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CRUDELI TENEREZZE di Giuseppe Bella

marzo 30, 2022

Crudeli tenerezze - Giuseppe Bella - copertina“Crudeli tenerezze” di Giuseppe Bella (A & B)

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La scrittura. Un affaire irrevocabile con la vita

di Salvo Sequenzia

Giuseppe Bella, scrittore di colta e seduttiva scrittura, ha recentemente consegnato alle stampe Crudeli tenerezze (A & B, 2021), una raccolta di ventitré raffinatissime prose che  dialogano con opere di artisti siciliani contemporanei.
«Gli scrittori che traggono ispirazione da un dipinto o da una scultura sono tra i più fortunati: – osserva Rocco Giudice nella sapida Prefazione all’opera – un’invenzione letteraria li porterà lontano dall’opera, ma permetterà al lettore di scoprire un capolavoro  o di vederlo, come suol dirsi, con occhi nuovi».
Pippo Bella, psicologo e psicoterapeuta, non è nuovo in simili incursioni nel mondo dell’arte. La sua «invenzione letteraria» sgorga da incontri fatali con artisti e con opere d’arte, ed è nella felice intimità di questi incontri che l’autore ‘inviene’  la dimensione perfetta di uno  ‘spazio bianco’ – mitico e ancestrale, direi anche psichico – su cui egli  trascrive, seguendone l’inquieto frego, un’inedita storiografia di esistenze e di poetiche, non più coincidente con la visione immobile e lineare del dipinto o della scultura, quanto, piuttosto, aperta ad accogliere e a registrare, secondo una inedita strategia testuale, i sommovimenti, le ‘risorgive’ pulsionali, i ritorni intempestivi di situazioni esistenziali,  le resurrezioni improvvise del senso e del significato.
L’immagine che sta dietro a ogni prosa si fa dunque  evanescente, ed esiste solo in quanto evocata dallo scrittore; non ha consistenza in sé, scioglie quella determinatezza formale, tipica dell’ambito pittorico ed avvertita come un limite, dando così spazio alla varietas degli sviluppi narrativi che ne declinano le scaturigini, le simbologie,  i rimandi, i valori formali e sostanziali.
Nei racconti di Bella si ‘rinvengono’ Freud (il Freud di Gradiva) e Warburg (il Warburg della Pathosformel e della ‘biografia psichica’ dell’opera d’arte). Leggerli, è come  incamminarsi lungo un corridoio, una Galeria barocca in cui a ‘parlare’  non è più l’opera d’arte, ma  il  ‘riverbero’ di essa nella mente dello scrittore.
La Galeria si tramuta, sicché,  nello spazio pittorico-mentale ‘rivelato’ dalla scrittura e rischiarato dai luminosissimi «Phares» individuati dall’autore: Salvatore Bella, Tano Brancato, Calusca, Irene Catalfamo; e, ancora, Cristaudo, Indaco, Politano, Sottile, Finocchiaro, Grasso, Leonardi, Mazzullo, Nicolosi, Pennisi, Platania, Federici, Pupillo. Dalla ‘vertigine’ di un assoluto spaesamento che si dà in questo ‘intreccio di voci’ lo scrittore coglie un intimo legame, un assillo, un comune tormento situando le opere di questi artisti – «solitari come nuvole», secondo la lucida e felice indicazione di Giuseppe Frazzetto –  nella galassia  di uno spazio post-copernicano, alle soglie del precipizio del post-moderno.
Pippo Bella non si accontenta di ‘mostrare’ i dipinti attraverso gli occhi, in quanto perfettamente conscio che il piacere della mente, i cui aditi, secondo Aristotele, risiedono nei sensi, risulta completo solo se partecipano tutti e cinque i sensi. Bella, come il secentista Giambattista Marino, autore di quella Galeria (1619) che tanta fortuna ebbe nell’Europa affascinata dalle ebullizioni estetiche del Barocco, ‘dipinge’ scrivendo; ovvero, scrive sotto la dettatura non solo di suggestioni pittorico-sensoriali, ma anche sotto l’incursione dell’onirico, del memoriale, di quell’enciclopedia mitico-simbolica cui, secondo Hillman, attinge l’artista, il Puer/Senex aeternus. In tal senso, Bella nella sua Galeria di narrazioni, di interrogazioni della memoria, di epifanie, di ekfrasis elusive si rivela scrittore neobarocco e surreale, come Manganelli o Landolfi. Come Savinio.
Nel racconto d’ingresso, Una pittura di angeli difettosi, il pittore citazionista in crisi di auto-stima e di identità decide di «rifondare» la sua arte, fasulla come il mondo perfido e scilinguato dei collezionisti e dei critici à la page in cui sinora ha vissuto. La «putredine» di quel mondo incancrenito contagia le sue tele, che egli riduce a brandelli ammucchiati nel suo studio. In preda a un delirio goyesco, l’artista «produce monstruos», e tenta riparo nel piacere del sesso. Su di lui incombono «messaggeri sgraziati, spesso in sembianza di  mostri miti, levitanti  sempre a mezz’aria e mai posati, privi di grazia ma da questa perdita non afflitti, senza ali». I fantasmi del «mundo por di dentro» irrompono nel reale quotidiano: «Riemergevano dalla mia infanzia i terrori della notte, ma anche le sue fiabe più felici». Da una di queste fiabe appare l’angelo «difettoso», il bambino dal corpo corrotto, martoriato dalla putredine frutto della «colpa» di cui si  è macchiato egli stesso  e si sono macchiati gli angeli del Libro di Enoch, innamorati delle figlie degli uomini. Distruggendo la sua arte col fuoco purificatore, l’artista sana le ferite del messaggero dell’incorrotto, insieme alle sue.
A proposito di questo inquietante e benefico racconto, mi piace richiamare  il concetto di «conoscenza incarnata» teorizzato  da Michel Serres, che aiuta a riconoscere il mondo e a comprenderne alcune turbolenze: concetto che  inaugura una prospettiva filosofica aperta alla contemporaneità sotto il segno di Ermes e, quindi, diffusa nelle modulazioni di una nuova «angelologia» (cfr. M. Serres 1997).   Non ritengo un caso il fatto che  che Bella abbia posto in limine al suo libro il racconto dell’epifania dell’angelo difettoso. In primo luogo, esso si distacca da tutti gli altri scritti che compongono la raccolta in quanto è l’unico a non scaturire da un confronto con un’opera d’arte. In secondo luogo, dalla narrazione affiora e si individua un tentativo di poetica; o, meglio, si costituisce una ‘teoria’ che Bella ha della scrittura come operazione ermeneutica, come processo che mette in comunicazione più mondi, più dimensioni, più stati dell’esistenza dell’uomo e dell’universo. E in ciò, il pensiero di Bella si accosta a quello di Serres.
Serres si è dedicato da oltre un ventennio a descrivere, in mappe e in racconti, le forme e le  vicende di un universo che comunica globalmente, a partire dai suoi flussi fisici primari e dai suoi organismi più elementari. Dopo aver abbandonato l’epistemologia per l’enciclopedia e avere rintracciato i fili complessi che uniscono locale e globale nei modi di un pensiero topologico e di una filosofia dei «corpi mescolati», in Légend Des Anges (1993),  Serres oltrepassa l’ostacolo della distinzione uomo-mondo, in direzione di un nuovo sapere che fonda l’universo intelligente, cosparso di messaggi, di proiezioni simboliche e immaginali, di risonanze e di presenze mobili. La metafora dell’angelo, in tal senso, tesse un mobile universo di soffi e di reticoli, annunciando un pensiero nuovo sciolto dai vincoli del tempo, dello spazio e dalla pesantezza, impregnato di relazioni di senso vive.
In linea con questo statuto teorico procedono, come corollari di un teorema, gli altri racconti di Bella.
Così in Speculum Mundi, dedicato a Tano Brancato, l’io del grande pittore-poeta si riflette borgesianamente nella coscienza del gemello Nino, e, insieme, si scioglie nella contemplazione senza tempo di «paradisi dove gli Dei consumavano i loro svaghi, […] dove, celebrando alchemici riti, creavano i loro mondi, talvolta con la semplice melodia di un flauto». Sulla scena del sonno mistico avanza il «pellegrino dei cieli», che giunge «da regioni aeree». Guardiano della Soglia, egli è lo Janitor Mundi, il «portinaio del mondo».  Ogni cosa, «in questo dio massiccio», induce il pittore a credere che egli sia  il «medesimo dio della pittura», e a presentire che «Forse io stesso, e mio fratello, e tutti i mondi che siamo in grado di immaginare, scaturiamo dalla punta di quel pennello che egli, con sovrana noncuranza,  stringe in mano».
In Trittico e in  Fantasmi, dedicati a Calusca, lo scrittore assume le vesti dell’indagatore alla ricerca delle «cause inesplicabili»  che dissolvono i corpi sulla tela, lasciando il vuoto sul quale alita il pathos e si diffonde un’oscurità che dà adito a un labirinto di scale che, «dal buio torpido della notte salgono incontro alla luce di un giorno iperboreo». Il Trittico cifra il mistero del «clinamen» lucreziano che governa l’insensata casualità del vivere: «Un tuffo, un volo, una caduta: ciò che spezza l’equilibrio, eventi accidentali; la vista stessa che vacilla; l’imprevisto che (come l’assurdo di Camus) irrompe nella trama tranquilla delle attese quotidiane». Sicché, in questo universo vacillante, Calusca intravede e afferra, dipingendole, le «creature», «tremuli fantasmi, emergenti da un amniotico liquido biancastro».
In Crudeli tenerezze, racconto che dà il titolo alla raccolta, la Porta dell’accoglienza di Franco Politano, una grande porta di ferro  semiaperta  disseminata di aculei dritti e ritorti appare come l’ingresso a una nera, ferrigna Dite dantesca. È una porta che «odia» e che «respinge»: un «oscuro Dio… ha potere su quella soglia», su un «regno» ove regnano la desolazione e il tormento. Angeli «dalle fulve ali» sono i sinistri guardiani della porta.  Per pietà o sadismo essi risparmiano i temerari che ingaggiano con loro una lotta estenuante. La Porta dell’accoglienza di Franco Politano è la Porta Scea  alla cui soglia Andromaca dà l’estremo saluto a Ettore; dove, metaforicamente, tra le «crudeli tenerezze» del destino,  si consuma, nella sua indifferente atrocità, il dramma dell’esistenza. La tanatocrazia domina un mondo dal quale Dio è assente. Il deus absconditus della tradizione cabalistica e spinoziana ha abbandonato la Storia. E la Storia ripete, livida e indifferente, la primitività della distruzione, l’odio inesausto del diavolo. Gli angeli sterminatori che realizzano la sofferenza e la morte sono angeli caduti, volati troppo in alto: hanno perso l’umiltà, la capacità di cogliere l’essenziale: doti, esse, che permettono di ricongiungersi alla terra, al suo nomos, e di riconoscersi nell’humus vitale. La vita, allontanatasi dall’equilibrio basso della referenza, si innalza verso le cime spaesanti del progresso tecnologico o si ripara verso l’aura della poesia e della musica. Poi, inevitabilmente, ricade, secondo un  principio imposto da una Nemesi os
In Crudeli tenerezze, una scrittura scavata e nitida come una incisione, accompagnata da scelte linguistiche peculiari, spesso dissonanti rispetto alla norma, articola una pluralità di sguardi, di  saperi e di suggestioni dai quali l’intreccio narrativo/conoscitivo prende avvio. Si avverte un sorta di ‘necessità di memoria’ in Bella, un rammemorare continuo che attraversa tutti i racconti del libro innervandone, insieme alla lingua, la sostanza. Questa memoria poco ha a che vedere con la memoria proustiana; piuttosto, essa è una memoria  ‘meridiana’, una memoria in debito con due grandi temi che attraversano la letteratura siciliana da Verga a De Roberto, da D’Arrigo a Consolo, da Fiore a Sciascia: la ‘negatività’ e il fluire del tempo. È una memoria, perciò,  che si radica nel cuore dei ‘saperi del narrare’  – il narrare con le parole e il narrare con le immagini – che individua una topologia in cui spazio e tempo intrecciano universi paralleli e comunicanti, cronotopi dove l’uomo assume la responsabilità del suo esserci, del suo dileguare, del suo trasformarsi di forma in forma.
Entro tale paradigma, come osserva giustamente Rocco Giudice «il dilemma fra critica d’arte e racconto dell’arte  è sciolto nella magia della scrittura».
Ma la scrittura, per Giuseppe Bella, si pone ben oltre questo dilemma.
Essa è un affaire, crudele e tenero, irrevocabile, con la vita.

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La scheda del libro: “Crudeli tenerezze” di Giuseppe Bella (A & B)

Ventitré racconti dialogano con opere pittoriche di artisti contemporanei siciliani: brani e tele che dicono e dipingono scambiandosi messaggi sul mondo, aprendo l’orizzonte oltre l’isola. Un precipitare di compenetrazione tra due arti: la pittura e la parola che sono così legate da una reciproca comunicazione. Il fascino che le tele offrono, incantando lo spettatore, le leggiamo attraverso la lente visionaria dello scrittore che suggerisce una possibilità, che non è né traduzione né analisi. Libertà di creazione pittorica e poetica e libertà che si concede a chi legge e osserva, proponendo un gioco: se il pennello anticipi o segua la penna. Con uno stile commovente e musicale, immaginativo e potente quanto le opere scelte, Giuseppe Bella emoziona e trascina nel sogno e nella realtà, accompagnando il lettore in una galleria d’arte che dall’interno va verso l’esterno e viceversa, coinvolgendo tutti i sensi.

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Giuseppe Bella (S. Venerina, 1954) è psicologo psicoterapeuta. Sempre attento al mondo dell’arte, da anni si dedica all’attività letteraria. Ha già pubblicato: Freud, la ripetizione e la morte (1986), Congiure celesti (1992), Nostra casa degli inganni (1997), Alte pressioni (1999), Il mistero del piccolo rom (2000), Gli angeli di Ittar (2015); per i nostri tipi: Il terzo giorno (2004), L’attesa di Saturno e altri racconti (2009). Suoi racconti sono usciti sulle riviste “Galleria” (fondata e diretta da Leonardo Sciascia), “Lunarionuo- vo” (diretta dal poeta Mario Grasso), “ClanDestino” (diretta dal poeta Davide Rondoni), “Newl’ink” (diretta da Calusca), “Officine delle arti” (diretta da Nello Basili), e sui volumi collettanei Confini. Racconti di fine millennio (1998) e Racconti di fine millennio (2000).

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