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QUESTA SERA È GIÀ DOMANI di Lia Levi (un estratto)

gennaio 25, 2018

Pubblichiamo un estratto del nuovo romanzo di Lia Levi intitolato QUESTA SERA È GIÀ DOMANI di Lia Levi (Edizioni E/O) – per gentile concessione dell’editore

Lia Levi, di famiglia piemontese, vive a Roma, dove ha diretto per trent’anni il mensile ebraico Shalom. Per le Edizioni E/O ha pubblicato: Una bambina e basta (Premio Elsa Morante Opera Prima), Quasi un’estate, L’albergo della Magnolia (Premio Moravia), Tutti i giorni di tua vita, Il mondo è cominciato da un pezzo, L’amore mio non può, La sposa gentile (Premio Alghero Donna e Premio Via Po) La notte dell’oblio e Il braccialetto (Premio speciale della giuria Rapallo Carige, Premio Adei Wizo). Nel 2012 le è stato conferito il Premio Pardès per la Letteratura Ebraica.

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È appena uscito, sempre per i tipi di E/O, il nuovo libro di Lia Levi intitolato “Questa sera è già domani“. Un nuovo emozionante romanzo in cui l’autrice di Una bambina e basta torna ad affrontare con particolare tensione narrativa i temi ancora brucianti di un nostro tragico passato.

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Nel 1938 si riuniscono 32 Paesi per affrontare il problema degli ebrei in fuga da Germania e Austria. Molte belle parole ma in pratica nessuno li vuole. Una sorprendente analogia con il dramma dei rifugiati ai nostri giorni.

Nello stesso anno 1938 vengono promulgate in Italia le infami Leggi Razziali. Come e con quali spinte interiori il singolo uomo reagisce ai colpi nefasti della Storia? Ci sarà qualcuno disposto a ribellarsi di fronte ai tanti spietati sbarramenti?

Pubblichiamo di seguito le prime pagine per gentile concessione dell’editore

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1.

Quell’incontro privato glielo aveva chiesto la giovane si –
gnora Rimon avvicinandosi per un attimo all’uscita del
Tempio. «Vorrei portare da lei mio figlio» aveva sussurrato
rapida, e il rabbino Bonfiglioli si era un poco stupito.
Gli sembrava di ricordare che il figlio doveva essere ancora piccolo,
di sicuro non in età di Bar Mitzvà. E poi quei Rimon, una
famiglia come molte altre, brava gente, però quanto a os ser van –
za ebraica davvero tiepidina. Rosh Hashanà e Kippur, le feste
“obbligatorie”, dove arrivavano in massa circondati da una va –
riegata parentela, e poi basta. In sinagoga si vedeva di tanto in
tanto solo la madre, sempre con un vestito fresco di sarta, ma
sembrava più un’educata spettatrice che una donna di fede. Il
libro di preghiere che stringeva in mano, quello sì, il rabbino l’aveva
notato. Pareva di antica stampa e aveva una copertina di
stoffa consunta a grandi di segni floreali. Avrebbe pagato qualsiasi
cosa per poter dare un’occhiata a quel testo, ma non era
abbastanza in confidenza con la signora. “Chissà se lo porterà
quando verrà all’appuntamento”. Ma era un pensiero leggero, di
quelli che si concedeva solo nella gioia del sabato.

Il figlio era più o meno come se lo ricordava, un bimbetto
che pareva sveglio e per niente intimidito dai mobili pesanti che
opprimevano lo studio. E pensare che lui, il rabbino, certe
volte per sentirsi un po’ volare aveva bisogno di abbandonarla
quella stanza, tuffandosi anche solo nel corridoio.
Il bambino, senza aspettare un invito, si era accomodato su
una seggiola accanto alla madre, ma il gesto era stato tranquillo,
senza traccia di arroganza. Era come se già fosse consapevole
che ovunque, nel mondo, ci sarebbe stato uno spazio per lui.
«Come ti chiami e che classe frequenti?». Era quello il
copione, e Rav Samuele Bonfiglioli non pensò affatto di sottrarsi.
Si chiamava Alessandro, tutto intero. I diminutivi non gli pia –
cevano, a nessuno in famiglia piacevano. Di anni ne aveva otto,
l’ottobre seguente sarebbe andato in quinta.
Il rabbino si ritrovò perplesso. Il copione non funzionava.
«In quinta a otto anni?» aveva domandato.
«Sì, ma a febbraio ne compio nove». Il ragazzino par ve scusarsi.
«Sono avanti di due anni» mormorò con tono sommesso,
quasi impercettibile.
«Bravo, bravo» rispose Rav Bonfiglioli meccanicamente, men –
tre col pensiero andava divagando.
Perché gli era stato chiesto quell’appuntamento? Ora ricordava
qualcosa. Doveva aver sentito in giro la storia di un bambino
ebreo, un piccolo genio, che alle elementari della scuola
pubblica rimbalzava da una classe all’altra perché già sapeva tut –
to per conto suo.
Ma cosa c’entrava un rabbino con quel gioco di acrobazie
scolastiche?
Lui si occupava di altro. Il suo compito nella vita era studiare
e tramandare la legge ebraica. E quando arrivava il mo –
mento di preparare un ragazzo per il Bar Mitzvà e incrociava
al volo uno sguardo in attesa, si sentiva ogni volta salire dentro
una immensa esultanza.
Seguì un lungo silenzio. Il bambino ondeggiava sulla sedia
e si spostava di qua e di là per osservare gli arredi e gli oggetti
della stanza. Sembrava farli propri. Si capiva che a incuriosirlo
era stato quel pesante oggetto di bronzo della scrivania, un glo –
bo terrestre sorretto da quattro figure muscolose che in realtà
nascondeva un calamaio riempito di in chiostro nero. Era così.
Il bambino stava pensando se quelle figure possenti potevano
essere dei ciclopi. Ma no, nella casa di un rabbino forse erano
un Sansone replicato quattro volte.
«Signor rabbino». Emilia Rimon stava cercando con disagio
di cominciare un discorso. «Le ho chiesto un appuntamento per –
ché devo porle una domanda». Suo figlio, quel bambino che
adesso era di fronte a lui, pochi giorni prima aveva dichiarato
che credeva in Dio solo qualche volta. «Mi sembra una cosa
grave per un ebreo, vero?» aggiunse in fretta.
Ma Rav Bonfiglioli non sembrava avere molta voglia di ri –
spondere. Quel discorso annaspante della signora non lo aveva
per niente convinto. Non gli sembrava proprio di riconoscere
davanti a sé una pia ebrea trepidante di religiosità. E, fra l’altro,
non si era neanche portata dietro il libro di preghiere che tanto
lo incuriosiva. E ora quella domanda incerta gli sembrava una
specie di pretesto acchiappato al volo. La vaga reminiscenza che
gli era affiorata all’inizio doveva essere quella giusta.
Emilia Rimon aveva semplicemente l’irrefrenabile desiderio
di fargli sapere che la sua famiglia poteva vantare come figlio
un portento di intelligenza e cultura. Non poteva più tormen –
tarsi nel dubbio che la leggenda su questo prodigioso bambino
non fosse arrivata per qualche via anche all’orecchio del rabbino
a capo dell’intera comunità degli ebrei di Genova.
E adesso il Rav avrebbe dovuto rispondere a quella specie
di quesito artificioso? Lui era un uomo semplice, un maestro
che amava lo studio della Torà. Tutto qui. Le sentenze da “Rab –
bi meraviglioso” o da finto profeta-predicatore non facevano
parte del suo orizzonte. Preferiva usare le parole dirette, quelle
di tutti i giorni, tanto lo sapeva che arrivavano anch’esse dal
fondo dei millenni. Ma presto, senza che se ne rendesse conto,
sentì che l’irritazione gli si stava stemperando in una nebbia di
indulgenza. Gli succedeva sempre così. Le debolezze umane fi –
ni vano col commuoverlo.
«Bravo» disse al ragazzino con un tono blando che si sareb-
be potuto adattare a qualsiasi situazione. «Ho capito che ti pia –
ce studiare. Fra poco verrà anche per te il momento della Torà».
Poi gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio: «Tu credi in Dio
solo qualche volta. Sappi che invece Dio crede in te sempre».

(Riproduzione riservata)

© Edizioni E/O

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La scheda del libro

Genova. Una famiglia ebraica negli anni delle leggi razziali. Un figlio genio mancato, una madre delusa e rancorosa, un padre saggio ma non abbastanza determinato, un nonno bizzarro, zii incombenti, cugini che scompaiono e riappaiono. Quanto possono incidere i risvolti personali nel momento in cui è la storia a sottoporti i suoi inesorabili dilemmi? È possibile desiderare di restare comunque nella terra dove ci sono le tue radici o è urgente fuggire? Se sì, dove? Esisterà un paese realmente disponibile all’accoglienza?

Alla tragedia che muove dall’alto i fili dei diversi destini si vengono a intrecciare i dubbi, le passioni, le debolezze, gli slanci e i tradimenti dell’eterno dispiegarsi della commedia umana.

Una vicenda di disperazione e coraggio realmente accaduta, ma completamente reinventata, che attraverso il filtro delle misteriose pieghe dell’anima ci riporta a un tragico recente passato.

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© Letteratitudine

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