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UNA SECONDA OCCASIONE, di Elvira Siringo (un estratto del libro)

aprile 28, 2014

https://i0.wp.com/www.edizionidifelice.it/2014/copertine/L-siringo.jpgPubblichiamo uno stralcio del romanzo UNA SECONDA OCCASIONE, di Elvira Siringo (edizioni DiFelice)

Il libro
Un giovane carabiniere torna in Sicilia per scagionare una ragazza, anticonformista e ribelle, dall’accusa d’avere ucciso il padre. Ma arriva tardi, la giovane è morta in carcere e i parenti accolgono la rivelazione d’innocenza con freddezza, col fastidio e con la paura di dover subire la riapertura del caso per individuare un altro responsabile.
La cornice è una natura ancora intatta, un mare di cristallo a confine fra due mondi e due continenti. I flutti dell’Isola delle Correnti si scontrano e si congiungono, come le vicende dei personaggi che si incontrano, si aggrovigliano e si confondono. Le sorprese si alternano ai paesaggi mozzafiato e confluiscono in un finale “a incastro” in cui ogni dettaglio rivelerà la sua logica, naturale, spiegazione.

* * *

Un estratto di UNA SECONDA OCCASIONE, di Elvira Siringo (edizioni DiFelice)

Antefatto

Pugni chiusi

Pugni chiusi
non ho più speranze,
in me c’è la notte più nera
viene l’alba
e un raggio di sole
disegna il tuo viso per me…

 

Una gran berlina argentata costeggiò il muro sbrecciato del cimitero e si fermò all’ingresso ferrigno. Scesero tre donne, l’uomo alla guida parcheggiò sullo sterrato fra cipressi e pini contorti dal vento.
«Lino caro, ti prego» squittì la più matura, in gramaglie, appoggiata a due ragazze infagottate in mantelle color topo «vai avanti e comincia ad aprire, così cambia l’aria.»
L’uomo distinto, impeccabile in doppiopetto fumo di Londra, gettò uno sguardo distratto all’orizzonte che sfumava livido nella spuma delle onde. Le sorpassò portando una borsa, una tanica d’acqua e una sedia pieghevole.
«Io sono lenta, sono vecchia ormai, che volete fare? Per poco, ancora, mi dovete sopportare… spe-riamo» lamentò. In realtà era solo indispettita. gli anni, eccessivi per dirsi giovane, erano ancora scarsi per ritirarsi in buon ordine dal gioco della vita.
«Che vecchia e veecchia, mamà non parlare così, che porta maale!»
«Ah, che ne sai tu, Melina mia? Sto tanto male, nessuno mi capisce» piagnucolò scuotendo il capo.
«Certo che ti capisco, che figlia sarei altrimeenti?» Melina le asciugò la fronte e le ravvivò i capelli con una carezza «da mesi dico di chiamare un meedico» appallottolò il fazzoletto di batista nella borsetta e abbozzò un sorriso che si scontrò nei cupi occhi materni.
«Non serve» si stizzì «qua ci sono solo ciarlatani! niente mi può guarire, ormai. Tu sei brava, tu. No come quella, quella là… chissà di chi era figlia “quella là”!» alzò i pugni chiusi al cielo struggendosi in pianto.
Si fermarono un attimo, grondanti di sudore. l’umidità sospesa non si decideva a diventare pioggia e impastava d’umori mattutini i tailleur antracite troppo pesanti, estratti dalla cassapanca del mezzo lutto per sostituire i neri al compimento del primo anno di lutto stretto. Impregnavano di canfora un autunno corteggiato invano, ancora saturo di tenaci residui estivi.
Singhiozzi e passi riecheggiarono, dalla ghiaia del viale solitario al fianco della collina, infrangendo la quiete di interminabili metri, fino alla cappella gentilizia. accanto allo stemma del barone Fazio di Torrevecchia li accolse un angelo ingrigito, di sentinella ai loculi con la spada in pugno e due piccioni appollaiati su un’ala. Senza curarsene la baronessa entrò e si afflosciò sulla sedia che lino aveva predisposto davanti alla lapide già spolverata. chinò gli occhi e cominciò a biascicare il rosario. L’uomo continuò a lucidare i candelieri d’ottone e Melina tornò indietro, dalla fioraia all’ingresso, a prendere garofani bianchi e crisantemi gialli, i colori dello stemma di famiglia.
L’altra giovane, smunta e taciturna, andò a sciacquare i vasi. Versando l’acqua marcia nella grata del tombino fu assalita da un moto di nausea. Tornò più pallida che mai.

https://i0.wp.com/www.edizionidifelice.it/2014/copertine/L-siringo.jpg«Che è, ti senti male?» gracchiò sospettosa la baronessa «Nunziatina, che hai?» alzò gli occhi puntuti dalla corona del rosario e inchiodò la gracile cameriera.
«Nieente è, niente ho, non si desse pensieero» nascose le lacrime girandosi a lustrare le lettere dorate della lapide vicina. La lapide di “quella là”, la lapide di lucia. Sospirò, rammaricandosi che fossero rimaste solo cinque lettere opache. Neanche una foto ci avevano messo, relegando l’immagine al ricordo sbiadito.
Sospirò ancora, estrasse un ritaglio di giornale dalla tasca del cappotto e lo incastrò furtivamente nel vuoto ovale brunito. Non se ne capacitava ancora, come se si fosse aspettata che da un giorno all’altro “quella là” sarebbe tornata a casa, magari strepitando e sbattendo porte e piedi, come al so-lito. Invece dopo pochi giorni sarebbe stato un anno, il primo, anche per lei.
La baronessa scosse la testa disapprovando i pensieri della cameriera, quella lastra non meritava ne-anche un briciolo della sua considerazione.
Riportò l’attenzione davanti a sé, verso il marito che le sorrideva in bianco e nero, fissamente ebete, dall’incastonatura nel marmo. Richiuse gli occhi e se lo rivide davanti a colori, sublime come la prima volta, in un costoso abito d’alta sartoria. dominante e biondo, un normanno, avrebbe indossato con impeccabile eleganza perfino uno straccio. Ne era stata attratta subito, era una festa di bene-ficenza, a tarda estate in casa di amici comuni, come si usava allora.
Se ne stava appartato sul balconcino, appoggiato a una balaustra di colonnine panciute, con gli occhi di ghiaccio persi a fissare il whisky in fondo al bicchiere e l’aria disperatamente malinconica di vedovo recente. Una complicanza di parto aveva stroncato la giovane moglie, presenziava alla festa solo per amor di buona causa, le iniziative a favore dell’infanzia erano il suo punto debole e non a-veva saputo esimersi a una raccolta fondi per la costruzione di un asilo in Africa, o forse in Asia, o insomma in qualche parte del terzo mondo.
Tollerava il brio delle danze che trascinavano la folla per il salone estraniandosi, come uno scolaretto, vago e sufficiente, in castigo dietro la lavagna. Lei, dal canto suo, cominciava a sfiorire invidiando la leggiadria delle altre che si accaparravano, volteggianti e civettuole, i migliori partiti nel gran ballo della vita. Occhialuta e impacciata, rassegnata a far da tappezzeria o a farsi strusciare da qualche vecchio marpione catarroso e sgraziato che, se andava bene, si limitava a pestarle i piedi, quando non procedeva a tastarle anche dell’altro, nella foga della danza.
L’invenzione del collasso fu un’ardita recitazione estemporanea, più unica che rara. Si precipitò sul balconcino accaldata, svenendogli fra le braccia e incendiandogli il cuore.
I conti si rivelarono esatti, di lì a poco diventarono moglie e marito. E che marito! Bello, ricco e no-bile. Potente, onorato e rispettato da tutta la città. Se ne interessarono perfino i rotocalchi nazionali, nozze da favola, preludio di un tenore di vita prestigioso e un palmo più su di tutte le smorfiose a-michette, alla faccia loro!
Ora lei vedeva chiaramente d’essere stata attratta soprattutto dal suo bisogno d’amore, dal suo gran-de calore affettivo. Solo col tempo aveva capito, a sue spese, che quel gran desiderio di lui non era rivolto a lei. O per lo meno, non solo a lei. l’amava, certo, ma ciò che egli avrebbe voluto veramente dalla vita sarebbero stati dei figli, tanti figli che appagassero la sua smania patriarcale. Per farlo felice, allora, lei aveva sopportato diversi compromessi. Si era dovuta accollare Vincenzino, il figlio della defunta moglie, e aveva tollerato di tenere in casa pure “quella là”, la “svista di gioventù” sfornata da una servetta.
Lucia, una marmocchietta scontrosa e allampanata con le gambe a stecco e il naso sempre sporco. Infine aveva rischiato la vita per mettere al mondo la dolce Carmelina. Martoriata dall’imperizia di un approssimativo esercizio dell’arte ostetrica, le avevano sconsigliato di averne altri. La loro Car-melina era un fiore stupendo e cresceva ottimamente, le avevano procurato un’eccellente balia con ulteriore bimbetta annessa.
Avrebbero potuto ritenersi soddisfatti, ma a lui non era bastato.
Pochi anni dopo si era presentato con un altro dono frignante fra le braccia, e l’impudenza di tutte le carte in regola a dimostrare che era giusto così. Il piccolo Antonio era stato abbandonato da un’imprecisata donnetta e sarebbe finito in brefotrofio. Inaudito, essendo figlio di un barone!
Lei aveva dovuto ingoiare, aveva dovuto farlo, era giusto così.
Col tempo si era rassegnata all’accozzaglia di figure ibride che circolavano per casa come se fossero state tutte dello stesso sangue.
E lui forse aveva finito davvero per far confusione, trattandoli tutti come parenti stretti. Perfino i servi, il maggiordomo Lino, la balia Assunta e la bimbetta, ammessi a pranzare con la famiglia. Tutti in sala, intorno alla gran tavola di quercia imbandita con tovaglie di lino, porcellane di Limoges, luccicar di cristalli e argenterie. Un gran carosello intorno a lui, a scaldargli il cuore.
Il problema che “non” avevano era quello economico. Si sa, i soldi chiamano soldi e lui faceva e di-sfaceva, affari su affari. Moltiplicava denaro per mestiere, era abilissimo in borsa, considerava l’intera vita un’eccitante sfida consistente nel profittare con scaltrezza, capitalizzare con costanza e vincolare con giudizio. Per le decisioni più impegnative continuava a consultarla, ma solo a titolo di formale cortesia, in considerazione del fatto che la liquidità proveniva dalla dote di lei. Con gli anni era diventato dispotico, sapeva da solo ciò che era conveniente e giusto. guidato da un forte senso di equità, non aveva avuto più bisogno né del suo aiuto né del suo amore.
Il barone Carmelo Fazio di Torrevecchia, sempre occupatissimo e tremendamente energico, era nato per essere padre. Concentrava lo scopo del suo esistere nel possedere figli e nel rimpinzarli di ogni bene costoso, convinto di trarne così il massimo, riconoscente, affetto.
La baronessa Marisa Maucino Fazio di Torrevecchia ricordò, fra un gloria e un pater, che pur es-sendosi sentita ferita aveva provato per lui un curioso senso di pietà. Come se presagisse un pericolo in quel voler mettere insieme un groviglio di persone diverse per farne artificiosamente una famiglia, senza tener in alcun conto la loro individualità.
Lo aveva ammonito più volte, ma lui non se ne curava.
«Come sei formale, convenzionale… borghese» la derideva senza malizia, con nobile superiorità. Ma aveva manifestato anche piccoli nei, ad esempio, il vizio di scialacquare il denaro con la prodigale usanza di donare pietre preziose alle due figlie, ad ogni ricorrenza.
Come se fossero state uguali, la sua piccina e quello spaventapasseri spennacchiato!
Quella mania era costata un capitale, dissipando gran parte del patrimonio dotale di lei, “pietrifican-dolo”, obiettava lui. infine, con la sua solita praticità in sciupio, aveva consultato legali e redatto documenti e predisposto ogni cosa per dividere l’opulenza fra tutti, figli e servi.
Così, sicuro di far del bene, era trapassato da un anno esatto. E non certo di morte naturale.
«Fate bene ai porci» bel risultato aveva ottenuto, alla fine! Avrebbe dovuto ascoltarla, lei l’aveva av-visato che il suo modo di dispensare “amore”, forse, non era gradito a tutti. Per fortuna dove non era arrivata la giustizia umana ne era intervenuta un’altra, superiore.
Lucia, l’illegittima marmocchia che nel frattempo per misteriosa metamorfosi era sbocciata diven-tando un essere di sfacciata avvenenza, era stata l’unica indagata per l’omicidio del padre ma era
morta in carcere, pochi giorni dopo. Un attacco di appendicite fulminante. Lucia ne soffriva ma al-lora nessuno sembrò rammentarsene, lei stessa si premurò a testimoniarlo, spinta da una tardiva forma di compassione, provandone quasi pena e risparmiando l’oltraggio di un’autopsia a quel ma-gnifico corpo di farfalla dalle ali bruciate.
Il medico legale ne convenne, tastandone la carne rapidamente ingrigita, tesa sul marmo, e chiuse sbrigativo la questione.
Marisa rabbrividì e si guardò le mani, le dita affusolate stringevano i grani neri della corona del ro-sario. Da bambina aveva sognato di diventare pianista ma gli esercizi monotoni alla tastiera avevano dirottato la vena artistica verso una compagnia filodrammatica dilettante, assai più divertente. Tanto da scatenare il malumore paterno che, scorgendo in lei una novella madame Curie, l’aveva in-dirizzata verso studi “più seri”. Gli studi di chimica erano naufragati senza successo, col solo esito di trasformarla in una donna atipica, occhialuta e scostante, infelice e sola, terribilmente sola.
«Diamonds are a girl’s best friends, i diamanti» si sa «sono i migliori amici di una ragazza» se lo canticchiò adagio adagio, fra una posta del rosario e l’altra, sentendosi un’affascinante Marilyn pre-cipitata in un grigio guscio da vedova. In verità il suo idolo più che Marilyn era Jackie. Jacqueline Kennedy onassis. con quale ammirevole signorilità aveva superato la duplice vedovanza, rimanendo
sulla breccia smagliante come sempre!
Sospirò piano, i “migliori amici” non le sarebbero mancati, i decessi avevano ricondotto le pietre preziose alla tutela delle sue mani e un giorno, semmai, sarebbero andate tutte alla loro unica vera figlia.
Agitò le dita eleganti, tamburellando l’aria al ritmo d’una melodia invisibile. Poi si rabbuiò, il canto scemò in mente, sovrastato dal fragore d’un pensiero stridulo.
«Prima o poi, mannaggia a lui, naturalmente parlandone da vivo, e mannaggia alle sue dannate clausole» borbottò, furiosa e incomprensibile, fra i denti.
La distolse un rispettoso colpetto di tosse alle spalle, si voltò di scatto.
«Prego Marisa, senz’altro ne avrai bisogno» il fedele Lino le porse una tazza di caffè fumante, ap-pena versato dal thermos.
Dopo la morte del barone era stata lei stessa a chiedergli di passare all’uso più disinvolto del tu, al-meno finché erano lontani da orecchie indiscrete.
Com’era caro! Attento, premuroso, capace di indovinare desideri e bisogni, prima ancora che venis-sero espressi.
«Grazie lino, non ti dovevi disturbare» cigolò.
«Nessun disturbo, davvero» arcuò compito le sopracciglia e aggiunse sottovoce «anzi, per me è proprio un piacere» sorrise, sollevando impercettibilmente un angolo della bocca. lei ricambiò grata,
marcando di rughe sottili il bel viso pallido. Bevve d’un fiato, bruciandosi la punta della lingua, senza scollare lo sguardo. Che uomo perfetto, solido, affidabile! Stempiatura a parte poteva dirsi anche bello, d’un fascino originale, intenso e profondo. Che fortuna averlo accanto! Adesso, e solo adesso, con l’avanzare dell’età capiva quali fossero i veri ingredienti per un’unione solida. Lino sa-rebbe stato proprio un ottimo marito, se solo fosse riuscita ad escogitare un modo di apparirgli di-versa, non solo l’inconsolabile vedova del barone.
«Andiamo, va! andiamocene a casa che ancora c’è da togliere il drappo nero dalla specchiera del sa-lone» si alzò segnandosi con un affrettato cenno di croce. Si aggrappò lieve al braccio dell’uomo premuroso, lasciando alle giovani il compito di chiudere il portoncino arrugginito della cappella. Mentre ticchettava sulla ghiaia, ben sorretta e compiaciuta, un timido raggio di sole fece breccia e inondò di luce il nastro grigio.

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La mattina della partenza Salvatrice si era alzata che era ancora buio. Aveva dormito poco ma bene, confortata dallo sciabordio di sottofondo.
Pronta, pur sentendo di non averne affatto voglia. Allora la terra aveva scelto lei. Anzi, l’aveva scel-ta il mare. Il borgo aveva prodigato il sortilegio, rivelando di possedere ingredienti per conquistarla.
La notte cominciava a scolorire, slavata da una pioggerella fine. Lei era uscita comunque, a salutare l’ultima alba sulla spiaggia incantata. Filtrava una luce speciale e la brezza infondeva energia ai suoi passi. L’umidità adombrava di fiaba l’orizzonte rosato dall’aurora.
La risacca risuonava, dolce e prepotente. lo sguardo bagnato di pioggia era attratto dal suo mare che la rapiva, irresistibilmente. Poco importava il versante, da ogni sponda quello era il suo Mediterraneo, la prima culla delle civiltà del mondo, il liquido primordiale dal quale erano partiti tutti i pensieri dell’umanità per dipanarsi, inarrestabili.
Camminava lentamente, inzuppata di pioggia e schiuma, affondando i piedi nella battigia molle, calpestando per gioco le trine eteree, bianche bave d’onde sul bagnasciuga. Si fermava, come una
bambina, a raccogliere e intascare conchiglie.
“Siamo mare col mare, acqua con l’acqua, terra con la terra, vento col vento” aveva declamato a un ignaro granchiolino in lotta contro la risacca “il simile deve restare col simile. ricordalo!” L’aveva esortato a indietreggiare spingendolo con un giunco. Smesso di piovere si era accovacciata dove la sabbia era più asciutta, solcandola con la punta delle dita, afferrandone pugni e lasciandosela scivo-lare addosso come un filo di clessidra sottile e inesorabile.
“I grandi uomini del passato sono fluiti da qui e si sono impastati di questa stessa sabbia, il loro spi-rito è impigliato a questa miriade di granelli” pensava ad alta voce “la sabbia conosce l’eco delle loro parole che sono rimaste, ancora intatte, tutte qui.”
Stringendosi le ginocchia al petto, fra ciuffi odorosi di gigli selvatici, aveva reclinato il capo per-dendosi a fissare l’incrocio magico delle onde. Per un tempo indefinito si era annullata, ipnotizzata da zampilli scaturiti nel punto d’incontro dei due mari. Aveva spinto oltre lo sguardo, lì dove il Me-diterraneo diventa Ionio e l’Africa incontra l’Europa senza segno di confine. Lì brillava una gemma, una goccia di terra incastonata nel mare, la sua isola minuscola coccolata dalle onde, trascolorata d’azzurro mattutino. Al margine del suo Mediterraneo c’era l’armonia con l’universo, aveva solo capovolto la prospettiva dello sguardo, il punto di vista.
“Ecco, il principio del mondo dev’essere lì, dove ogni scontro di flutti si risolve in un abbraccio, in fusione assoluta e scambio d’immenso, rivelando una promessa di pace, un rinnovamento perenne,
frutto di mescolanza di essenze e reciproca offerta di fiduciose speranze.”
Il cuore parlava liberamente al mare e al cielo, dava in consegna i pensieri più intimi al vento, perché si diffondessero ovunque ci fosse qualcuno in ascolto.
Affidava alla mercé del vento anche un segreto pensiero d’amore, potente e impalpabile, affinché le folate d’aria lo trasportassero intorno al mondo. Perché il suo amore valicasse immani distanze e giungesse, intatto, a destinazione. Un vento delicato la sfiorava, le sussurrava una carezza fra i ca-pelli, l’aria pura le massaggiava il volto, prima di avventurarsi oltre le terre e i mari. avrebbe lambito campanili, spolverato templi, lisciato giocosamente i palazzi. Una carezza innocente si sarebbe in-sinuata fra monti e gole innevate, si sarebbe strusciata su vette di colline, avrebbe levigato pianure, avrebbe avuto refrigerio immergendosi in fiumi, laghi e oceani, per deporsi infine, lievemente, sui volti smarriti di una madre, di un padre, di un fratello.
Un ponte di colori si era dipanato, improvviso, ad arco intero sull’orizzonte, annunciando una festo-sa consapevolezza. Col levarsi del sole, nel rapido sfumare dell’arcobaleno, lei aveva visto final-mente chiaro; in nessun altro luogo sarebbe stata felice se non al davanzale del suo immenso mare.

(riproduzione riservata)

© edizioni DiFelice

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Una seconda occasione, pubblicato nel 2014 da Di Felice Edizioni, è un romanzo “giallo” con molte altre sfumature, ambientato in Sicilia.
Quattro anni dopo La zia diLampedusa, lo spunto proviene anche dalla curiosità dei lettori che chiedevano di sapere qualcosa in più sull’anziana protagonista.
È un “ritorno” nel tempo, perché guardarsi indietro qualche volta può far bene, indietro nel cuore dei mitici anni Settanta, per tutti quelli che li hanno vissuti o che ne hanno sentito parlare…
È una storia di donne che intersecano le loro esistenze cercando personali risposte al senso di vivere, alla quotidiana fatica; inseguendo una vaga felicità e un non ben distinto amore, felice o infelice, basta che sia amore.
Prende le mosse dai versi di Agatha Christie, curiosamente simili ai versi di una canzone scritta a quattro mani da Mia Martini e Claudio Baglioni… da qui si snoda una vicenda corredata di opportuna “colonna sonora” (ancora una volta i titoli dei capitoli sono presi a prestito dalle canzoni di quegli anni)
Ha partecipato alla V edizione del Premio letterario internazionale “Città di Martinsicuro” e, fra oltre 400 partecipanti, si è classificato al primo posto con la seguente motivazione:
“Per la vivace e scrupolosa ricostruzione dello spazio e del tempo storico della vicenda narrata, e per la convincente caratterizzazione dei personaggi che vi agiscono, ognuno legato alle proprie storie personali ma al contempo uniti inesorabilmente dal destino e dal desiderio di cogliere la loro personale seconda occasione. Un racconto che è già sceneggiatura in cui ogni capitolo rappresenta un’inquadratura, ogni paragrafo una scena e con dialoghi ben scritti. Non poteva mancare di certo la colonna sonora che, grazie alle note delle canzoni più belle degli anni settanta contribuisce a dare una rappresentazione della vita quotidiana di provincia, dolente, tenera e surreale. Non c’è una struttura narrativa complessa ma un raccontare semplice e scorrevole che attrae il lettore, lo coinvolge e lo trasferisce in una Sicilia pronta ad inseguire la rivoluzione culturale italiana ma al contempo ancora saldamente ancorata al suo passato, alle sue tradizioni e ai suoi misteri. Sul piano della tecnica narrativa, l’uso consapevole dei giochi temporali conferisce un gradevole movimento all’opera rendendone avvincente la lettura.”

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Elvira Siringo è nata a Siracusa dove vive, lavora e scrive.
Negli anni giovanili ha collaborato con il quotidiano “Il Diario” curando una pagina settimanale dedicata alle donne. È stata socio fondatore del settimanale cattolico “Cammino” al quale ha collaborato attivamente. Saltuariamente ha collaborato ad “Avvenire” e alla rivista di storia locale “I Siracusani”.
Ha pubblicato il suo primo racconto sul settimanale femminile “Bella”.
Oggi è sposata e ha tre figli. Laureata in Lettere e Filosofia, insegna filosofia e storiapresso il Liceo Polivalente “Quintiliano” della sua città. È autrice di racconti, alcuni pubblicati sul sito http://www.stilos.it/.

* Nel 2009 ha pubblicato il romanzo “La zia di Lampedusa” – Morrone editore, dal quale l’anno successivo ha tratto l’adattamento teatrale “Zucchero in tasca” presentato al Salone Internazionale del libro di Torino.

* Nel 2011 ha pubblicato il romanzo “Per le vie del mondo”, un romanzo spirituale sull’amore e sulla bellezza, che ha ricevuto la menzione di merito dalla giuria del 3° Concorso Letterario “In purissimo azzurro”.

* Nel 2012 ha pubblicato il saggio storico “Sogno di indipendenza” sul risorgimento siracusano, con cui ha ottenuto il Premio nazionale di giornalismo e saggistica “Portopalo più a sud di Tunisi” VII edizione.

* Nel 2013 ha pubblicato la piece teatrale “Il passaggio anomalo dell’onda” – Lombardi Editore, portata in scena dagli attori INDA Doriana La Fauci e Davide Sbrogiò.

Il romanzo “Una seconda occasione” – Di Felice Editore, vincitore del Premio Internazionale Città di Martinsicuro V edizione 2013, ripropone alcuni personaggi del primo romanzo “La zia di Lampedusa”, raccontando i loro anni giovanili e proiettandoli in un viaggio a ritroso nel cuore dei mitici anni settanta.

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© Letteratitudine

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