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LE TRE NOTTI DELL’ABBONDANZA di Paola Cereda: incontro con l’autrice

luglio 8, 2020

“Le tre notti dell’abbondanza” di Paola Cereda (Giulio Perrone editore): incontro con l’autrice

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Paola Cereda, nata e cresciuta a Brianza, è laureata in Psicologia a Torino con una tesi sull’umorismo ebraico. Si è specializzata in cooperazione internazionale, in particolare in teatro comunitario e arte per la trasformazione sociale. Ha viaggiato e lavorato in molti Paesi, tra i quali Colombia, Argentina, Egitto e Romania. Attualmente collabora con ASAI Associazione di Animazione Interculturale, e si occupa di progetti teatrali e culturali con giovani italiani e stranieri. Per due volte finalista al Premio Calvino (2001, 2009), nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo Della vita di Alfredo, ed. Bellavite. In seguito Se chiedi al vento di restare (Piemme, 2014, finalista al Premio Rieti), Le tre notti dell’abbondanza (Piemme, 2016, Premio Pavoncella 2016 per la Creatività Femminile, sez. Letteratura). Con Confessioni Audaci di un ballerino di liscio (Baldini&Castoldi, 2017) è stata finalista al Premio Rapallo Carige e al Premio Asti d’Appello. Ha ricevuto la menzione speciale della Critica al Premio Vigevano 2017. Quella metà di noi (Giulio Perrone editore, 2019) è entrato nella dozzina del Premio Strega 2019, arrivando sesto. Il romanzo ha vinto il Premio Segafredo Zanetti “Un libro, un film” 2019 e il Premio Brianza 2019.

Le tre notti dell’abbondanza è stato ripubblicato nel 2020 per Giulio Perrone Editore.

Abbiamo chiesto a Paola Cereda di parlarcene…

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«Ci sono intuizioni che attraversavano la mente e restano lì», ha detto Paola Cereda a Letteratitudine, «in attesa di trasformarsi in azioni in chissà che modo e occasione.
Immagine correlataMolti anni fa, a Madrid, uscendo dalla metropolitana mi ritrovai davanti al cartello pubblicitario di un’agenzia di viaggi che diceva a grandi lettere: Argentina, algo más que un destino. Destino, parola di sette lettere che contiene un’idea, una possibilità e, allo stesso tempo, una destinazione.
Avevo da poco concluso un periodo doloroso della mia vita e avevo riempito un magazzino di scatoloni sui quali avevo messo delle semplici etichette, per fare ordine in tutta quella confusione: vestiti, scarpe, cappelli, narrativa, libri di psicologia. Dizionari. Appunti universitari. Scatola dei momenti felici, la prima a viaggiare con me nei tanti traslochi e l’unica a non essere mai stata riaperta.
Proprio in quel periodo feci un biglietto aereo di andata e ritorno per Buenos Aires con l’idea di buttare via il ritorno nel caso in cui avessi trovato lavoro nella Capital, cosa che successe un mese e mezzo dopo il mio arrivo. A Baires ci sono rimasta quasi tre anni ed è lì che ho conosciuto l’Arte e la Cultura per la trasformazione sociale, un insieme di pratiche artistiche che parte dalle storie dei singoli e dei paesaggi per trasformarle in atto trasformativo del Sé e del contesto. In particolare, i due registi di origine uruguaiana Adhemar Bianchi e Ricardo Talento avevano costruito uno straordinario strumento di trasformazione sociale chiamato teatro comunitario.
L’origine del teatro comunitario in Argentina risale all’inizio degli anni ’80, quando la gente aveva l’immensa voglia di lasciarsi alle spalle il regime dei colonnelli per elaborare finalmente il lutto legato alla scomparsa dei trentamila desaparecidos: c’era bisogno di tornare a incontrarsi per dare forma a ciò che continuava a fare male perché era esistito e non era mai stato raccontato. Adhemar Bianchi e Ricardo Talento si erano stabiliti a La Boca, il quartiere dello stadio della Bombonera dove Maradona faceva sognare los xeneizes, i genovesi. Ancora oggi i tifosi del Boca Juniors si chiamano così, in omaggio ai tantissimi italiani che un tempo abitavano nei conventillos de chapa y de madera del quartiere. I conventillos erano baracche di lamiera e legno dove intere famiglie di italiani e spagnoli vivevano in una sola stanza, con i bagni in comune e un grande patio centrale. Adhemar e Ricardo iniziarono a bussare alle porte per invitare los vecinos (i vicini di casa) a incontrarsi per dare origine al primo nucleo del gruppo di teatro comunitario Catalinas Sur, che oggi – dopo quasi quarant’anni – conta centoventi vicini di casa (compañeras y compañeros) che ogni settimana si ritrovano al Galpón de Catalinas per le prove, gli spettacoli e gli innumerevoli laboratori gratuiti di recitazione, canto, orchestra popolare, drammaturgia collettiva, marionette, murga e molto altro. Nel frattempo Ricardo ha fondato il Circuito Cultural Barracas in un altro quartiere periferico della città, e i due gruppi continuano a collaborare all’interno di una rete che attualmente conta più di trenta realtà artistiche in tutta la nazione.

Il senso e le possibilità dell’arte sociale sono al centro del mio romanzo Le tre notti dell’abbondanza, pubblicato nel 2015 da Piemme e riproposto nel 2020 da Giulio Perrone Editore.
La protagonista si chiama Irene, ha quindici anni e vive a Fosco, un paese calabrese che non c’è ma che potrebbe esistere. Siamo nella metà degli anni ’80. Irene ha sempre un quaderno arancione tra le mani, dove disegna la realtà non così com’è ma come lei se la immagina. Il disegno è il modo attraverso il quale la ragazza si interroga su di sé, sulle relazioni familiari e sociali e sul contesto malavitoso nel quale è costretta a vivere.
Per Irene l’arte è lo strumento che dà forma alla propria interiorità e che le permette di guarire dalle ferite e dai lutti che è obbligata ad affrontare. Non solo: l’arte diventa anche una possibilità concreta di ribellione, di riscatto e, infine, un atto comunitario, condivisibile e vivifico.
In questo senso, il teatro comunitario e l’arte di Irene hanno lo stesso ruolo che la scrittura e le storie hanno avuto e hanno nella mia vita. Da adolescente affidavo ai diari le riflessioni e i pensieri più intimi, e spesso scrivevo per elaborare le separazioni e i lutti. Crescendo, ho continuato a scrivere per piacere e per bisogno, fino ad arrivare a condividere le storie grazie ai libri, ai lettori e al lavoro nel sociale che mi permette di scrivere anche al di fuori dei romanzi, e di farlo insieme agli altri.
Perché la scrittura e, in generale le passioni e le arti, ci fanno stare bene? Forse perché ci permettono di avere un centro. Mentre tutto ruota, passa e si trasforma, le passioni restano lì, nel bel mezzo del nostro Io, per dirci che la soddisfazione del quotidiano dipende soprattutto dal piacere di riconoscerci in ciò che facciamo. Ancor di più quando questo fare è condiviso e plurale».

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Le tre notti dell'abbondanza - Paola Cereda - copertinaLa scheda del libro: “Le tre notti dell’abbondanza” di Paola Cereda (Giulio Perrone editore)

Fosco è un paese arroccato su uno scoglio a picco sul mare. Per arrivare alla spiaggia, bisogna avventurarsi lungo una scala di legno e pietra che nessuno si è mai preso la briga di aggiustare. Perché il mare è maledetto e gli abitanti non lo possono avvicinare. La Calabria di Fosco è una terra aspra dove il tempo scorre lento, dove tutti corrispondono ai propri ruoli e ai propri cognomi e, fin dalla nascita, hanno il loro posto nel mondo. Le regole, dettate dalla malavita locale, sono legge per coloro che lì nascono. Per tutti, ma non per Irene.

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