di un romanzo complesso, sicuramente fascinoso, senza arretrare di fronte alle difficoltà.

VALERIO CALLIERI è nato a Roma nel 1980. Laureato a La Sapienza con una tesi in Sociologia delle comunicazioni di massa, si è poi diplomato alla scuola Holden di Torino, città in cui ha vissuto vari anni. Ha lavorato come analista della stampa e in campo cinematografico come assistente alla regia. In qualità di videomaker ha scritto e diretto il documentario I nomi del padre. Pubblica sotto diversi pseudonimi sul blog Tardigrad.it

* * *

© Letteratitudine

LetteratitudineBlog / LetteratitudineNews / LetteratitudineRadio / LetteratitudineVideo