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L’EMPRISE, di Sarah Chiche

giugno 16, 2014

L’EMPRISE, di Sarah Chiche
(romanzo inedito in Italia) – Grasset, 2010

di Claudio Morandini

Con “L’emprise” (Grasset, 2010) Sarah Chiche racconta una storia di possessione (l’emprise, appunto, ovvero l’ascendente, l’influenza del titolo, ne è un sinonimo ingannevolmente attenuato). Il romanzo procede implacabile, ma non nega alcune alcune svolte imprevedibili, nel raccontare la dipendenza sempre più stretta di una donna (resa fragile dalla morte dell’amata nonna, dalla separazione dall’amante e dal ripudio del marito) dal suo psicoterapeuta. Certe pagine sembrano ripercorrere luoghi e situazioni – le più disperate – della fase finale della deriva di Hannah, la protagonista del precedente romanzo della Chiche, “L’inachevée” (L’incompiuta, Grasset, 2008). In un certo senso “L’emprise” è la lente d’ingrandimento posata su quei momenti di perdita di senso, di abbandono di volontà e di dignità, ne è l’estensione, la riduzione a un dramma a due, con una vittima ben definita da subito e un antagonista che si rivela un po’ alla volta, e da rassicurante e autorevole diviene ben presto prevaricatore, sordido, ricattatorio, minaccioso. Victor (nome scelto non a caso) è tutto ciò che non dovrebbe essere un terapeuta, e lo è a tal punto da trasformarsi, nella seconda parte (non ce ne vogliano i futuri lettori), in una sorta di fanatico esorcista, pur conservando i tratti (attenzione, l’ambiguità del ruolo è fondamentale, e rafforza il personaggio, invece di sfocarlo) di una creatura mefistofelica. Pretende subito la nudità e l’assoluta disponibilità da parte della donna, e la avvolge in un ambiente neutro e artificioso, scollegandola dalla realtà, dalle amicizie e da ogni altro interesse, sottoponendola a terapie che sono tour de force carichi di violenza psicologica, iniettandole ricordi di fatti mai accaduti, manipolandone gli affetti e le poche certezze residue, imponendole dopo le sedute come compiti a casa lunghe trascrizioni che forzano la realtà e ufficializzano la finzione, e sottraendole decine di migliaia di euro. Victor si presenta subito come l’unica soluzione, la sua ricetta è la sola valida, la sola perfetta: e forse in questa presunzione, nell’arroganza con cui non prospetta alternative alla donna fragile e in cerca di aiuto sta la sua componente più spaventosa.

Sarah Chiche, che è fine scrittrice oltre che psicoterapeuta, sa bene come descrivere lo scorato perdersi della persona affetta da melancolia: le nega l’appiglio di un nome, e lo nega pure alle persone con cui ha a che fare (tranne, è ovvio, il prepotente, ingombrante Victor Grandier); le negherà anche (scusate, devo dirlo) il conforto di un completo happy end; e rimpicciolisce la sua protagonista in ambienti in cui ogni dettaglio visivo e sonoro trasmette un senso di estraneità. Non mi riferisco solo allo studio di Victor Grandier, bianco e privo di appigli a cui aggrapparsi con la vista; ma anche, all’opposto, all’irrealistico albergo cadente in cui la donna viene reclusa (esiliata) durante i mesi di terapia dai suoi familiari, pieno di persone sfuggenti e colte dalla vergogna; e pure al garbuglio di vie che portano all’edificio in cui Grandier riceve. Grandier, nel suo studio, diventa un corpo invadente: la donna ne studia ossessivamente ogni gesto, ogni reazione, ogni dettaglio fisico, in certa di segni di approvazione. Victor Grandier fonda la sua forza, dicevamo, sulla proteiformità: cambia, muta aspetto, muta tono e strategie, esprime una forza irresistibile attraverso l’imprevedibilità delle sue mosse: è surrogato di genitore premuroso fino ad essere melenso, è tiranno spietato, confessore e accusatore, comprensivo e subdolo, silenzioso e retorico, distaccato e invasivo, minaccioso e lamentoso, complimentoso e feroce, diventa alieno e deforme come uno dei papi urlanti dipinti da Bacon. Si può sempre immaginare (qui sta la forza enigmatica del romanzo, il suo lavorare attorno al caso clinico per farne materia di racconto) che la visione degli ambienti, delle figure umane, delle relazioni e dello stesso Grandier sia distorta dalla melancolia che affligge la protagonista – si può sospettare, a tratti, e senza averne la certezza, che le cose non siano proprio così, che la natura demoniaca di Grandier non sia reale. Rimaniamo nell’incertezza, perché appunto qui, nell’ambiguità, sta la bellezza – la forza, si diceva – del romanzo rispetto alla semplice esposizione clinica di un disturbo. Sarah Chiche avrebbe potuto, come fa nei suoi brillanti testi scientifici, rispondere a tutti i dubbi del lettore, risolvere il caso svelandone gli elementi rimasti nell’ombra: ma non lo fa proprio perché questo non è un saggio, e perché il romanzo (la letteratura in genere, direi) tende, per sua costituzione, ad aderire alla visione alterata (e per questo poetica) della protagonista, piuttosto che a quella razionale del terapeuta.

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