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LE VOCI DEL MONDO, di Robert Schneider

Maggio 28, 2013

Le voci del mondoIn collegamento con il forum permanente di Letteratitudine dedicato al rapporto tra “Letteratura  e musica“…

Robert Schneider, “Le voci del mondo

di Claudio Morandini

Le voci del mondo” di Robert Schneider è uscito in Austria nel 1992. Einaudi ne ha pubblicato nel 1994 una meticolosissima traduzione a cura di Flavio Cuniberto (riproposta in una nuova edizione nel 2005). Io, fino a qualche mese fa, non ne sapevo quasi nulla: ma, trovatolo in una bancarella dell’usato, l’ho scoperto e ne sono rimasto incantato (tra parentesi: chi può essere tanto sordo alla bellezza da volersi sbarazzare di un libro così?).
Elias Alder, il giovane protagonista del romanzo, è un genio della musica – dei suoni, anzi, di tutti i suoni e le voci del mondo. Le sue straordinarie doti ne avrebbero fatto un musicista eccelso, un Mozart al quadrato, un concentrato paradigmatico di genio musicale romantico – ma circostanze avverse lo hanno costretto a nascere in quel triste, cupo, immobile villaggio di Eschberg, agli inizi dell’Ottocento, e gli impediscono di imparare la musica; certo, egli sa la musica senza bisogno di studiarla come disciplina, la parla, la pensa, la trasuda: ha un orecchio finissimo, una memoria prodigiosa, un pensiero il cui sviluppo è spontaneamente imitativo come un fugato o nutrito di contrasti e rimandi come una forma-sonata, ha una immaginazione al di là dei suoi tempi (di tutti i tempi, si direbbe): ma nessuno, a parte i compaesani, che però diffidano di lui come di un pazzo o un mostro, e gli abitanti di Feldberg accorsi all’annuale Cimento per organisti, entusiasti sul momento ma di memoria ahimè assai labile – nessuno, dicevo, lo saprà mai. La sua vita, chiosa amaro Schneider, “non è che un triste bilancio di omissioni e mancanze: commesse da tutti coloro che intuirono forse il grande talento del ragazzo, lasciandolo poi deperire per indifferenza o pura stupidità”.
“Circostanze avverse”, abbiamo scritto poco fa: ma Schneider, dando voce ai tormenti dello stesso Alder, ne parla come di una sorta di maledizione divina, di beffa crudele. Un dono sublime concesso misteriosamente da Dio viene altrettanto misteriosamente neutralizzato dalla creazione, attorno ad esso, di un ambiente sordo e ostile. I frutti presumibilmente sommi di quel dono non verranno mai ascoltati da nessuno, se non da pochissimi incapaci di comprenderne la grandezza, o dotati di scarsissima memoria, o rosi dalla gelosia – dunque, quei frutti non lasceranno traccia, non diventeranno mai parte del patrimonio d’arte dell’umanità, saranno persi per sempre, e noi tutti a questo punto saremo vittime come Elias Alder di questa beffa crudele e incomprensibile. Quanti geni assoluti, si chiede Schneider, non a caso all’inizio e alla fine del romanzo, sono andati perduti per sempre, come Elias? A quanti Mozart, Michelangelo, noi uomini abbiamo dovuto rinunciare senza nemmeno saperlo?
Di fronte a certe pagine, si può forse pensare a Patrick Süskind e vedere ne “Le voci del mondo” una sorta di “Profumo” virato sull’estrema sensibilità ai suoni invece che agli odori. Ma Schneider evita la trappola dell’emulazione perché, a parte la scena della partecipazione al Cimento per organisti a Feldberg, il suo romanzo si svolge tutto compresso nella geografia angusta di un villaggio montano dell’Austria. Eschberg è un microcosmo chiuso, ottuso, torpido, inevitabilmente afflitto da tare genetiche, fermo nella ciclicità della vita contadina e sottoposto periodicamente a cataclismi, incendi, alluvioni, esplosioni d’ira distruttiva, di cui la natura e l’uomo si spartiscono la responsabilità. È un piccolo mondo feroce e superstizioso, percorso sottopelle da pulsioni animalesche. A differenziare dal cosmopolitismo rutilante del “Profumo” di Süskind è prima di tutto proprio questa limitazione paesana, se volete strapaesana, in cui il bozzettismo arcadico è però deformato da ironia e da un senso grottesco della tragedia.

L’ipersensibilità musicale si accompagna in Elias ad alcune peculiarità fisiche: le pupille gialle, l’alta statura, l’invecchiamento precoce. La sua voce può imitare tutte le voci, umane e animali (anche gli ultrasuoni); quando egli siede al modesto organo della chiesa del villaggio, imita ciò che ha appena ascoltato, e nell’imitare stravolge e trasfigura i goffi esercizi dell’organista titolare, e, quando gli si darà l’occasione, imiterà, trasfigurandole in una partitura immaginaria in cui tutto pare prendere un senso nuovo, tutte le sensazioni, le figure, le voci, i sensi, i moti della vita – e i battiti del cuore dell’invano amata Elsbeth, il ritmo primigenio del cuore, la matrice originaria di ogni musica. La sua è un’arte potentemente imitativa, al modo romantico, certo, al modo di un Berlioz o di un Liszt – ma l’imitazione, nelle dita di Elias Alder, diventa il più puro atto creativo. La sua impressionante improvvisazione all’organo di Feldberg è colma di un senso misterioso di vita e di spiritualità, anticipa e supera il sinfonismo organistico tardoromantico e si affaccia impavida sugli intrichi e gli impasti di Messiaen (nel suo procedere ricorda a Cuniberto, addirittura, una partitura d’avanguardia come i “Momente” di Stockhausen).
Schneider, che conosce la musica, sa dosare, in queste sorprendenti pagine (parlo del capitolo intitolato “Il cimento musicale”), competenza tecnica e allusività letteraria, e sa descrivere la musica a blocchi contrastanti di colori timbri e ritmi, a viluppi contrappuntistici, facendone un gioco complesso di pieni e silenzi, di stridori e quiete, di dissonanze e ripensamenti consonanti; allo stesso modo, ce la fa sentire attraverso lo stupore del pubblico accorso, che ama la musica ma non ne capisce nulla, e attraverso lo stupore ancora più acceso della giuria di esperti di Feldberg, che sa di composizione e improvvisazione organistica ma non ha mai sentito niente del genere. Ce ne fa sentire, infine, il potere di intervento sul tempo, che viene sospeso, accelerato, scosso, rivoltato, in ogni caso stravolto.
(C’è questo, nella parola scritta che descrive, o meglio narra, la musica: che può dar vita a una musica che non potrebbe esistere, di impossibile esecuzione, di struttura impossibile; oppure a una musica bruttissima, sbrodolata, ridondante, che però, nell’immaginazione di noi lettori, diventa bella, più bella anzi di qualsiasi musica ci sia mai capitato di ascoltare. Nel caso dell’improvvisazione di Alder, senza dubbio potrebbe suonarci sublime in modo intollerabile, e allo stesso tempo eccessiva, irriducibile a una forma, mostruosamente deforme per così dire – ma le improvvisazioni organistiche di un genio, quelle che sanno evitare i pantani dei cliché e si fanno beffe dei facili, rassicuranti automatismi, devono essere così, esplodere nel presente per lasciare nel ricordo detriti incancellabili di bellezza tenuti assieme da un senso di sospeso stupore.)

Robert Schneider
“Le voci del mondo”
Traduzione di Flavio Cuniberto
ET Scrittori, Einaudi, 2005
ISBN 9788806173715

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