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ABLATIVI ASSOLUTI, di Vincenzo Galvagno (la prefazione di Maria Attanasio)

gennaio 15, 2014

Ablativi assoluti.IL VIAGGIO TESTUALE DI VINCENZO GALVAGNO: TRA STRANIAMENTO E VERITA’

[“Ablativi assoluti” di Vincenzo Galvagno sarà presentato a La Feltrinelli Libri e Musica di Catania – via Etnea 285, Catania – martedì 21 gennaio ore 18 – interverranno Orazio Caruso e Nicola Savoca – sarà presente l’autore]

di Maria Attanasio

In una storica antologia della fine degli anni settanta Poeti italiani del Novecento, Pier Vincenzo Mengaldo, analizzando la giovane poesia di quegli anni, sottolineava  la specificità di clima poetico e di contesto sociale alla base della poesia metropolitana, fortemente differenziandola da quella che si produceva altrove; una diversità espressiva  tra centro e periferia che oggi –in quella sterminata metropoli diffusa che è l’Occidente – viene quasi del tutto a cadere.

A testimoniarlo la raccolta di Vincenzo Galvagno,  un giovane poeta che, pur vivendo e operando in un piccolo centro dell’entroterra catanese, in essa restituisce il senso di un disagio giovanile senza frontiere né passaporti: lo spaesamento e la solitudine di una condizione umana bloccata da convenzioni sociali e dalla sostanziale afasia di un parlare omologato che non rivela ma occulta; questo il senso del titolo Ablativi assoluti, di cui esemplare metafora testuale è l’immagine di una rondella di catena leggermente deformata, che non potendo rientrare “nè nel suo loco nè in un altro/ cade” in mezzo a tante altre “ con altre originali menomazioni” . Scarto, marginalità, che  non tornerà mai più a essere catena.

Spoglia di orpelli e travestimenti retorici, solo la poesia – che rifiuta il poetico come luogo separato dall’esperienza vissuta, preferendo aggirarsi tra i rituali sociali e i non luoghi di una contemporaneità senza memoria e appartenenza – può forzare la contraffazione di ogni stereotipato dire, creando quella “catena radicale di parole” – per usare una felice espressione di Lacan –  “fra l’al di qua del Soggetto e l’al di là dell’Altro”.

Da qui ha inizio il viaggio testuale di Vincenzo Galvagno: un percorso che dalla rappresentazione di una coralità di solitudini procede verso le zone più intime e oscurate del sé; e dalla contemporaneità si volge verso il passato per ritrovare quella comune appartenenza archetipale, che agisce e motiva l’esserci e il suo costituirsi come temporalità.

Il poeta non è un artista. È un ponte tra gli uomini e gli archetipi comuni dell’inconscio”, è infatti l’epigrafe posta a premessa di Poesia e verità – la prima delle tre sezioni in cui si articola la raccolta – in cui l’intenzionalità di pensiero e la poetica dell’autore sono più esplicitamente rappresentate.

A costituirne la scrittura, ardua ed espressivamente molto originale, interviene  una strutturale interferenza tra la pregnanza del segno – con citazioni tratte dalla Bibbia a fare da titoli ai singoli testi –, e la forma del mito – col recupero testuale di nomi e tipicità di personaggi dell’Iliade –: parole e figure di un universale sentire  che in un mondo ormai senza epicità, indossano vesti e gergo di un’anonima folla  giovanile. Stravolti perciò, irriconoscibili:“milioni e milioni dei vostri atomi,/ Teseo, Menelao, Paride/ perchè vi ho visto/ così diversi da come siete?”; Aiace è infatti uno strafatto dissipatore di sé,  Andromaca un pezzo di ghiaccio al funerale di Ettore (“Sto/grigia come i garage sudati/dove andavamo a ballare,/ che io odiavo in segreto/ come quando facevi/ odore di anfetamina”), mentre Cassandra inutilmente grida il suo amore, non è creduta, e il suo amore–farfalla si fa cenere.

Nella seconda sezione Turbata quiete di pubblico incanto, l’orizzonte tematico del poeta si restringe, estraendo da questa coralita di vissuto la storia – realmente accaduta – di due ragazzi: Giorgio e Antonio, che mettono fine con il suicidio a un amore assoluto, ma socialmente scandaloso; il linguaggio si apre a spazi di maggiore comunicazione, restituiendo – in cinque frammenti dalla struttura dialogica e drammatica – la dimensione fatale e sconvolgente della passione amorosa, come nei versi che raccontano il primo incontro tra i due giovani: “Ieri ti ho visto per la prima volta/ nell’aranceto di tuo zio, già là tu fosti Eroina/…./Poichè aghi di luce cosmica dai tuoi capelli e/ ogni singola retta che passa dal tuo corpo si/ infilano in tutti gli occhi del mio corpo fino alla vena”.

In Ablativo assoluto  infine – seguendo una sorta di ininterrotto dettato interiore – il poeta rappresenta dall’interno del sé  il senso di un profondo disagio esistenziale: ablativo assoluto tra irrelati ablativi assoluti. Lucidamente consapevole, però, della forza salvifica della poesia, che insieme alla bellezza formale di ogni selettivo dire, rifiuta  ogni dimensione comunicativa di tipo razionale.

Colto e appassionato, energetico e interferente, il linguaggio di Vincenzo Galvagno prende infatti deliberatamente le distanze dagli strumenti retorici della tradizione poetica italiana, rimandando piuttosto alla poesia anglofona – da Eliot alla beat generation, da Frost a Larkin –; fortunatamente però il poeta non riesce a liberarsi del tutto dal peso della tradizione, che talvolta si fa rima, allitterazione, grazia stilistica. Una scelta espressiva, che non attenua ma accentua la dimensione straniante e straniata di un parlato giovane e ribelle a regole e sintassi: che  non cerca specifici effetti di senso, affermandosi sempre come profonda esperienza di verità.

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