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OMAGGIO A ENZO BETTIZA

luglio 28, 2017

ADDIO A ENZO BETTIZA, giornalista e scrittore italiano scomparso oggi (Spalato, 7 giugno 1927 – 28 luglio 2017)

Lo ricordiamo pubblicando la recensione apparsa sul quotidiano “La Repubblica” dedicata a “Esilio” (con cui Bettiza vinse il Premio Campiello nel 1996): memoria dell’infanzia e adolescenza nella natia Dalmazia dagli anni venti alla Seconda guerra mondiale

Enzo Bettiza è stato corrispondente prima da Vienna e poi da Mosca della “Stampa” dal 1957 alla fine del 1964 . Per dieci anni inviato e fondista del “Corriere della Sera”, e nel 1974 ha dato vita, con Indro Montanelli, al “Giornale”, di cui è stato condirettore vicario fino al 1983. Ha dedicato gran parte della sua attività narrativa e saggistica alla riflessione sul destino dell’Europa moderna. Ha pubblicato fra l’altro: “La campagna elettorale” (1953), “Il fantasma di Trieste” (1958), “Il diario di Mosca” (1970), “Il mistero di Lenin” (1982), “L’anno della tigre” (1987), “I fantasmi di Mosca” (1993), “Esilio” (1996, premio Campiello), “L’ombra rossa” (1998), “La cavalcata del secolo” (2000), “Il libro perduto” (2005), l’introduzione al Meridiano dedicato a Guido Piovene (1976), “Corone e maschere”, “Viaggio nell’ignoto”, “1956”, “La primavera di Praga”, “La distrazione” (2013).

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di Pietro Veronese (da “La Repubblica” del 14 febbraio 1996)

Risultati immagini per enzo bettiza esilioSpalato – Nella ex Jugoslavia dilaniata dai nazionalismi e uccisa dalla guerra, ormai divisa su tutto, un’ accusa risuona identica da Sarajevo a Zagabria a Belgrado e accomuna i regimi degli anni di ferro post-titoisti. E’ il delitto di jugonostalgia, che si scrive come in italiano ma si pronuncia con strascicato accento slavo: “jugonostàlghia”. E’ jugonostalgico chi mostra di preferire i tempi andati agli attuali, l’ epoca della convivenza a quella della pulizia etnica. Chi volta le spalle a questo presente di sangue e ai miseri regimi che in esso celebrano il proprio trionfo, e preferisce vivere nello spazio privato, immateriale, della memoria. Alle orecchie dei nazionalisti di ogni tendenza, la jugonostalgia è il crimine mentale numero uno, che identifica chi non è ‘ politicamente corretto’ in questo cupo dopoguerra balcanico. Questa premessa può forse spiegare l’ inattualità dell’ ultimo libro di Enzo Bettiza, Esilio (Mondadori, 470 pagine, 32.000 lire). Bettiza, slavo per parte di madre, italiano per parte di padre, si è infine risolto ad affrontare quella parte di sé che egli aveva sempre accantonato, o forse tentato invano di diluire fino ad annullarla nel pieno e riuscitissimo inserimento nella vita professionale e pubblica dell’ Italia del dopoguerra. E cioè l’ infanzia e la prima adolescenza – e più indietro ancora le radici napoleoniche della dinastia paterna, quelle ottomane e caucasiche del ramo materno – trascorse tra Spalato e Zara, sulla costa orientale dell’ Adriatico. Fino al 1945, quando, diciottenne, s’ imbarcò “su un peschereccio pugliese di fortuna, pericolosamente sovraccarico di ebrei ungheresi, slovacchi, polacchi, romeni, fuggiti dall’ Est”, come racconta l’ ultima pagina del libro. La Jugoslavia di cui narra Bettiza non è tanto quella di Tito, bensì la cosiddetta prima Jugoslavia, quella dei re serbi Karadjordjevic, nata con la pace di Versailles all’ indomani della prima Guerra mondiale e morta con la seconda, cioè con l’ invasione italiana e tedesca. Più propriamente, egli narra della Dalmazia, cioè della lunga, magnifica striscia di civiltà costiera che corre giù lungo la sponda orientale del mar Adriatico, cominciando a sud di Fiume ed esaurendosi alle Bocche di Cattaro, che politicamente fu austriaca prima di essere jugoslava, ed oggi croata, ma da ogni altro punto di vista non fu mai pienamente austriaca, né jugoslava né è oggi croata (e infatti la Dalmazia odierna ha votato con assai scarsa convinzione per i piccoli costruttori di Reich che comandano a Zagabria), ma tutte queste cose insieme e nessuna in particolare. E perdipiù italiana, veneziana, bizantina, romana, illirica… Uno spazio abitato da “un popolo che non è mai riuscito a coagularsi in nazione: (…) un popolo musiliano antelettera, disponibile e ‘ senza qualità’ “. Il crimine di cui questo Esilio è la prova flagrante non è tanto la jugonostalgia, quanto una “dalmatonostalgia” di cui i manuali della nuova correttezza politica balcanica neanche sospettavano l’ esistenza. Lo si può capire. Il libro di Bettiza è una pessima guida per aggirarsi tra i casermoni socialisti della Spalato post-titina, i quartieri intensivi d’ abitazione, la schiera di traghetti semivuoti della Jadrolinija e le Golf della milicija tudjmaniana, il bucato dei profughi steso ad asciugare ai balconi degli alberghi precettati e la gioventù slava che affolla i caffè del centro storico. Il mondo che esso descrive, popolato dalle famiglie del patriziato mercantile della costa, da avventurieri napoleonici, funzionari asburgici e politici della belle époque, balie dell’ entroterra serbo, regi licei-ginnasi e custodi di pubblici giardini che finita la sigaretta non buttavano la cicca per terra ma la chiudevano “in una scatoletta metallica che portavano con sé”, è un mondo che da molto, moltissimo tempo non esiste più. Lo scrittore, che è venuto qui a salutare qualche vecchio amico e a presentare il nuovo libro, vi prenderà volentieri sottobraccio per mostrarvi i luoghi della Spalato della sua prima giovinezza. “Ecco, questa era la piazza degli italiani, costruita col cemento della premiata fabbrica Gilardi & Bettiza. Lì era la Biblioteca; lì il Gabinetto di lettura; lì la Società operaia. E qui, sul lungomare voluto nella seconda metà dell’ Ottocento dal podestà italiano Antonio Bajamonti, sorgevano l’ uno accanto all’ altro tre caffè in perfetto stile viennese: il primo era frequentato dai serbi, il secondo dai croati, il terzo dagli italiani. Spalato non era come l’ Istria, dove le città erano italovenete e il contado slavo. Qui, tra le due anime, l’ italiana e la slava, non c’ era scissione… Dentro le mura della città, la borghesia era italiana e slava…” Bettiza sa di che cosa parla. Non solo per il sangue, ma anche per l’ educazione. Persino la lingua non fece di lui un italiano, o meglio soltanto un italiano. “Il bilinguismo per noi piccoli spalatini era affatto naturale”, sta scritto nel libro, “come se parlassimo una sola lingua in cui il senso d’ ogni parola poteva dividersi per due suoni diversi”. Un’ identità nella quale si fondevano due ingredienti all’ apparenza così inconciliabili come l’ italiano e lo slavo, inimmaginabile oggi che i piccoli nazionalismi balcanici hanno invece diviso quel che era unito e hanno artificialmente scisso persino il serbo-croato in due lingue forzose, il serbo e il croato. Per questo il mondo che lo scrittore rievoca in Esilio appare a noi spettatori delle guerre post-jugoslave non soltanto lontano, ma quasi inverosimile. La Dalmazia nella quale egli nacque era italo-slava e fu poi sistematicamente slavizzata già al finire del secolo passato. Oggi neanche questo basta più, e il potere di Zagabria la vuole croatizzare. La fabbrica di cemento non esiste più. La casa che fu dei Bettiza avrebbe bisogno urgente di un restauro. Anche il cimitero di Santo Stefano dove i Bettiza venivano sepolti è stato presto spazzato via dalle ruspe della modernizzazione socialista. E la nazione dalmata è stata spazzata via molto prima, già quando caddero nel fuoco della prima Guerra mondiale gli imperi multinazionali che regnavano autoritari e lontani sulle genti europee. E’ stato scritto che libri come questo aiutano a capire le guerre balcaniche di oggi, quella in Slavonia, poi quella in Bosnia. Ma per la verità, la lettura di Esilio ottiene l’ effetto esattamente opposto. Più uno vi s’ immerge – e di vera immersione si tratta, in un universo di personaggi talora tragici e talora esilaranti, di fascinosi parenti, storie familiari, culture scomparse, riti e gastronomie le cui ricette si sono perse da generazioni, di idrovolanti che collegavano con più corse giornaliere Spalato e Ancona e nessuno sa spiegare oggidì perché gli idrovolanti non volino più -, più è la guerra e non quel mondo scomparso ad apparire inspiegabile. E’ assurdo che alla tolleranza autoritaria dell’ Impero austro-ungarico, e poi di quegli imperi in miniatura che furono le due Jugoslavie, si siano sostituite le etnodemocrazie intolleranti e belliciste che comandano oggi nei Balcani. Così chi amerà Esilio finirà piuttosto per avere voglia, con Bettiza, di imbarcarsi prima che sia troppo tardi e volgere le spalle a questi orrori. Si sentirà un poco estraneo in questa realtà di nazionalismi sanguinari; si sentirà un poco dalmata honoris causa, iscritto fuori tempo massimo all’ anagrafe ideale di una nazione tollerante, benevola, un po’ incredula, esposta ad ogni vento e aperta ad ogni influsso, che non è mai riuscita a esistere davvero.

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