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MI LIMITAVO AD AMARE TE di Rosella Postorino (Feltrinelli) – recensione

febbraio 13, 2023

Mi limitavo ad amare te - Rosella Postorino - copertina“Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino (Feltrinelli)

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di Grazia Pulvirenti

Mi limitavo ad amare te di Rosella Postorino è un romanzo che azzanna il cuore. E strazia la mente con una scrittura, spietata e struggente, che non esita a raffigurare il dolore in tutte le sue declinazioni, né a stemperare le contraddizioni e le abiezioni dell’essere umano. Quelle della guerra, in primo luogo, poiché il conflitto nella ex-Jugoslavia, da cui muove la narrazione, è il palinsesto di ogni guerra, di quella attuale in Ucraina, come di tutte quelle che da tempi antichissimi hanno macchiato di sangue la crosta terrestre. La descrizione di Sarajevo, tormentata da bombardamenti e spari di cecchini, le case ormai macerie, fra cui rubacchiare qualche avanzo di vita, assurge ad archetipo di ogni luogo bestialmente sconvolto dalla violenza, mentre l’interno dell’orfanatrofio Ljubica Ivezìc è il non-luogo dell’abbandono, dell’amore perduto o negato, o forse rinviato a tempi di là a venire.
Tutto deflagra in questo contesto estremo, eppure così reale, paradossalmente quotidiano, in cui è palese, come «all’origine del creato» sia «la mancanza di amore» (p. 167). E proprio intorno a questo vuoto, a questa assenza, Postorino intreccia la ragnatela delle vicende dei bambini protagonisti, fragile e precaria, come le loro esistenze. Perché l’errore del mondo, la negazione primordiale dell’amore, non può che essere risarcito dalla vita stessa che, pur nelle più infime atrocità, procede e avanza nel perenne rinnovarsi di affetti ed empatiche relazioni. Al di là di ogni difetto originario, di ogni stortura, di ogni privazione. Questo è forse il principale fra i tanti spunti di riflessione offerti da questo romanzo, che infine ci consegna l’utopia di una speranza salvifica per il genere umano alla deriva: i bambini sono in grado di mettersi in salvo, di creare un fragile eppur miracoloso argine al male, dando vita a intimi legami, spesso strampalati e sbilenchi, attraverso i quali affrontare la tragedia più grande di tutte, essere vivi in un mondo abbandonato da Dio: «Se anziché al sicuro Dio fosse stato quaggiù, di fronte a quelle sagome traballanti, all’eco delle loro urla contro il soffitto altissimo, al bagliore delle bombe che li rivelava di colpo per ciò che erano, due bambini, si sarebbe intenerito al pari di un vecchietto qualunque, e forse si sarebbe fatto carico del loro destino. Ma Dio era in esilio, lo era sempre stato – e a lui Nada neppure pensava» (p. 37).
Proprio a partire dalla ferita dell’abbandono nascono e si consolidano gli affetti fra Nada, il cui nome in bosniaco significa Speranza, ma che viene soprannominata crudelmente dalle compagne di orfanatrofio Moncherino, a causa di un dito tranciato, Omar, che ha fatto della devozione alla madre scomparsa la missione della sua esistenza, Sen suo fratello maggiore, e Danilo, incontrato dai primi tre nel pullman che li trasporta verso un nuovo destino in Italia, per essere messi in salvo dalla distruzione e dalla morte strisciante fra fosse comuni, esecuzioni di massa, stupri e decapitazioni. Si incontrano Omar e Nada nelle notti desolate dell’orfanatrofio, dove vive anche il fratello maggiore, Sen, e conoscono Danilo in mezzo ai “bambini di Sarajevo”, come venivano chiamati in Italia i minori giunti dalla guerra in un pullman nel 1992 per sfuggire all’orrore, andando incontro a un nuovo dramma, il distacco, la perdita, l’allontanamento dall’affetto materno, dalla propria storia, dalla propria lingua, dalle proprie radici, dalla speranza di ritrovare una madre perduta. Per di più in Italia, dalla tragedia di alcune famiglie prostrate dalla guerra nasce il riscatto di altre famiglie, che coronano il sogno di avere un bambino da adottare. Un vulnus, anche questo, destinato a segnare quelle fragili esistenze.
Prima l’orfanatrofio, poi il Centro San Lorenzo, gestito dalle suore, che accolgono i più piccoli, poi ancora la colonia sulla riviera adriatica, infine le famiglie adottive, non sono che ulteriori luoghi di esilio e solitudine. E di reiterazione di diseguaglianze fra bambini abbandonati e altri mandati in Italia da famiglie che li amano, ma che cercano per loro un destino migliore. Nada, Omar e Sen sono senza genitori, persi per sempre, o solo teoricamente “a tempo”, prima e durante il conflitto bosniaco, Danilo ha invece una famiglia, ma è marchiato, non meno degli altri, dall’umiliazione subita dal padre, dalla madre e da lui stesso, da parte di un soldato serbo che, rivolto al padre, dichiara quel tremendo «te la metto incinta io», con tutto il suo carico di odio contro l’etnia minoritaria e di disprezzo per il corpo della donna e per la dignità dell’uomo che non può difendere la sua donna.
Ogni bambino ha uno stigma, un danno da riparare. E proprio dalla narrazione matura la speranza di un risarcimento al dolore primigenio dell’essere stati scagliati sulla terra, nella miseria. All’atrocità del mondo, alla violenza di azioni e parole, si contrappone il sentimento che avvince in una sorta di triangolo sbilenco i tre bambini che vediamo crescere fra le pagine di questo romanzo, Nada, Omar e Danilo, in mezzo a contraddizioni e nella sofferenza del disamore. Come sarà per Omar, che non riuscirà a superare la perdita della madre e ad accettare quella adottiva come figura sostitutiva con cui creare un legame affettivo, come sarà per Nada, la cui ribellione cela una rabbia che non consente il riscatto nell’affetto.

Image from LETTERATITUDINE (di Massimo Maugeri)

Rosella Postorino (nella foto di Daniela Zedda)

Il romanzo non smette di stupirci a ogni pagina per quel sapiente equilibrio fra la natura incandescente – e altamente patemica della materia – e l’asciuttezza dello stile, per il controllo della scrittura che non si sfoca mai: lo strazio vissuto da queste creature non è mai sfumato, ma è sempre autentico, vissuto in prima persona dall’autrice, mentre le emozioni dei personaggi raggiungono il cuore del lettore, senza mai suscitare un corrivo sentimentalismo.
Come un’entomologa Postorino scruta le menti e i cuori dei suoi bambini, per poi, con grande talento empatico, intercettarne contrasti e contraddizioni, ansie e sogni, delusioni e aritmie. Le fasi della loro crescita costituiscono le tappe di questo dolente romanzo corale di formazione, senza che i piccoli protagonisti riescano mai venire a capo di alcuni groppi della loro origine. Eppure. Eppure il loro legame affettivo, la condivisione anche a distanza di una medesima esperienza e la complicità nella sciagura squarciano un bagliore, quell’epifania, rara e fulminea, in cui la vita sembra riscattarsi dal peccato primordiale, dall’assurdità, dal non senso, per assumere il colorito utopico di una salvezza. Il riscatto in un mondo ancora di là da venire.

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La scheda del libro: “Mi limitavo ad amare te” di Rosella Postorino (Feltrinelli, 2023)

Image from LETTERATITUDINE (di Massimo Maugeri)

Si esiste interi solo prima di nascere. Ma quello strappo è la vita.
Omar ha dieci anni e passa le giornate alla finestra sperando che sua madre torni: da troppi giorni non viene, e lui non sa più nemmeno se è viva. Suo fratello gli strofina il naso sulla guancia per fargli il solletico, ma non riesce a consolarlo. Senza la madre il mondo svapora. Solo Nada lo calma, tenendolo per mano: soltanto lei, con i suoi occhi celesti, è per Omar un desiderio.
Ha undici anni, sulla fronte una vena che pulsa se qualcuno la fa arrabbiare, e un fratello, Ivo, grande abbastanza da essere arruolato. Nada e Omar sono bambini nella primavera del 1992, a Sarajevo.
Per allontanarli dalla guerra, una mattina di luglio un pullman li porta via contro la loro volontà. Se la madre di Omar è ancora viva, come farà a ritrovarlo? E se Ivo morisse combattendo? In viaggio per l’Italia, lungo strade ridotte in macerie, Nada conosce Danilo, che ha mani calde e una famiglia, al contrario di lei, e che un giorno le fa una promessa.
Nessuna infanzia è spensierata, ciascuno di noi porta con sé le sue ferite, ma anche quando ogni certezza sembra venire meno, possiamo trovare un punto fermo attorno al quale far girare tutto il resto.
Mi limitavo ad amare te entra nelle fibre del lettore colpendo quel punto come una freccia. Ispirato a una storia vera, è un romanzo di ampio respiro, di formazione, di guerra e d’amore, che si colloca a pieno titolo nella tradizione del grande romanzo europeo.
Con la sua scrittura precisa e toccante, Rosella Postorino torna a indagare le nostre questioni private, quelle che finiscono per occupare il centro dei pensieri e delle azioni degli esseri umani anche nel mezzo dei rivolgimenti storici più scioccanti. Così, mentre infuria il conflitto che per primo in Europa ha spezzato una lunga pace, ecco che ci interroghiamo sull’“inconveniente di essere nati”. Come si diventa grandi quando da piccoli si è stati amati malamente? E chi può mai dire di essere stato amato come e quanto avrebbe voluto? Nada, Omar e Danilo scoprono presto nel legame che li unisce, e che li spinge a giurarsi fedeltà eterna oppure a tradirsi, la più grande risorsa per una possibile salvezza.

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https://www.feltrinellieditore.it/media/dati_gpe/persone/postorino2.jpgRosella Postorino (Reggio Calabria, 1978) è cresciuta in provincia di Imperia, vive e lavora a Roma. Ha esordito con il racconto In una capsula, incluso nell’antologia Ragazze che dovresti conoscere (Einaudi Stile Libero, 2004). Ha pubblicato i romanzi La stanza di sopra (Neri Pozza, 2007; Feltrinelli, 2018; Premio Rapallo Carige Opera Prima), L’estate che perdemmo Dio (Einaudi Stile Libero, 2009; Premio Benedetto Croce e Premio speciale della giuria Cesare De Lollis) e Il corpo docile (Einaudi Stile Libero, 2013; Premio Penne), la pièce teatrale Tu (non) sei il tuo lavoro (in Working for Paradise, Bompiani, 2009), Il mare in salita (Laterza, 2011) ed è fra gli autori di Undici per la Liguria (Einaudi, 2015).
Con Le assaggiatrici (Feltrinelli, 2018), romanzo tradotto in oltre 30 lingue, ha vinto il Premio Campiello 2018 e diversi altri prestigiosi premi letterari, quali il Premio Rapallo, il Premio Chianti, il Premio Lucio Mastronardi Città di Vigevano, il Premio Pozzale Luigi Russo, il Premio Wondy e, per l’edizione francese del romanzo (La Goûteuse d’Hitler, ed. Albin Michel), il Prix Jean Monnet. Da questo romanzo verrà tratto un film, per la regia di Cristina Comencini.

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