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LETTERA A ROCCO CARBONE

luglio 17, 2018

In occasione del decennale della scomparsa dello scrittore Rocco Carbone (Reggio Calabria, 20 febbraio 1962 – Roma, 18 luglio 2008) pubblichiamo la lettera a lui indirizzata da Romana Petri, presente all’interno del volumeLetteratitudine 3: letture, scritture e metanarrazioni” (LiberAria, 2017)

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LETTERA A ROCCO CARBONE

di Romana Petri

Caro Rocco,

si possono scrivere lettere a chi non c’è più? Che significato hanno? Ad avertelo chiesto avresti risposto che le scriviamo per noi, ne sono sicura. E allora la scrivo per me. Per nostalgia, per grande rimpianto, perché sei morto da più di sette anni e questa tua assenza continua ad essere un peso.  Esistono morti che durano più delle altre, che si vivono senza rassegnazione. La tua è una di queste. Mi hai dato poco scampo. Non sei stato solo il mio più caro amico, eri una persona a me affine e diversa al tempo stesso. La compatibilità nella diversità. Forse era soprattutto quest’ultima a unirci. Quei tuoi malesseri che ti circondavano di ombre, la tua ricerca affannosa del grande amore. Quante telefonate mi avrai fatto sul grande amore? Eri l’uomo delle ossessioni e le ossessioni erano il tuo fascino anche in ciò che scrivevi. Perché tu eri lo scrittore dello sguardo. Descrivevi le cose nei più minuti particolari e le cose emergevano vive: la maniglia di una porta, un bicchiere appena lavato, una sigaretta sul posacenere con il suo fumo verticale. Eri il mio Tristram Shandy. Te l’ho detto tante volte. Se scrivevi di un uomo che si svegliava al mattino, chi ti leggeva era obbligato a essere quell’uomo, ne seguiva ogni movimento come fosse il suo.
Le conoscevo bene le tue abitudini. Sapevo che al mattino ti svegliavi, andavi al bar sotto casa per prendere il caffè… Poi dipendeva dal momento, se stavi scrivendo un romanzo, dalle nove a mezzogiorno rimanevi seduto davanti al computer perché  dovevi scrivere due cartelle al giorno. Quando arrivavi a due ti fermavi. Certe volte mi telefonavi per dirmelo: “Sono le undici e per oggi ho già finito”. E dopo ti mettevi a leggere ascoltando un po’ di musica, aspettavi l’ora del pranzo che consumavi quasi sempre allo stesso bar sotto casa. Un piatto unico, un altro caffè e poi mi telefonavi. Alzavo il ricevitore e le prime parole erano sempre le stesse: “Romana, Rocco”. Ci nominavi.
Risultati immagini per romana petriDi qualsiasi cosa parlassimo, tu facevi delle citazioni. Certe volte ho pensato che accanto al telefono avessi un quaderno pieno di frasi divise per autori in ordine alfabetico. Mi sembrava impossibile che potessi saperne tante a memoria. E invece le dovevi sapere, perché la velocità con cui ti uscivano fuori non dava spazio allo sfogliare delle pagine. Doveva essere una delle tue tante manie. Sì, di certo un quaderno lo avevi, ed è altrettanto certo che spesso lo rileggevi per meditare su quelle frasi che avevi scelto perché sentivi tue. Quel: “Non si è mai onesti abbastanza” di Tolstoj. Quella avresti potuto scriverla e dirla tu, era roba tua. Anche perché poi ti piaceva sempre aggiungere: “E non  si è mai nemmeno buoni abbastanza”. E quella era  tua, il perno intorno al quale girava la tua intera vita, il tema sul quale hai scritto quasi ogni tuo libro. C’era sempre questa questione della bontà: il professore del carcere e la terrorista che in una strage ha ucciso anche la sua fidanzata, quel modo duraturo che ha lui di perdonarla. L’amico  buono che perdona quello cattivo. Le frecce di Eros che dolgono tanto, ma chi le riceve le perdona quelle frecce, e quando il male che fanno è troppo, preferisce sacrificare se stesso. Il sacrificio, l’immolazione, il dare se stessi per riparare il danno fatto da altri. Rocco mio, eri evangelico? Certe volte, dopo cena, quando avevi bevuto un po’, dentro i tuoi occhi profondi e pieni di languore, di atti mancati, di sogni non realizzati, sembrava ci fossero proprio le incomprensibili, eppure chiarissime parole del Cristo Redentore: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo io la do a voi”. E per questo, ogni volta, mentre ti guardavo, pensavo che tu avresti scelto di morire. Per regalare al mondo quella tua fetta di follia che ti fece abbandonare una moglie perché ti eri innamorato di un’altra donna che non ti corrispondeva. Quella storia me la raccontavi sempre con grandissimo stupore. Mi dicevi che tua moglie aveva cercato di trattenerti con ogni mezzo, ti diceva che era una pazzia lasciarla per una donna con la quale non c’era stato nulla, nemmeno un bacio. Per una donna che non ti voleva. Arrivavi a questo punto e mi sorridevi in quel tuo mondo sempre stanco, sfinito. E poi dicevi: “Mi faceva una proposta quasi oscena. Si voleva tenere un uomo che pensava a un’altra”. Non ci riuscivo a darti torto. Per me avevi ragione tu. Eri avvinto al tuo rigore. Lo eri in ogni cosa, per come tenevi in ordine la tua casa, per le poche cose con le quali l’avevi arredata perché in questo modo, secondo te, la casa “faceva chiarezza”, per il modo chirurgico che avevi di eliminare tutto quello che non era necessario, anche i libri se ritenevi fossero superflui, ché una biblioteca, per te, era l’essenza di ciò che avevi amato, significava l’indispensabile.
Ti angosciava l’idea che i tuoi genitori invecchiassero, spesso mi dicevi che dovevi andare a trovarli più spesso perché ogni volta poteva essere l’ultima e poi te ne saresti pentito. Prendevi il treno per andare in Calabria e spesso durante il viaggio mi telefonavi: “Romana, Rocco. Sto facendo il solito viaggio. Potrei farlo a occhi chiusi e sapere sempre cosa mi sta scorrendo davanti al finestrino”. E invece sei morto tu. L’ultima volta che ci siamo sentiti al telefono erano i primi di luglio. Stavi per partire, andavi un’altra volta in America, una delle tante verso quella terra che amavi perché anche lì c’erano le tue radici meridionali di chi in famiglia ha avuto tanta migrazione. Ti risposi dal telefono fisso e dopo un po’ ti dissi che dovevo andare in studio a prendere il bicchiere con l’aperitivo che avevo poggiato sulla scrivania. Ma per non lasciarti in sospeso troppo a lungo feci in fretta e per tornare da te scivolai in corridoio e mi feci male a un ginocchio.
– Sono caduta e mi sono fatta male a un ginocchio. Mi ci devo mettere il ghiaccio. Ci sentiamo più tardi.
E invece non è andata così. Non me lo ricordo come è andata. Forse mi passò il tempo troppo in fretta, la cena da preparare, le valigie da riempire, le mie e quelle di mio figlio, ché il giorno dopo dovevamo partire. E così, quella fu l’ultima volta che ci siamo sentiti. Ricordo che mi hai parlato di Stefania, le avresti lasciato la tua casa per tutta la durata della tua permanenza in America.
– È un segno? – ti chiesi.
– Direi di sì. Prima o poi questo avvicinamento andava fatto. È una bravissima ragazza e mi vuole bene.
– Gliene vuoi anche tu.
– È la cosa giusta.
La cosa giusta. Che sia stata proprio questa l’ultima frase che ti ho sentito pronunciare?
L’ho saputo a Porto Covo, tornando dal mare. Quella mattina, sulla spiaggia, avevo pensato che il tuo prossimo libro avrebbe avuto più successo degli altri. Me ne avevi parlato a Coimbra. Che strano, il Portogallo è stato l’ultimo luogo in cui ti ho visto. Erano i primi di marzo e sei venuto a trovarmi per qualche giorno. In macchina da Lisbona a Ciombra mi hai raccontato tutto il tuo libro.
– Che titolo gli darai?
– Per il tuo bene.
– E di cosa parla?
– Di un uomo buono.
– Sento che farà una brutta fine.
– Per forza. È buono. Che fine mai devono fare i buoni in questo mondo?
E poi me l’hai raccontato tutto. E io ti ascoltavo di gran passione, ché tu le cose le sapevi raccontare come pochi, e che quella bella voce radiofonica che avevi. E così, quella mattina, su una bella spiaggia alentejana,  pensai che quello sarebbe stato il tuo libro fortunato. Ogni scrittore ci spera. E io lo speravo per te. E invece, tornata dal mare, ho trovato una chiamata del nostro amico Arnaldo. Perché mai doveva chiamarmi in Portogallo? E così gli telefonai.
– Abbiamo perso un caro amico.
E io gli feci l’elenco di tutti i nostri più cari amici che potevano morire, e lui ogni volta mi diceva di no, che era un amico molto più caro. E io non ci arrivavo, Rocco. Il tuo nome non l’avrei fatto mai. E allora me lo disse lui. Un incidente di motorino, dopo una cena a casa di amici. Ero seduta davanti a una finestra aperta che mi rifletteva. Avevo di fronte a me la mia immagine. Ho visto i miei occhi disperati, la bocca spalancata. Ogni volta che ti penso mi rivedo così. Poi arrivano anche altre cose che non sono mai io a scegliere, arrivano i nostri ricordi, ma la prima immagine è sempre quella, perché è così che mi hai lasciata: dentro a un dolore che non volevo credere. Adesso ci devo credere per forza, sono passati tanti anni. Ma di fronte a quella me riflessa in un vetro, il pensiero è sempre lo stesso e continuo a ripetermi che non è possibile. Lo dico ancora al presente. Ogni tanto vado a sfogliare qualche tuo libro. L’ultimo, ho avuto la gioia di pubblicarlo io con la mia piccola casa editrice Cavallo di Ferro che poi, dopo otto anni, è andata a finire male. Però il tuo Padre americano l’ho pubblicato io. Quando facevo la revisione, non sai che patema grande, Rocco. Mi faceva impressione pure spostare una virgola, togliere una ripetizione. Ma poi avevo l’impressione di sentire quella tua bella voce radiofonica che diceva: “Al meglio, ripuliscilo al meglio ché io l’ho scritto tanto di fretta e l’ho rivisto una volta sola”. E allora m’azzardavo, ma toccando la tastiera del computer sempre con delicatezza, dandoti ogni volta una spiegazione, come fossi lì, al mio fianco.
Parlo di te. Continuo a parlare di te come amico e come scrittore. Vorrei che la gente ti leggesse ancora. Vorrei che tu avessi lasciato altri inediti. Vorrei che avessi sposato Stefania. Vorrei che da lei avessi avuto un figlio. Insomma Rocco, la realtà è che ti vorrei qui tra noi e che tu non fossi mai morto.

(Riproduzione riservata)

© LiberAria

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Romana Petri è Nata a Roma, ma si divide tra questa città e Lisbona. Ha pubblicato 15 libri, vinto premi, tra i quali il Rapallo, il Grinzane Cavour, il Bottari Lattes. È stata due volte finalista al Premio Strega. Editrice, critico e traduttrice collabora con La Stampa e il Messaggero. Con il suo ultimo romanzo Le serenate del Ciclone (2016), ha vinto il Mondello e il Premio Roma. Il suo romanzo più recente è Il mio cane del Klondike (Neri Pozza, 2017). È tradotta in 8 lingue.

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