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PRIMA CHE TU MI TRADISCA, di Antonella Lattanzi (le prime pagine del libro)

marzo 7, 2014

Prima che tu mi tradiscaPubblichiamo le prime pagine di PRIMA CHE TU MI TRADISCA, di Antonella Lattanzi (Einaudi – Stile libero Big). Domani l’autrice ci “racconterà” il suo romanzo.

Non c’è nulla che non si possa perdonare a una sorella, soprattutto se all’improvviso scompare, nulla tranne averci rubato la scena nel momento piú importante della nostra adolescenza.

Il libro
Giovanni Cipriani era appena nato quando è sopravvissuto per miracolo al bombardamento di Bari del ’43, ma quel disastro sembra avere lasciato in eredità alle sue figlie una specie di infezione che le ha danneggiate per sempre, votandole al tradimento. Diversissime, segnate da segreti che le rendono al tempo stesso complici e rivali, Angela e Michela si muovono tra una Bari che dietro l’apparente rinascita brucia come il suo Petruzzelli e una Roma sfibrata, divenuta temporaneo rifugio. La loro vita di ragazze – poi donne – è condizionata dall’attrito fra la bellezza di Angela e la timidezza aggressiva di Michela. Un conflitto che non si scioglie nemmeno quando la prima svanisce e l’altra assapora la possibilità di diventare padrona del campo. In un balletto atroce e divertentissimo di bugie, accuse e finzioni, Prima che tu mi tradisca mette in scena tutto l’amore e lo squallore che si annida nelle relazioni di una famiglia in cui si conosce un solo modo per stare insieme, farsi del male.

* * *

Le prime pagine di PRIMA CHE TU MI TRADISCA, di Antonella Lattanzi (Einaudi)

Parte prima

Alle 19.30, mio padre compiva sette mesi. Si sentí un
boato, il cielo si oscurò di un nero innaturale, non la notte.
Lo dicevo io, che quel bambino ha qualcosa che non
va, disse la mia bisnonna quasi cieca, una cataratta grigia
su entrambi gli occhi, pastosa, che le faceva uno sguardo
da strega. E strappò mio padre dalle braccia di mia nonna
Angela, che il destino nel nome voleva angelo e femmina.
Mia nonna non si sa che fece. Si sa però che sua suocera
Nuccia la freddò. L’avevo detto, disse, quand’eri gravida
hai saltato la messa di natale, annusò mio padre, hai fatto
un diavolo, si sentí tra uno scongiuro e l’altro, se lo staccò
dal petto, l’offrí al soffitto e al signore, prendilo, gli
disse, e in cambio salvaci, gli fece sopra il segno della croce
e diverse benedizioni tra barese, latino, greco antico,
e venne il buio. Non il blu scuro della notte; il nerofumo.
Era il 2 dicembre 1943, quasi due anni dopo Pearl Harbor.
Da tre mesi l’Italia aveva firmato l’armistizio. Gli Alleati comandavano
i cieli. Gli aeroporti meridionali erano quasi tutti
in mano americana. Quello di Bari, al contrario di molti altri,
non era stato bombardato: da lí sarebbe partita la conquista
del resto d’Italia e l’attacco alla Germania da sud. Bari era
una bella città. I teatri prestigiosi come il Petruzzelli, il Margherita,
il Piccinni, l’Oriente, il Kursaal erano i posti dove i
soldati si divertivano. Da qualche parte, alcuni di loro quel
giorno guardavano Springtime in the Rockies, con John Payne
e Betty Grable. Nel porto c’erano quaranta navi, per lo piú
classe Liberty, famose perché portavano rifornimenti e attrezzature
al fronte. Mentre le gru lavoravano per svuotarle
del prezioso carico, frotte di marinai entravano e uscivano
dalle loro pance. Dentro la pancia di una nave americana, la
John Harvey, però, c’era anche qualcosa di oscuro. Migliaia
di bombe M47A1 all’iprite, un gas letale: vescicante, tossico,
a effetto ritardato. Ogni bomba, lunga quasi centoventi
centimetri per un diametro di venti, conteneva iprite fissata
a idrocarburi per un totale di circa trentuno chili di mustard
per ciascuna bomba. I soldati la chiamavano cosí per l’odore.
Prima che tu mi tradiscaL’iprite è liposolubile, penetra in profondità nella cute,
crea piaghe terribili. Una concentrazione di 0,15 mg per litro
d’aria uccide in dieci minuti. A concentrazioni minori uccide
in giorni, anche in settimane. Filtra non solo negli abiti,
nella gomma, nel cuoio, ma anche nei tessuti impermeabili.
Per fare un esempio: Curzio Malaparte morí di cancro: per
alcuni, conseguenza dell’intossicazione da iprite subita durante
la Grande guerra. Bandita dal Trattato di Ginevra già
nel 1925, l’iprite era stata usata, dai tedeschi a Ypres durante
la Prima guerra. Nessuno l’avrebbe mai adoperata nella
Seconda, ma tutti ce l’avevano: metti che il nemico ci fa una
bella sorpresa. Tutti sapevano che faceva molto male. Solo
pochi eletti sapevano che se ne stava lí, zitta, sottintesa, nascosta
nella pancia della John Harvey. Le bombe sarebbero
state scaricate la mattina successiva.
Nessuno aveva piú paura dei tedeschi il 2 dicembre ’43: il
porto di Bari era illuminato a giorno perché le operazioni di
scarico continuavano anche di notte, non funzionava nemmeno
il radar che, installato sul Garrison Theatre – nuovo nome
del teatro Margherita – s’era rotto subito e nessuno aveva
pensato ad aggiustarlo. Faceva freddo, la maggior parte dei
marinai era scesa in franchigia, gli ufficiali si divertivano al
Barion, un posto che, negli anni, sarebbe diventato la prima
meta dei ricchi baresi. Insomma, Bari era bella ed era una
giornata fredda, sí, ma limpida. A un certo punto nel cielo
sopra il porto passò un ricognitore Messerschmitt Me-210
della Luftwaffe. Il pilota, il tenente Werner Hahn, vide che
c’erano proprio tante navi nemiche in rada, giú nel mare barese,
tutte da trasporto: era appena arrivato un convoglio. Cielo
terso. Luna ottima, sarebbe tramontata alle 21.37, ben cinque
ore dopo il sole. È il momento della rivincita, pensò il
tenente Werner Hahn. Chiamò la base della Luftwaffe, al
Nord. È il momento della rivincita, pensarono anche là. Era
da tempo che aspettavano la circostanza piú propizia per
colpire Bari, punto strategico per gli americani. Un attimo,
e tutti i centocinque bombardieri disponibili – gli Junkers
Ju 88 della 2a Luftflotte del Feldmaresciallo Wolfram
von Richthofen, cugino del Barone Rosso – furono allertati.
Decollarono da aeroporti italiani, slavi e greci, si riunirono
in stormo e furono scagliati a circa trenta miglia a nordest
del capoluogo pugliese. Appuntamento alle 19.25 sotto casa
tua per un gelato. Per motivi tecnici diciassette apparecchi
dovettero abbandonare la rotta una volta giunti sull’Adriatico,
per cui per la fase finale dell’attacco rimasero operativi
soltanto ottantotto bombardieri. Lo stormo compatto raggiunse
Bari volando a bassissima quota per sfuggire al radar.
La luna crescente e filotedesca strizzò l’occhio ai piloti: gli
aerei vedevano le navi, le navi non vedevano gli aerei. Raggiunsero
il molo foraneo del porto, dove si concentravano le
navi. Prima, lanciarono in basso migliaia di «finestre» dette
anche «annunciatrici della morte alata», lamine di stagnola
per ingannare il radar della contraerea (che, comunque,
era guasto: per cui potevate pure evitare di disturbarvi coi
giochi di prestigio). Coriandoli di stagnola cominciarono a
piovere su Bari luccicando come stelle filanti a centinaia,
finché la notte si dissolse. Alle 19.30: l’attacco.
Elusa ogni sorveglianza, gli aerei ebbero via libera: potevano
sganciare da un’altezza di soli quarantacinque metri.
C’erano cosí tante imbarcazioni nel porto che poche bombe
caddero in mare. Le navi bruciavano. Cominciarono
ad affondare o, rotti gli ormeggi, ad avvicinarsi a quelle
non ancora colpite che, contagiate, prendevano fuoco. Il
fuoco raggiungeva gli esplosivi nelle loro pance. Una a una,
le navi saltarono in aria.
Si colpirono tra loro, colpirono i marinai, colpirono la gente
che passeggiava vicino al porto, quelli che si baciavano,
quelli che litigavano, i cagnolini, i colombi, la città. Nafta e
combustibili precipitarono in acqua. Il mare era in fiamme,
si levavano onde di fuoco rosso vivo. Le bombe distrussero
il porto, il molo di Levante, il lungomare, ma anche molte
strade interne: via Piccinni, via Abate Gimma, via Sparano,
via Crisanzio, la zona della manifattura dei tabacchi.
Centottantuno morti solo in queste strade. I vetri delle case
scoppiarono, gli infissi scardinati saettavano nel cielo,
san Nicola aiutaci. Bari stava messa proprio male. Ma non
era ancora il peggio. Una bomba colpí la John Harvey. La
Černobyl’ italiana, dissero poi. La seconda Pearl Harbor.
L’inferno, disse Nuccia nel fragore, accucciata contro il muro.
Mo’ che c’entra l’inverno?, disse Angela e pensò: questa
qui è andata. In-ferno, gridò Nuccia. Madònna mè, ma
non è che scéma, quèsta? L’orizzonte, sul mare, si sollevò.
Si incendiò anche la John Harvey, la nave dell’iprite. Nel‑
la John Harvey c’erano tonnellate di bombe all’iprite. I
marinai fecero i diavoli a quattro per domare le fiamme.
L’incendio si propagò. Raggiunse la stiva. La nave saltò
in aria, con tutto il suo carico e tutti i suoi marinai impegnati
nel disperato tentativo di sedare il fuoco.
Il mustard si uní alla nafta fuoriuscita dalle petroliere bombardate
e al fuoco. Il mare non c’era piú. C’era una coperta
oleosa che affogava i marinai, che aveva mani e piedi, e una
bocca che rideva. Si alzò una nube tossica, il cielo sparí, con
luna firmamento poesie d’amore baci e tutto, fu allora che
la mia bisnonna si riscosse e disse: Te l’avevo detto, scosse
inquisitore l’indice, che quel bambino ha qualcosa che non
va. Ma dallo scoppio della finestra partí una scheggia di vetro,
e si piantò a un millimetro da mio padre, steso a terra
senza piangere. La mia bisnonna la vide, dietro la coltre
di cataratta, illuminata dal chiarore tremebondo di un cero
sempre acceso lí accanto, sotto la foto/ritratto del «povero
nostro Michelino di anni sette». Vide la scheggia, una specie
di fulmine di dio accanto a mio padre. Si fece bianca. Se
lo riprese in braccio con la faccia da cleptomane. Gianni, gli
urlò, Giannino mio. Le uscí dal petto una benedizione gorgogliante.
Il miracolo!, strinse mio padre, lo imbracciò come
un fucile, o uno scudo, o un talismano. Poi: Se no crepava,
’stu criatúro, si giustificò burbera con Angela. Angela non si
sa che fece. Si sa però che la mia bisnonna baciò mio padre,
sulla bocca sulla fronte sugli occhi, per togliere il malocchio, si
giustificò. La nube tossica bruciava la pelle, strozzava le
persone, san Nicola aiutaci. La nube tossica si avvicinò al
cuore della città, san Nicola, san Nicola!, e poi, col vento
di terra, si allontanò. Lo videro tutti, san Nicola. Pure mio
nonno Savino, e suo fratello, che erano andati a prendersi
un cicchetto sul mare e adesso correvano schiumando verso
casa, da mio padre appena nato, da mia nonna Angela e
muta, da Nuccia Ferro-e-fuoco. Lo videro in piedi sul tetto
della basilica, san Nicola, che spegneva il fuoco con le mani,
che soffiava contro la nube tipo Superman. Lo vide pure
un soldato americano, san Nicola: si sa, gli americani una
parola sola, hanno, e non se la rimangiano. Un bambino lo
indicò al papà: Papà, guarda, sannicola. Quattro giorni dopo
era la sua festa, la festa di san Nicola. Molti baresi sfollati
sarebbero tornati a Bari nonostante tutto: per ringraziarlo.
Intanto in città non è che andasse meglio. L’iprite s’era
scatenata. Gli scoppi radevano al suolo alcuni vecchi edifici.
In mare, nessuno aveva il salvagente. Non fu calata nemmeno
una scialuppa. Morirono, i marinai, tra le mani della
coperta d’olio che aveva preso il posto del mare. Morirono
altri sotto le macerie. Sull’acqua galleggiavano mani senza
braccia, piedi senza gambe, teste mozzate; veramente. Si
buttavano in mare le reti. Tornavano su con uomini morti,
mani, braccia, gambe, piedi penzoloni tra le maglie. Morirono
altri ancora presi in pieno dalle schegge delle bombe.
E san Nicola si sfiatava a forza di soffiare. A un certo punto
si stancò, stava diventando verde, gli girava la testa: Mo’
vado a cena, disse. E non si vide piú. Piú tardi, finalmente,
arrivò la contraerea. Alle 19.45 i tedeschi tornarono a
casa. Solo alle 23, la sirena dell’allarme si placò. Gli scoppi
e i boati continuarono sino alle 6 della mattina successiva,
dieci ore di incessante terremoto. Erano state affondate diciassette
navi – come a Pearl Harbor. Perse piú di quarantamila
tonnellate tra materiali e munizioni. Molti marinai
erano affogati. Tantissimi i feriti, tra civili, marinai, soldati.
Non c’erano ospedali disponibili. Il Policlinico era stato
appena ultimato, ma era vuoto. Il 3rd Nzh, un ospedale
neozelandese appena trasferito a Bari da Tripoli, c’era, ma
non funzionava ancora bene. Non c’erano nemmeno i letti.
La gente ci arrivò comunque, dove doveva andare. I piú non
erano quelli colpiti direttamente dalle bombe, ma bruciati o
con problemi respiratori. Nessuno lo sapeva: quelli erano gli
effetti a scoppio ritardato dell’iprite. Neppure c’erano vestiti
di ricambio. Quelli che erano caduti nella coperta oleosa che
aveva preso il posto del mare, con gli stessi abiti rimasero.
Abiti all’iprite che continuarono a sprigionare i loro effetti
letali. Nessuno sapeva cosa stesse succedendo. A molti di
loro fu diagnosticata una semplice congiuntivite. I medici
registravano pazienti in «condizioni scioccanti» a causa di
ferite «apparentemente insignificanti». Accadeva qualcosa
di strano. Anche nei casi in cui la pelle era illesa, diventava
marrone e iniziava a coprirsi di bolle. Le persone continuavano
a morire. Si cominciò a mormorare di un’«arma segreta
» usata dai tedeschi. Finché un medico pensò: Ma non è
che c’è qualche arma chimica di mezzo, oh? Telegrafarono
la domanda in America. Non ricevettero risposta, mai. La
morte non aveva fretta.
Cominciarono a crepare a decine qualche ora, qualche
giorno dopo. Il quarto giorno sembrava che tutti stessero
meglio. La morte non aveva fretta. Tra l’ottavo e il nono
giorno la gente cominciò a morire per infezioni ai polmoni.
Non morivano solo per l’inalazione del gas, ma anche per
l’assorbimento dell’iprite attraverso gli abiti bagnati. La
morte non aveva fretta. Creparono oltre mille militari e piú
di duecentocinquanta civili. I feriti erano oltre ottocento.
Seicentodiciassette gli intossicati dal mustard – tra marinai,
portuali e soccorritori –, di cui ottantaquattro morirono nel
capoluogo pugliese. Sulle ascelle e i genitali, il mustard provocò
il distacco della pelle. Ne creparono altri, in seguito,
negli ospedali italiani, nordafricani e americani dove furono
trasportati. Il porto di Bari, il piú importante porto alleato
per i rifornimenti dell’Ottava Armata, fu chiuso per
settimane. Per renderlo di nuovo perfettamente agibile si
dovettero aspettare gli anni Cinquanta: il bombardamento
del 2 dicembre ritardò la fine della guerra, permise ai tedeschi
di preparare con piú calma le difese in Italia e allungò
la guerra forse di mesi. Nel Disastro i tedeschi persero due
aerei. Uno fu visto precipitare nelle acque del porto vecchio.
Nei giorni successivi, la bonifica fu eseguita da marinai,
pescatori, personale portuario barese. Dall’alba del 3 dicembre,
squadre di militari e volontari attraversarono le vie
della città per rimuovere le macerie e disseppellire i feriti,
o i cadaveri. Corpi senza vita giacquero allineati sui marciapiedi
per ore, in attesa. Dalle strade, dai palazzi demoliti
o danneggiati, dal mare, dalle chiese, si levarono per ore
grida di moribondi, feriti, familiari delle vittime. Qualche
tempo dopo la Sanità militare Usa inviò a Bari il colonnello
Stewart F. Alexander perché redigesse un rapporto sulle
morti «inspiegabili» a scoppio ritardato. Il rapporto fu stilato
il 27 dicembre ’43. Churchill non volle che fosse impiegata
la parola «iprite»: nei referti medici delle sessantanove
persone morte nelle due settimane successive all’attacco, le
ustioni di natura chimica furono indicate come n.y.i.: not
yet identified, e le morti come «dovute a ustioni provocate
da azione nemica». Oggi questi referti sono declassificati.
Quello del 2 dicembre ’43 fu chiamato il Disastro di Bari:
il piú distruttivo attacco per gli Alleati dopo Pearl Harbor,
e il piú grave episodio di guerra chimica del secondo conflitto
mondiale. «Subimmo la piú grave perdita inflittaci da
attacco aereo dell’intera campagna del Mediterraneo e in
Europa», scrisse in seguito il generale americano Eisenhower
nelle sue memorie. «Madònna mè, chèdda desgràz’. Chèdda
desgràààz’!», diceva in seguito Nuccia Ferro-e-fuoco ogni
volta che le tornava in mente. La mia bisnonna visse ancora
molti anni, dopo quella notte. Non amò mai mio padre, nonostante
i baci pieni di panico. Si dice che mia nonna Angela,
invece, in mio padre Gianni trovò il suo figlio preferito.
Anni dopo Gianni conobbe un’altra Angela, una ragazzina
magra coi capelli neri, molto diversa da sua madre. Ancora
qualche anno, e nacque la loro prima figlia: Angela, come
la nonna. La chiamavano, sui segnaposto dei cenoni e dei
pranzi delle feste, Angelajunior. Sua mamma diventò Angelasenior.
Poi di angeli veri e propri non ne nacquero piú.
Sei anni dopo venne un’altra figlia, Michela. Michela ero
io. Quando nacqui c’era il temporale, un fulmine e un tuono
piú forte. La nonna materna, donna Maria, disse: – Ecco
finalmente il nostro maschietto –. Un’altra bella manciata
d’anni e, quando già erano nate Aida – dall’opera di Verdi,
non dall’azienda dolciaria principe alla Fiera del Levante
come pensarono tutti i baresi, e solo loro – e Milena – da
Milena Gabanelli di Report –, le figlie di mia sorella Aj, io
(rimasta fino ad allora la cosa piú vicina a un figlio maschio
nella storia della mia famiglia) non avevo non dico un erede,
ma nemmeno una misera storia di sesso, e nemmeno
una vera e propria passione per qualcosa. Non vivevo piú
a Bari. Venne fuori, però, che una cosa ce l’avevo: l’ipotiroidismo,
e molto probabilmente era colpa di Černobyl’.
Fu allora, forse per tranquillizzarmi, che mio padre mi raccontò
il Disastro di Bari. Ma io quella storia già la sapevo.
La prima volta me l’aveva raccontata mia sorella quando
avevo quasi undici anni, la mattina di un 27 ottobre, in modo
molto meno cruento e molto piú avventuroso, con un san
Nicola magico che si strappava barba e vestiti e in tuta da
Superman salvava tutti, baresi, americani e tedeschi. Questa
volta, quando me la raccontò mio padre, ero grande, pure
se non volevo esserlo. Me la raccontò cosí come l’ho detta.
Naturalmente tranne Superman, quello non può che essere
di mia sorella Angela J. Imparai subito che la mia famiglia
non era mai capace di raccontare una sola versione dei
fatti grandi e piccoli, nemmeno quando si trattava di cose
lontanissime; figurarsi poi quando in casa nostra fece il suo
ingresso la tragedia, distese di ambiguità e contraddizioni e
ricordi discordanti e storie da mettersi le mani nei capelli.
Del Disastro di Bari a tutta la mia famiglia, me compresa,
rimase un senso come di sconfitta eterna, di sacrificio continuo,
anche senza motivo, e colpa. A me sola rimase una
diffidenza verso san Nicola (che al contrario secondo molti
aveva salvato la città e che per i parenti aveva salvato il mio
papà), un’antipatia per le bisnonne, anche come parola, la
sicurezza che nonna Angela fosse davvero un angelo, una voglia
di gridare, spesso, che mi colpisce ancora oggi, una specie
di inclinazione all’allarmismo, alla tragedia che incombe,
anzi che già c’è, devi solo darle il tempo di mostrarsi.

(Riproduzione riservata)

© Einaudi

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Antonella Lattanzi è nata a Bari nel ’79 e vive a Roma. Ha pubblicato il romanzo Devozione (Einaudi Stile Libero, 2010), racconti su antologie tra cui A casa nostra (Wagenbach, 2011) e riviste tra cui «Granta». Collabora con riviste e testate nazionali, ha scritto o scrive per «la Repubblica», «La lettura» del «Corriere della sera», «Rolling Stone», «Orwell» (supplemento culturale del quotidiano «Pubblico») «il Venerdì», il «Fatto quotidiano», «il manifesto», «Donna moderna», «Satisfiction», Bookdetector.it. Insegna presso la Holden di Torino. Suoi scritti sono tradotti in tedesco e svedese. Sta lavorando a una sceneggiatura per il cinema. Prima che tu mi tradisca, pubblicato da Einaudi Stile Libero, è il suo nuovo romanzo.

© Letteratitudine

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