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REMO RAPINO racconta CRONACHE DALLE TERRE DI SCARCIAFRATTA (minimum fax)

febbraio 7, 2022

Cronache dalle terre di Scarciafratta - Remo Rapino - copertinaCome nasce un romanzo? Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: REMO RAPINO racconta il suo romanzo “Cronache dalle terre di Scarciafratta” (minimum fax)

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di Remo Rapino

Ma come stabilire il momento esatto in cui comincia una storia? Tutto è sempre cominciato già da prima, la prima riga della prima pagina d’ogni romanzo rimanda a qualcosa che è già successo fuori dal libro. Oppure la vera storia è quella che comincia dieci o cento pagine più avanti e tutto ciò che precede è solo un prologo. Così Italo Calvino in Se una notte d’inverno un viaggiatore, 1979.
La mia gratitudine non può che andare al guasto improvviso del motore di una FIAT UNO che mi ha fatto conoscere, molti anni fa, un disperso paese dell’entroterra abruzzese. Uno di quei luoghi che scopriamo per caso, che, a volte, ci attirano solo per il loro nome. Infine alle quattro persone incontrate in quel paese, e di cui non ho mai saputo i nomi. Dopo gli uomini vennero le parole e, con queste, la memoria di altri luoghi: il paese di mia madre in particolare, dove ho trascorso molte estati: tra quelle colline mille storie. Da un paese incontrato per caso a un paese di anni lontani. Ricordando mi accorgevo, sempre più che anche le minime storie possono racchiudere interi universi. Ancora Calvino. Bello che da un libro vengano fuori le tracce di una mappa, una caccia al tesoro di altre pagine, altre storie. Così nasce un libro. Un libro è sempre un essere vivente. I libri si fanno, certo, con ricerche e documenti, ma nascono soprattutto dalle voci. Solo che i libri sono timidi, allora, bisogna farli parlare, ascoltarli, farne voci, appunto. E poi le storie non finiscono mai veramente, anche se fingono di finire. Invece le storie vanno sempre avanti.
Non finiscono nell’ultima pagina con la parola Fine, quando c’è, così come non iniziano dalla prima pagina. Per questo non è possibile definire il momento in cui una storia comincia. Pensare che le storie comincino sempre dall’inizio, può essere un errore. Bisogna fissare, almeno a grandi linee, un qualche punto di arrivo, in ultimo liberare gli infiniti segreti, miracoli compresi, di cui è costituita ogni vita. Ecco, questo un possibile prologo delle Cronache dalle terre di Scarciafratta, luogo che non esiste, che ha totalmente la sua residenza nel mondo dell’immaginario, eppure in questo spicchio di mondo vivono uomini, bambini, contafavole, magari, bandisti, poeti, sacrestani, scemi di paese, reduci di guerre, il cane saggio Sciambricò, la luna, l’unica che abbiamo, astronauti. In ultimo la Brutta Cosa, che si fa persona e personaggio: il terremoto si presenta, la sua voce racconta una Macondo d’Abruzzo. Di qui lo scavo nella memoria. I passi tra le pietre si fanno memoria, non solo le voci umane pretendono ascolto. A volte il silenzio che sale dal passato si fa parola, parla piano, ci parla con la lingua dei poveri.  Gli uomini ci sono anche quando non ci sono. Il silenzio è un guardiano di rovine vive, che invita a restare, ma non trattiene nessuno. Poi ci sono le nuvole, e, allora, tutto può accadere, anche che la morte si metta lì in un angolo ad aspettare, le mani in tasca, una paglia tra i denti. Aspetta che qualcosa, un miracolo, accada. Così si ricomincia. Ogni topografia può rivelare o mascherare la possibilità di un luogo immaginario, un luogo che ricorda e, ricordando, immagina e, immaginando, suscita meraviglia. La precisa ubicazione geografica, in ogni caso, è poco rilevante ai fini della storia e delle storie che in quei luoghi si svolgono. Come ogni luogo anche una ipotetica Macondo, inerpicata tra i crinali dell’Appennino, vive albe illusorie e inevitabili tramonti. Questo destino si posa anche sulle Terre di Scarciafratta: paesaggi umani e naturali, in una spirale di tempi sovrapposti, danno luogo a un rosario di cronache, di sentimenti di riso e di meraviglia. Una platea che assiste alla commedia umana di un mondo che, aperto il sipario, si fa teatro. Accadimenti, personaggi, fantasticherie, fantasmi, visioni, favoleggiamenti: umanità altra. Fin quando, dai ritagli di scene bizzarramente animate, quelle stesse terre si ritroveranno, per molte ragioni, tagliate fuori dal resto del mondo. Una terribile catastrofe, la Brutta Cosa, apre al declino irreversibile. Le case si riducono a pietre che rotolano e sfarinano. L’abbandono, la fuga, la tristezza del non ritorno. Permane solo la testarda solitudine di un uomo, Mengo, che consuma i suoi giorni per tenere in vita anime, voci, ricordi, sogni andati al macero, per assisterli nell’attimo del respiro ultimo. Per anni, fino all’alba del 21 luglio 1969, quando Neil Alden Armstrong e Edwin Aldrin, astronauti americani, avvolti da un’analoga, appena percettibile solitudine, sbarcarono sulla luna, così testimoniando, ancora una volta, la necessità di coltivare il senso e il principio della meraviglia, quale approdo indispensabile per immaginare e costruire l’orizzonte di una vita che meriti la fatica d’essere vissuta. A questo servono le voci, a guardarsi indietro, quando non sai più se le cose che vedi, le cose che ascolti, sono vere o, invece, sono finte come le storie che raccontano  al cinema, che uno ci crede e, come un fesso, ci piange pure appresso. Ruscitti Domenico Giuseppe, detto Mengo assume le sembianze umane della figura retorica della prosopopea che introduce a parlare le persone assenti, scomparse, e anime. A tratti si avverte il vento di Spoon River. Egli personifica l’inesistente attraverso il Registro Anagrafico delle Anime come di altre presenze: Una bandiera rossa del ’21, le pietre, l’erba, il vento, il cielo di Scarciafratta, il terremoto, la luna, la memoria e la scordanza. Mengo parla degli altri, degli scomparsi e dei sommersi, questi, a loro volta, di Mengo e tutti intervengono nelle storie altrui. Di qui un romanzo corale, tra risa e lacrime un’epopea degli ultimi, degli «spasulati», dei folli di un luogo a cui restituire la dignità di un nome a chi è stato derubato anche della memoria. Scarciafratta inserendo un trattino di congiunzione tra realtà e immaginario dà valenza universale alla storia, ai personaggi, ma anche a qualsiasi luogo dove risiede il mistero del vivere e dove si lotta per la dignità dell’uomo. Interi universi, cieli, terre, racchiusi in un luogo fatto di mille luoghi: si possono raccontare cose reali attraverso cose che non esistono affatto. Come finisce la storia? Le storie, come le favole, non finiscono mai veramente. Le storie vanno sempre avanti, ché la storia di ognuno è sempre storia di tutti nel farsi infinito del tempo, al di là di ogni possibile differenza. Nei luoghi dell’abbandono va letta una provocazione storico-politica, la metafora pasoliniana della scomparsa delle lucciole, ovvero il traumatico passaggio dalla società tradizionale (agricola e paleocapitalistica, dato di fatto senza alcun moralismo nostalgico)  a quella industriale. Cronache dalle terre di Scarciafratta vuole essere, essenzialmente, un libro d’amore, in senso largo e nobile, libro di paesi che sono e non sono. Questo vogliono dirci i personaggi fuori margine. “Un uomo può essere nemico di altri uomini, di altri momenti di altri uomini, ma non d’un paese: non di lucciole, di parole, di giardini, di corsi d’acqua, di tramonti”. (Jorge Luis Borges, Finzioni, 1944)

(Riproduzione riservata)

© Remo Rapino

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La scheda del libro: “Cronache dalle terre di Scarciafratta” di Remo Rapino (minimum fax)

Proseguendo lungo il sentiero inaugurato da Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, in questo romanzo corale Remo Rapino continua a raccontarci tra risa e lacrime l’epopea degli ultimi, degli «spasulati» e dei folli della sua regione, e a restituire la dignità di un nome a chi è stato derubato anche della memoria. Scarciafratta è una Macondo d’Abruzzo. Inerpicata tra i crinali dell’Appennino, è un teatro di fantasmi e di visioni. Un terribile terremoto, la Cosa Brutta, l’ha svuotata. Le case sono ridotte a pietre che rotolano e si sfarinano, ma continuano a parlare. Sulla Rocca resiste per anni soltanto un uomo, Mengo, seduto su un uscio sotto un cencio di luna insieme a Sciambricò, un cane pastore di quindici anni dagli occhi chiari. Scavando tra le macerie della scuola ha trovato i quaderni dei bambini, e anche un registro dell’Ufficio anagrafe che un impiegato «sfastognato di timbri a bollo tondo e di certificati» aveva riempito di nomi, date, nascite, morti e sposalizi, di tutte le storie perdute del paese. Alla fine della sua vita, per «ridare voce a quelli sommersi dalla morte», Mengo le trascriverà una per una, a Villa Adriatica, la casa di riposo dove viene ricoverato. Fino all’alba del 21 luglio 1969, quando Neil Armstrong e Edwin Aldrin sbarcano sulla luna, e lui termina di scrivere l’ultima lettera.

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Remo Rapino (1951) è stato insegnante di filosofia nei licei. Vive a Lanciano. Ha pubblicato i racconti Esercizi di ribellione (Carabba 2012) e alcune raccolte di poesia, tra cui La profezia di Kavafis (Moby-dick 2003) e Le biciclette alle case di ringhiera (Tabula Fati 2017). Con Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio (minimum fax 2019) ha vinto il Premio Campiello 2020.

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Il video della vittoria del Premio Campiello 2020

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