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IL LAMA DELL’ALABAMA di Nicolò Cavallaro (Hacca)

febbraio 27, 2024

Il lama dell'Alabama - Nicolò Cavallaro - copertina“Il lama dell’Alabama” di Nicolò Cavallaro (Hacca): incontro con l’autore e un brano estratto dal libro

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Nicolò Cavallaro (Palermo, 1981), è redattore e editor freelance. Ha lavorato per Nutrimenti, Fanucci, Gremese, Gaffi, Rina edizioni. Ha pubblicato racconti su antologie e riviste letterarie. Vive a Roma.

Per i tipi di Hacca Edizioni è appena uscito il suo romanzo intitolato “Il lama dell’Alabama“, romanzo segnalato dal Premio Calvino 2023 “per l’inesausta effervescenza verbale, divertente, ironica e colta che deflagra su un rumore di fondo, memento e monito della realtà ultima della condizione umana”.

Abbiamo chiesto all’autore di parlarcene…

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«Nel gennaio del 2021 è arrivato il lutto», ha detto Nicolò Cavallaro a Letteratitudine. «C’è stata una malattia, riprese e ricadute, c’è stata la speranza e la fiducia. E poi stop, basta: tu ti fermi qui, a metà della tua vita.
Era una persona cara, vicina, di famiglia. Il momento storico è ben noto su scala planetaria per altri eventi, pandemici perlopiù, che poco o anzi nulla hanno a che vedere con questa storia, se non per il fatto di aver aggiunto un contesto surreale: un silenzio di fondo, un distanziamento, le difficoltà logistiche, l’impossibilità della condivisione, l’inaccessibilità del dolore.
Image from LETTERATITUDINE (di Massimo Maugeri)Nei due mesi successivi, poteva accadere che fossi da solo a casa, a lavorare o sotto la doccia; a cena con un amico, o con una ragazza che stavo da poco frequentando; potevo essere al telefono, potevo fare la spesa camminare accendere un interruttore allacciarmi le scarpe; potevo passeggiare in Caffarella, e guardare il verde dell’erba e alberi maestosi e protettivi e secolari. Potevo fare diversissime cose, ma la costante nella mia testa era il suono di tre parole: mentre Sabrina spira.
Il lama dell’Alabama non è un romanzo sul lutto, o sull’elaborazione; penso sia esso stesso – o almeno lo è stato per me mentre lo scrivevo, e poi revisionavo – un percorso di elaborazione. Avevo bisogno di questo libro per vivere, per vedere, per affrontare, per condividere. Questo l’ho capito più avanti; all’inizio avevo qualche elemento, sui quali procedere a braccio. Volevo parlare di perdita (in un’ampia accezione: di un oggetto, di una persona, di senso) e per farlo mi serviva una ricerca. Più difficile, più pretestuosa, più arrancante più rocambolesca possibile. È venuto fuori il protagonista, una sorta di detective che accetta l’incarico di ritrovare un orologio, avendo come unico indizio una foto. Allora gli affianco un aiutante e li metto in moto, anzi in auto, in giro per Roma.
A mano a mano sono venute idee, tasselli, personaggi, virate, la trama si è arricchita e composta, le cose hanno trovato quella che per me è la loro esatta quadratura, un tessuto narrativo che usa il fantastico per poter mostrare scorci di realtà (quella realtà, dolorosa, di cui sopra). Ciò che mi è stato chiaro fin dall’inizio, piuttosto, era il come: volevo qualcosa di vivo pulsante vitale giocoso potente inesausto instancabile. Da contrapporre a.
Più o meno a metà del romanzo, la ricerca è in una fase di stallo; così Guido, il protagonista, ne approfitta per raccontare al lettore di come la sua bizzarra attività ha avuto inizio. È stato un caso. Viveva un periodo di dolore, e non riusciva a venirne fuori. Poi un giorno ha incontrato un gatto, e questo gatto l’ha seguito fino a casa. Poi ha scoperto che il gatto non era un gatto randagio, ma era un gatto smarrito, e che la sua padrona, la Baronessa di piazza Tuscolo, lo cercava e non si dava pace. Così Guido ha riportato il gatto alla Baronessa, e nella commozione di quel ricongiungimento ha capito di avere fatto “una cosa bella”. Questo, semplicemente, diventa da adesso il suo scopo.
Il lama dell’Alabama è stato il mio modo di fare altrettanto».

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Un brano estratto da “Il lama dell’Alabama” di Nicolò Cavallaro (Hacca edizioni) – in libreria dal 16 febbraio

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Ti dicevo: il crollo tra capo e collo, la tracolla, il trasloco nel monolocale. Lo sbarco, il lunario, di tutto amico mio, ho fatto di tutto. Ma poi il polmone. Crollato, collassato, vomitato. Mah, se dovessi dirti per quanto tempo sono rimasto steso a terra accanto al polmone rancido, non lo so. Fai tu.
E poi ci si è messo il caso.
A un certo punto – da accendere?, come no, ma se vogliamo fumare spostiamoci nell’ampia terrazza, si vede buona parte della città, non piazza Sempione ma buona parte della città – a un certo punto, ti dicevo, il polmone in decomposizione ha preso a puzzare male, e quando un polmone in decomposizione comincia a puzzare rancido, delle due l’una: decomporsi o ricomporsi. In questo senso, trovarmi in un monolocale di quindici metri quadri mi è tornato utile, perché è bastato fare un metro per prendere una busta di plastica e metterci dentro il polmone grumoso. Poi – dopo minuti o dopo giorni – sono uscito oltre la soglia di casa, spingendomi fino al cassonetto della spazzatura. La volta dopo, sono arrivato al supermercato. Ho comprato un succo di frutta, pensa, alla pesca.
Gli zuccheri.
Le vitamine.
Finché un pomeriggio riesco a inoltrarmi dentro la Caffarella. Una passeggiata, cercando di scacciare i pensieri, nei sentierottoli che conducono alla fattoria. Lentamente, con il mio passo, col passo che avevo, che si ha in queste circostanze. Arrivo alla fattoria, mi siedo sulla panchina al di qua della rete – guarda un po’, bello da quassù te l’avevo detto, guarda come a poco a poco cambia la luce – mi siedo al di qua della rete e me ne sto mansueto a guardare gli animali mansueti, che mangiano il mangime, che si odorano, si abbeverano, gloglottano, nitriscono, animalano a modo loro. Mi cerco nella tasca un accendino, e mi accorgo del gatto, un gatto lupesco, accucciato a sfinge, striato grigio accanto a me. Tranquillo, guarda gli animali, si fa i fatti suoi, striato grigio lì accanto a me. Proprio così, amico mio, è quello che ho pensato subito anch’io: un gatto in Caffarella! È un evento insolito inconsueto, se capita capta cattura l’attenzione, si incontra assai di rado un gatto in Caffarella: conigli a mai finire, liberi nel parco, ma gatti no, gatti mai, o quasi mai. E lì per lì invece sì. Ad ogni modo: finisco la sigaretta mi alzo e me ne vado, e il gatto lupesco mi segue; sentierottoli e il gatto mi segue, verso l’uscita il gatto, pensa, mi segue; e lungo la via verso casa il gatto, pacifico sfingico grigio striato mi segue, così gli dico: Gatto, tu sei pacifico e mi segui, ma io sono allergico ai gatti e casa mia è un monolocale di quindici metri quadri in via Vetulonia, non puoi venire con me. Fino in via Vetulonia mi segue, apro la porta di casa e mi precede. E si accuccia. Vado al supermercato e gli compro del latte. Dormiamo nel monolocale e io starnutisco perché sono allergico. L’indomani esco e compro l’antistaminico. Il gatto è a suo agio. Viviamo insieme nel monolocale per qualche giorno. Ogni tanto miagolo e lui mi accarezza.
Poi, amico mio – ed è qui che comincia la mia carriera – una mattina che vado al supermercato per il consueto acquisto di zuccheri e vitamine, arricchiti da proteine e da ciò che si confà ad una tavola urbana, sulla porta del supermercato trovo la fotografia del gatto. Non è un selfie. È una foto che gli ha scattato la sua padrona, una foto che – questa è la mia prima strabiliante intuizione investigativa – è stata scattata prima che il gatto si perdesse. In un qualsiasi altro giorno, ma comunque prima che il gatto si perdesse. Si è perso il gatto, leggo sul volantino. Non lo si vede da qualche giorno, è lupesco, pacifico sfingico, striato grigio. È l’amore della sua padrona, si legge sul volantino, la sua padrona non si dà pace, piange senza pace, ma sa, la padrona sa la padrona sente che il gatto è vivo. E promette: ori e allori a chiunque dovesse avvistarlo, trovarlo, prenderlo riportarlo riconsegnarlo all’amore della sua cara padrona. Firmato: Baronessa di piazza Tuscolo.
Faccio la mia spesa, rientro nel monolocale, ovviamente trovo lì il gatto ma prima di intraprendere con lui una conversazione che potrebbe essere spinosa aspetto che si faccia l’ora del pranzo, perché affrontare certi argomenti in una situazione conviviale può aiutare e oltretutto saggezza vuole che le decisioni importanti si prendano a pancia piena. Apparecchio la tavola, preparo le linguine, impiatto ci sediamo, verso il vino, poi gli dico Gatto, bello mio, la Baronessa ti sta cercando; lei è in pena e puoi immaginarlo, ma la decisione è tua, spetta solo a te: ti sei perso e vuoi tornare a casa, oppure ti sei perso ma vuoi andare da solo per fratte, oppure ti sei perso e vuoi rimanere qui? Il gatto mette giù la forchetta, si pulisce il muso con il tovagliolo di stoffa, viene a strusciarsi con un miagolio intorno alle mie gambe, accarezza il mio polpaccio con la sua testa, e zampetta inequivoco alla porta di casa. Gli apro la porta. Vuoi andare da solo per fratte, gli chiedo, o vuoi che ti riporti dalla Baronessa di piazza Tuscolo? Il gatto oltrepassa la soglia, si ferma, mi aspetta: vuole che lo accompagni.
Passeggiamo, amico mio, passeggiamo io e il gatto in discesa lungo via Britannia, in una giornata dalla luminosità arcobalenica. Quando la Baronessa di piazza Tuscolo schiude la porta e rivede il gatto è un tripudio di gioia che quasi ci rimane. Abbandonando impudica il contegno nobiliare si dilata in rivoli lacrimali e singulti e abbracci e carezze, e baci e sperticati encomi riconoscenti. Io, che mi sono fatto la barba e ho indossato l’abito buono, resto con discrezione, mi faccio sfondo, li lascio al loro ritrovarsi. Poi la Baronessa mi invita a entrare, fa gli onori di casa, mi conduce in un salotto tappezzato di tomi e tomi e libri e volumi e pagine e lettere e dove si era cacciato?, mi chiede. Così le dico che il gatto forse aveva voglia di una passeggiata, di sgattaiolare tra verdi sentierottoli, di osservare sfingico la fattoria; magari al gatto può fare piacere se di tanto in tanto andate insieme tra le fratte della Caffarella, suggerisco alla Baronessa.
Lei da oggi è nel mio cuore, mi dice la Baronessa, lei per me da oggi è di famiglia e ha la mia riconoscenza. Non abbia di me l’idea di una persona lontana dalla realtà, solo perché il mio salotto è una biblioteca di Babele: vivo in questa casa è vero, ma alcune cose del mondo le so, dice la Baronessa. Per esempio, so che la riconoscenza non basta per pagare le bollette, dice la Baronessa di piazza Tuscolo. Mentre mi offre i dolcetti e governiamo piazza Tuscolo dalla sua finestra panoramica, la Baronessa toglie il collare dal collo del gatto, e lo dà a me: Lo prenda lei, dice, ne sarei felice, e anche il gatto è felice che l’abbia lei. La gemma incastonata nel collare, mi accorgo solo ora, ha le dimensioni di un mappamondo in scala uno a uno. A corollario del collare, la Baronessa verga sul biglietto le parole succitate, che qui nuovamente riporto, amico mio, perché la memoria e l’attenzione sono labili.

Niente vale la gratitudine che nutro nei suoi riguardi, ma forse questo ci si avvicina.

E se potrò esserle utile in qualche modo, di qui in avanti, non si faccia remore. Questa è casa sua. La porta è aperta.
Non ho più rivisto la Baronessa di piazza Tuscolo, almeno non di persona. Lettere. È lì che la rivedo, è lì che le faccio visita, lì che ci incontriamo. Inchiostro e fogli. Le scrivo, ogni tanto, lettere vere, lettere di grafia, imbustate affrancate e spedite, nonostante si viva a non più di settecento passi l’uno dall’altra: spedite: queste lettere viene a prelevarle il postino dalla buca sotto casa, le porta chissà dove nel centro magno di smistamento operativo degli uffici postali, restano lì del tempo sbirciandosi e confabulando con le sorelle lettere, si baciano tra francobolli, si leccano tra colle, si confidano parole, poi si salutano, per essere destinate alle loro destinazioni, le mie, quelle di mia grafia, tornano qui in zona e vanno a piazza Tuscolo, la Baronessa le ritira dalla sua cassetta, trova il mio nome, apre con cura, si siede sulla poltrona dalla quale governa e legge, affacciata su piazza Tuscolo. E risponde puntuale e salvifica.
Sulla soglia di casa della Baronessa – pronto ad andare – mentre il gatto si struscia di caldo languore e coccole fuse sulle gambe padronali, io capisco che ho fatto una cosa bella.
Una cosa bella.
Lungo la via del ritorno, risalendo via Britannia, superando bar benzinai farmacie erboristerie oculisti gelaterie, lungo la via del ritorno non posso che prendere atto: di ciò che è, adesso, la realtà: io ho appena risolto il mio primo caso.

(Riproduzione riservata)

© Hacca Edizioni

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La scheda del libro: “Il lama dell’Alabama” di Nicolò Cavallaro (Hacca, 2024)

Il lama dell'Alabama - Nicolò Cavallaro - copertinaRoma, parco della Caffarella. Guido, un detective specializzato in oggetti smarriti, riceve un breve e anonimo messaggio: «La prego di ritrovare il mio orologio. Ha un valore inestimabile. E tale sarà per lei la ricompensa». Inizia così “Il lama dell’Alabama”, romanzo d’esordio di Nicolò Cavallaro, la cui immaginifica scrittura intreccia sapientemente commozione e divertimento, nonsense e calembour, scherzi e tenerezze. Il lettore si ritroverà allora a muoversi per le strade di Roma insieme a Marianna Fuma e Ulisse Pulviscolo, Alice Tuttoburro e Winston Coleman, Ettore Calcestruzzo e Margherita l’Apriscatole, tra le corsie del San Giovanni Addolorata, «l’ospedale gender fluid», e il mercato di Porta Portese, in una incessante e rocambolesca ricerca. L’esito diviene infine trasparente, e la wunderkammer si apre per svelare ciò che custodiva: un nucleo di dolore in attesa di essere riconosciuto e condiviso con un’umanità stralunata, confusa, sognante, resistente ma fragile, e dunque, come ognuno di noi, del tutto impreparata ad affrontarlo. A questo servono le storie, d’altronde: a trasformare una fitta al cuore in respiro, una caduta in slancio verso il fantastico; a piegare un foglio di carta perché diventi il delicato volo di un origami.

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