GIORGIO FONTANA vince il PREMIO CAMPIELLO 2014
Giorgio Fontana vince il Premio SuperCampiello 2014 con il romanzo “Morte di un uomo felice” (Sellerio), beneficiando di 107 voti sui 291 arrivati dalla Giuria dei Trecento Lettori Anonimi.
Secondo classificato, Michele Mari con il romanzo d’avventura “Roderick Duddle” (Einaudi) che ha avuto 74 voti .Di seguito: Giorgio Falco con “La gemella H” (Einaudi), 36 voti; e Fausta Garavini con “Le vite di Monsu Desiderio” (Bompiani) 31 voti.
La cerimonia di premiazione andrà in onda mercoledì 17 settembre alle ore 23.00 su LA7.
La scheda del libro
«Giorgio Fontana ha scritto un romanzo – lucido, bellissimo – che ancora mancava. Un romanzo che stavo aspettando. Attraverso la storia del magistrato Colnaghi, il suo sguardo, la sua solitudine, riesce a penetrare la dimensione della vita quotidiana al tempo del terrorismo… Che questo libro delicato, tagliente e doloroso sia stato scritto da un narratore italiano nato nel 1981, lo stesso anno in cui il suo protagonista viene assassinato, è per me fonte di consolazione. E di speranza» (Benedetta Tobagi).
Milano, estate 1981: siamo nella fase più tarda, e più feroce, della stagione terroristica in Italia. Non ancora quarantenne, Giacomo Colnaghi a Milano è un magistrato sulla linea del fronte. Coordinando un piccolo gruppo di inquirenti, indaga da tempo sulle attività di una nuova banda armata, responsabile dell’assassinio di un politico democristiano. Il dubbio e l’inquietudine lo accompagnano da sempre. Egli è intensamente cattolico, ma di una religiosità intima e tragica. È di umili origini, ma convinto che la sua riuscita personale sia la prova di vivere in una società aperta. È sposato con figli, ma i rapporti con la famiglia sono distanti e sofferti. Ha due amici carissimi, con i quali incrocia schermaglie polemiche, ama le ore incerte, le periferie, il calcio, gli incontri nelle osterie.
Dall’inquietudine è avvolto anche il ricordo del padre Ernesto, che lo lasciò bambino morendo in un’azione partigiana. Quel padre che la famiglia cattolica conformista non poté mai perdonare per la sua ribellione all’ordine, la cui storia eroica Colnaghi ha sempre inseguito, per sapere, e per trattenere quell’unica persona che ha forse amato davvero, pur senza conoscerla.
L’inchiesta che svolge è complessa e articolata, tra uffici di procura e covi criminali, tra interrogatori e appostamenti, e andrà a buon fine. Ma la sua coscienza aggiunge alla caccia all’uomo una corsa per capire le ragioni profonde, l’origine delle ferite che stanno attraversando il Paese. Si risveglia così il bisogno di immergersi nella condizione degli altri, dall’assassino che gli sta davanti al vecchio ferroviere incontrato al bar, per riconciliare la giustizia che amministra con l’esercizio della compassione. Una corsa e un’immersione pervase da un sentimento dominante di morte. Un lento disvelarsi che segue parallelo il ricordo della vicenda del padre che, come Giacomo Colnaghi, fu dominato dal desiderio di trovare un senso, una verità. Anche a costo della vita.
Insieme al precedente romanzo di Giorgio Fontana, Per legge superiore, anche Morte di un uomo felice riflette sulla giustizia, le sue possibilità e i suoi limiti.
Riproponiamo, di seguito, la recensione di “Morte di un uomo felice” (Sellerio) e l’intervista a Giorgio Fontana (curate da Simona Lo Iacono) già pubblicate su LetteratitudineBlog.
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MORTE DI UN UOMO FELICE
, di Giorgio Fontana (Sellerio, 2014)
Recensione del romanzo e intervista all’autore
di Simona Lo Iacono
C’è un rapporto, viscerale e sempre sanguinante, tra giustizia e letteratura.
Sin dall’antichità, l’uomo si è interrogato, ha consultato Pizie e Dèi parlanti, ha cercato nel volo degli uccelli segnali profetici, per poi comprendere che le risposte risiedono dentro di noi.
Né questa ricerca è mai stata solo giuridica, o si è potuta risolvere unicamente nella codificazione. Ma ha avuto la necessità di addentrarsi nel cuore delle storie. E di raccontare non solo l’amore per la giustizia, ma anche il dolore della sua perdita.
Solo le storie, infatti, fanno affondare i concetti nel cuore, nel fango, nella caduta e nella resurrezione. E nell’uomo. Nelle piaghe dei suoi errori, nella struggente ansia di trovarsi.
Così, non dobbiamo solo ai giuristi la conquista della coscienza e della pietà umana, ma ad una donna, Antigone, narrata da parole e versi, urlata nei teatri e negli anfiteatri del mondo.
Né possiamo imputare l’evoluzione della civiltà alla sola codificazione, ma ad un coro di romanzieri e personaggi letterari, che a buon diritto possono dirsi coautori della costruzione di un ideale di bene comune.
Dunque, ricerca della giustizia e senso delle storie sono sorelle. E sono sorelle perchè complici della medesima segreta afflizione: trovare un significato, dare fondamento al mistero dell’esistenza.
Questo intreccio segretissimo e intimo, pare affiorare con potenza nell’ultimo romanzo di Giorgio Fontana, “Morte di un uomo felice” (Sellerio).
Giacomo Colnaghi è magistrato, e come tale è uomo di diritto e di giustizia.
In una Milano degli anni ottanta inquieta e già ossessionata dai vizi capitali del secolo (ricerca del potere, corruzione, caduta degli ideali della storia passata), cerca.
In apparenza è solo sulle tracce di una banda armata, responsabile della morte di un politico.
Ma la sua ricerca è molto più lacerante e antica.
Figlio di Ernesto, un partigiano che è morto durante un’azione, e che ha sconvolto la famiglia con la sua ribellione, Colnaghi è afflitto da domande sul senso della vita e della morte, sulla vera dimensione del bene e del male, sull’esistenza in un Dio nel quale crede ma a cui non riesce a tenere nascosti i suoi dubbi.
E’ lacerato, Colnaghi, è intuitivo, è – soprattutto – un uomo del suo tempo, ma con alle spalle l’esperienza eroica di un padre che – contro tutti, contro tutto – ha lasciato la vita per rincorrere un ideale.
Colnaghi non cerca dunque solo risposte giudiziarie. O meglio. Le piste investigative sono le tracce di un’altra ricerca, quella di un mondo spaesato, irriverente, dolentissimo, che gradualmente perde senso del mistero e del pudore, infliggendo all’Italia (quell’Italia che suo padre aveva fondato sulla riconquista della dimensione ideale) un destino da figlia perduta cui solo la compassione può salvare l’anima.
Il tempo di Colmaghi, allora, è il tempo di questa pietà che – come quella di Antigone – non si rassegna alla sola normatività, ma fa appello al valore del sangue versato, del sogno, della conquista di una giustizia che non è solo risposta a un reato, ma vocazione intima, troppo spesso profanata, dell’animo umano.
Vita e giustizia si aggrovigliano, rimandano l’una all’altra e si completano febbrilmente e drammaticamente, quasi a suggerire che scegliere l’una senza l’altra equivale a morire, mentre la morte vera (finanche quella sperimentata da un partigiano contro il volere della sua famiglia) non è morte, ma vita, se c’è significato, motivo della ricerca.
Allora, la fine di chi compie un simile viaggio, non è inutile.
E’, piuttosto, la morte di un uomo felice.
Chiedo dunque a Giorgio Fontana di parlarci dell’importanza di questa ricerca. E di quanto, in essa, conti ripercorrere le strade passate, dare valore alla morte di chi ci ha preceduto.
– In quest’ottica, qual è il significato del rapporto tra padre e figlio, nel romanzo?
Credo sia il nodo centrale dell’intero libro. In effetti, benché Morte di un uomo felice sia diverse cose e possa essere letto, credo, in molti modi – come un romanzo storico, un’interrogazione sulla giustizia e così via – per me rimane innanzitutto la storia di un padre e di un figlio. La consegna di un’eredità e il bisogno di non dissiparla. Ma più che di “significato” parlerei proprio della relazione umana in quanto tale, della sua centralità: sono sempre molto restio ad attaccare “significati” ai miei personaggi.
– Senso della vita e della morte. Il romanzo appare la metafora di un connubio necessario tra ricerca di senso e giustizia. Così che la morte non coincide con la fine, ma con la mancanza di questa ricerca. E’ così? Leggi tutto…