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DRITTO AL CUORE, di Elisabetta Bucciarelli

settembre 19, 2013

In esclusiva per Letteratitudine pubblichiamo le prime pagine del romanzo DRITTO AL CUORE, di Elisabetta Bucciarelli (edizioni e/o)

È difficile per l’ispettrice Maria Dolores Vergani godersi le vacanze nel piccolo villaggio montano sull’Alta Via se c’è un cadavere di mezzo. Nel bosco viene ritrovato il corpo di una donna nascosta fra le rocce. Nel frattempo una mucca viene uccisa prima del più importante incontro che decreterà la più forte e bella della valle. Nella piccola comunità a duemila metri di altitudine, l’ultimo villaggio Walser, partono le indagini: sarà proprio l’ispettrice Vergani con l’aiuto degli abitanti del comunità a dover fare luce su una catena di omicidi che dissemina cadaveri dai monti valdostani ai boschi lombardi. Un romanzo duro e spietato, destinato a colpire i lettori dritti al cuore.

* * *

Dal romanzo DRITTO AL CUORE, di Elisabetta Bucciarelli (edizioni e/o)

 

1.

La Casa era in alto. Per arrivarci si doveva risalire tutta la valle, affrontare trentasette tornanti, prendere una funivia. E ancora non bastava. D’estate c’era da cam minare una buona mezz’ora a piedi, fino a quota duemila. D’inverno servivano gli sci, oppure le ciaspole agganciate agli scarponi, al limite il gatto delle nevi.
Era costruita in legno e pietra. Legno di larice ormai quasi del tutto annerito. E pietra grigia, ancora perfetta in ogni sfumatura di colore, colonizzata dal muschio verde argenteo a nord e da qualche pianta a piccoli fiori gialli incuneata tra le
beole del tetto a sud.
Vecchia, la Casa, ma non ancora antica. Portava i simboli Walser, insieme a quelli di altre popolazioni meticcie. Cuori magri con la punta in basso che svirgolava a sinistra. Piccole fessure a tilde che riprendevano le orme degli animali, croci e cerchi.
Le finestre tagliate come occhi lasciavano entrare solo lame di luce, frange di tende corte come mutande decoravano i bordi superiori, aumentando il buio. La porta di legno era com posta da poche assi decise, larghe e robuste, inchiodate a vista. Pendevano, dalle travi in facciata, due paioli di rame per qualche scherzo lucidi come se venissero sfregati ogni giorno, accanto a trecce d’aglio, ciuffi di fiori secchi, due roncole arrug ginite, un rastrello di legno a cui mancava qualche dente, un’elica di pioli su cui erano appoggiati stracci, una sega, una camicia scozzese e altri oggetti la cui destinazione originaria era difficilmente riconoscibile.
Sulla destra dell’ingresso zampillava una fontana, che rovesciava in moto perpetuo l’acqua gelida del ghiacciaio in una larga vasca di pietra monolitica, il cui bordo era abbastanza spesso da ospitare un pezzo di sapone da bucato e una spazzola con fitti denti di ferro.

* * *

2.

Sentiva un fiato, un sibilo cupo che seguiva parallelo. Un tonfo, una luce, lo sbuffo: l’uomo, d’istinto, si piegò su di sé, quasi accucciandosi. Un giovane esemplare di capriolo spiccò un salto da dietro un cespuglio superando l’ostacolo. Atterrò
sulle forti zampe anteriori, le piegò come molle d’acciaio, curvò a destra e si dileguò tra i cespugli. Marrone lucente, con le
orecchie ritte, la coda corta e i muscoli visibili sottopelle.
Era indietro, la stagione, aveva piovuto troppo. Nessun mirtillo maturo, poche fragole selvatiche, qualche fungo matto. Gli
scarponi completamente bagnati, e le impronte degli umani si mescolavano alle tracce dei camosci e dei cervi. Ognuno pareva
seguire traiettorie che per sbaglio po tevano incrociarsi, grazie a un corvo distratto che non annunciava presenze o a un passo
lieve che sfiorava le foglie, o ancora per l’afrore delle pecore che restava per giorni sulle casacche di lana e copriva l’odore di umano. Per magica convergenza uomini e animali si sfioravano, ai loro sguardi era concesso un secondo di grazia. Occhi negli
occhi. Un rintocco d’immagine, per entrambi da trattenere nella mente.
Zefiro era abituato a istanti come quello. Riprese la posizione eretta e guardò in alto scorgendo uno scoiattolo scuro, dalla coda lunga e soffice, che si arrampicava leggero come un piumino da cipria fino alla cima del pino cembro. Avrebbe rosicchiato la pigna rossastra, profumata e resinosa che completava l’apice, quindi si sarebbe liberato del torsolo bucherellato scagliandolo
a terra.
L’uomo si appoggiò al bastone e riprese fiato pensando all’agilità del movimento appena compiuto, che gli avrebbe causato qualche giorno di mal di schiena. Si domandava sovente fino a quando sarebbe riuscito a schivare senza ragionarci troppo i giovani cervi, i camosci di passaggio, i ca prio li in corsa. Non aveva la risposta, ma era consapevole che quel giorno poteva considerarsi una pietra, la prima su cui erigere il ricordo e il rimpianto.
Non si contavano con certezza gli anni di Zefiro, da quelle parti sembrava in vigore una misurazione del tempo parallela a quella anagrafica, incapace di tener conto dei normali processi d’invecchiamento. C’erano i segni lasciati dal sole, dal vento, dal l’acqua. Ispessimenti dovuti al lavoro costante delle mani. I movimenti delle gambe che spingevano in salita e in discesa con muscoli diversi da quelli messi in azione nelle camminate di pianura. L’usura più che l’artrosi. Potevi trovare capelli perfettamente del loro colore anche su teste di settant’anni. Nessuna calvizie, piuttosto bocche senza denti. Le fattezze del viso
tendevano a raggiungere una sorta d’innocenza vegetale rotondeggiante e spugnosa, che rendeva infante chi vi fosse immerso, capace di stare in equilibrio in uno spazio temporale sospeso, in perenne tensione verso una fonte originaria: l’alto, l’età
dell’oro, il paradiso perduto.
Dopo aver ascoltato il proprio respiro che lentamente tornava pacato, Zefiro riprese il cammino, c’era ancora un tratto di strada da compiere per raggiungere il villaggio, sarebbe arrivato per l’ora di pranzo, con il sole alto e il profumo dell’erba appena tagliata a inondare il vallone.

* * *

Elisabetta Bucciarelli vive e lavora a Milano. Nel 2011 ha vinto il Premio Scerbanenco per il miglior romanzo noir italiano con Ti voglio credere (Kowalski-Coloradonoir). L’ispettrice Maria Dolores Vergani è già apparsa nei suoi romanzi precedenti Happy Hour (Mursia), Dalla parte del torto (Mursia), Femmina de luxe (PerdisaPop), Io ti perdono e Ti voglio credere (Kowalski-Coloradonoir). L’autrice collabora con varie testate giornalistiche e scrive per il teatro, nel 2013 il testo dell’audiodramma L’etica del parcheggio abusivo è stato pubblicato per i tipi di Feltrinelli.

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