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MADDALENA VAGLIO TANET racconta TORNARE DAL BOSCO (Marsilio)

Maggio 15, 2023

Tornare dal bosco - Maddalena Vaglio Tanet - copertinaCome nasce un romanzo? Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine, MADDALENA VAGLIO TANET racconta il suo romanzo TORNARE DAL BOSCO (Marsilio)

Tra i dodici candidati all’edizione 2023 del Premio Strega

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di Maddalena Vaglio Tanet

Sono figlia unica e ho trascorso lunghe estati in un piccolo paese tra i boschi, insieme ai miei nonni, alla mia bisnonna e alla cugina di mio nonno. Questa gente era nata all’inizio del Novecento oppure sotto il fascismo, e aveva vissuto una guerra, due guerre. Chiedevo che mi raccontassero e loro raccontavano. Sono stata il ricettacolo delle loro storie. Alcune erano comiche, altre terrificanti, a volte serpeggiavano verso un finale strabiliante e radioso: un padre perduto e ritrovato, trecce tagliate, lettere dal fronte, fughe, partigiani nascosti nella stanza delle mele, stecche di ombrello usate come frecce, pulci, febbri, guarigioni, dispetti ingegnosi, morti premature. Lo zabaione della discordia e l’armistizio, le mutande rubate e la rotta di Caporetto, a quel tempo avevano per me la stessa consistenza, lo stesso respiro epico.

C’era però una storia che non si raccontava per esteso, a cui semmai si alludeva, di rado e come per errore, per una svista. Riguardava la cugina di mio nonno, una donna che io amavo e che era diversa da tutte le altre intorno: mia madre, mia nonna, la mia bisnonna; una divorziata, l’altra sposata, la terza vedova, definite dal loro essere madri e dall’essere, o essere state, mogli di qualcuno. Naturalmente, erano anche figlie, l’una dell’altra, fino ad arrivare a me. La maestra invece era rimasta orfana da piccola e aveva studiato in un collegio di suore. Non si era mai sposata. Era stata figlia solo brevemente e non aveva mai voluto diventare madre. Io avevo letto Anna dai capelli rossi, Oliver Twist, il GGG, Heidi, Ascolta il mio cuore, Il giardino segreto, Le avventure di Tom Sawyer. La vita da orfani mi appariva terribile ed esaltante. Mi figuravo il collegio di suore come un luogo mitico, oscuro, in cui evidentemente si mangiava risciacquatura di piatti e si mormoravano segreti, si saldavano amicizie inalterabili.

immagine per Maddalena Vaglio TanetGrazie al collegio, la cugina di mio nonno era diventata maestra e anche questo ci rendeva complici: lei sapeva bene cosa significhi stare in classe, imparare, aspettare il voto, essere benvoluti o al contrario scartati. Inoltre, la maestra non faceva niente di quello che ci si aspettava da una donna: non puliva la casa, non cucinava, non si curava del suo aspetto e dei suoi vestiti, non aveva schifo di nulla. Mentre io, mia nonna e la mia bisnonna rassettavamo la cucina con un rodatissimo sistema a catena di montaggio, e gli uomini di casa erano impegnati nella sacra pennichella, la maestra, seduta al tavolo sparecchiato, ritagliava articoli di giornale. Si trattava di cronaca locale, oppure di pezzi su Kabir Bedi e Lady Diana, che aveva sostituito Grace Kelly nella sua personale dinastia di donne regali. Tutti i ritagli finivano nella stanza del malardriss, la sua polverosissima stanza del disordine, in mezzo a libri, cartoline, biglietti, necrologi, lettere, bomboniere, fotografie.

La maestra era ai miei occhi un po’ sola, ma anche libera. Libera di stare sola, per cominciare. Sapevo che le era accaduto qualcosa, ben prima della mia nascita, verso la fine degli anni Sessanta. Era scomparsa per diversi giorni, ma nessuno ne parlava mai apertamente e tantomeno si sognava di spiegarlo a me. Non sono in grado di ricordare quando, di preciso, io abbia appreso che la sparizione della maestra era seguita alla morte di una sua allieva undicenne. Dovevo essere ormai adolescente. La ragazzina non era morta in un incidente o per una malattia, come avevo subito ipotizzato. Invece, dopo aver litigato con la madre, si era uccisa gettandosi nel torrente da una finestra di casa sua. Quel giorno, la maestra aveva informato i genitori delle assenze ripetute dell’allieva. Il senso di colpa l’aveva invasa. Era convinta di aver innescato il litigio e quindi la tragedia.

La morte per suicidio della bambina, la scomparsa della maestra, sono due eventi difficili non solo da raccontare, ma anche da immaginare. Non si possono decifrare o addomesticare, sono irriducibili e devono rimanere in qualche misura inspiegati, senza fondo. Aprono una botola nel pensiero e nel racconto, un crepaccio dentro cui lo sguardo fatica a spingersi. Eppure, nonostante restino misteriosi, ci svelano qualcosa sulla condizione umana, su come noi desideriamo vivere e a volte ci vergogniamo di vivere.

Questa storia è rimasta rintanata nella mia mente per anni. Ho continuato per molto tempo a interrogarmi sul suo nucleo psicologico, sui suoi snodi, sulle ripercussioni per quelli che al tempo erano rimasti: reduci dalla perdita di una ragazzina, alla ricerca di una donna forse ammattita di dolore. Gli articoli usciti all’epoca sui giornali locali mi hanno aiutata a ricostruire il contesto (la mentalità, la percezione, il lessico) e la versione dei fatti che era stata data. Tuttavia avevo l’impressione di affannarmi intorno a due vuoti. La bambina era perduta, la maestra ha sempre sostenuto di non ricordare nulla.

Scomparso: lo diciamo anche di chi, morendo, scompare dalla faccia della terra e dal corso della nostra vita. Mi sono sforzata di captare le voci flebili e lontane delle due scomparse, la bambina e la maestra, e ho cercato di trovare una lingua e una struttura narrativa capaci di accoglierle. Da subito ho voluto che la bambina, Giovanna, fosse un vero personaggio, un personaggio che poi manca e continua a chiamarci, così come chiama la sua maestra. Tutti soffrono per la sua morte, ma il dolore sta dentro, sta nascosto, mentre tirano avanti e continuano a fare le cose di tutti i giorni, una alla volta, anche se escono sghembe, sgangherate.

Silvia, la maestra, non sa tirare avanti, non sa trattenere il suo dolore, è un dolore dirompente e impudico, come farsi la pipì addosso. Allora nasconde se stessa. Non vuole essere vista, non vuole parlare né essere consolata, perché le sembra che non esista consolazione possibile per quello che è successo. Molto presto ho deciso che Silvia si sarebbe inoltrata nel bosco, che sarebbe uscita dal consorzio umano e avrebbe voluto farsi bosco, disfarsi della coscienza, tornare all’indifferenziato. La maestra a un certo punto pensa a se stessa come a una vite spanata che non fa presa e non coincide del tutto con la sua impronta. Insegnare è ciò che dà un significato alla sua vita e che le permette di inserirsi nel tessuto sociale. Quando sente di avere fallito rovinosamente come maestra, si smarrisce, va alla deriva, e la sua solitudine diventa radicale.

Per raccontare le prime ore del suo delirio, le allucinazioni, i fantasmi che la visitano (una vera e propria selva di voci), ho impiegato una lingua che deve molto a procedimenti tipici della poesia. Durante il dottorato ho studiato le opere di Amelia Rosselli e mi sono molto dedicata, tra le altre cose, a questioni di metrica e agli aloni e ai riverberi associativi, di senso e di suono, che la parola compressa nella forma poetica è in grado di sprigionare. Dunque ci sono versi sparsi nella prosa (endecasillabi, novenari, settenari…), un’attenzione al ritmo dato dagli accenti, e una serie di allitterazioni, assonanze, slittamenti, persino rime, senza però che il testo diventi troppo melodioso e cantabile e, anzi, mantenga un sapore aspro. Ho anche lavorato sul bosco come luogo simbolico dalla lunga storia letteraria, in particolare il bosco dei Grimm e quello assoluto delle ultime raccolte poetiche di Caproni.

Questo però, è solo un aspetto del romanzo, che per il resto è piuttosto realistico e corale. Avevo in mente Tutti i nostri ieri di Natalia Ginzburg, certi racconti del parentado di Fenoglio, la trilogia della pianura di Kent Haruf. Occorreva che la tensione e il vorticare di chi cerca la maestra facessero da contraltare alla sua fissità e al suo rifiuto. La tensione, ma anche la vita della comunità che prosegue e che presto dimentica, oppure ottunde i drammi attraverso il chiacchiericcio.

Essere degni d’amore: è una questione che Silvia, senza averne piena consapevolezza, si pone. Orfana, cresciuta dai nonni e dalle suore, si è sempre sentita difettata, inetta. Non sposarsi le era parso un modo per rimanere fedele a se stessa e forse invece, si dice, è rimasta asserragliata in se stessa, arroccata, mentre nel frattempo la vita passava e si dissipava. L’affetto le è venuto dai bambini, dalle amiche, da suo cugino e dalla famiglia di lui, ma è un affetto trattenuto, perché non solo il dolore è impudico, ma anche l’amore. Nessuno, da quelle parti, è abituato a nominare i sentimenti e a lasciarne le briglie.

Dunque la maestra è sola nel bosco. A un certo punto qualcuno di inaspettato la trova: un ragazzino asmatico, un forestiero che non ha nessuna voglia di star lì, in quel paesino dove si è trasferito solo per dare tregua ai suoi bronchi. Tenere in vita la maestra diventa la sua missione, il suo segreto, ma è chiaro che non può durare a lungo e che la maestra dovrà decidere da quale parte andare: la parte dei morti o la parte dei vivi. Questo ragazzino si chiama Martino. Grazie a lui la maestra ricorda che, oltre al lutto e al senso di colpa, sono umani anche la compassione, la curiosità, la cura attraverso i gesti e le parole, le piccole cose comiche che ci fanno ridere. Se Giovanna e Martino sono degni d’amore, forse anche lei, Silvia, lo è.

Il dolore non si attutisce, il lutto non viene superato. Dal bosco non si torna guariti né salvati. A volte, semplicemente, si torna.

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La scheda del libro: “Tornare dal bosco” di Maddalena Vaglio Tanet (Marsilio, 2023)

Tornare dal bosco Libro incluso tra i dodici candidati al Premio Strega 2023

A partire da fatti reali e racconti di famiglia, articoli di giornali, dicerie e mitologie, Maddalena Vaglio Tanet racconta una storia di possibilità e di fantasmi, di esseri viventi che inciampano in vicende più grandi di loro, e di bambini dei quali – come scriveva Simona Vinci, al suo esordio – non si sa niente, se non che sono gli unici a conoscere quanta realtà ci sia nelle fiabe, quanto amore stia nella paura, e quante sorprese restino acquattate nel bosco.

Il bosco è il bosco, la montagna è la montagna, il paese è il paese e la maestra Silvia è la maestra Silvia, ma è scomparsa. In una piccola comunità agitata dal vento della Storia che investe tutta l’Italia all’inizio degli anni Settanta, Silvia, la maestra, esce di casa una mattina e invece di andare a scuola entra nel bosco. Il motivo, o forse il movente, è la morte di una sua alunna. Non la morte: il suicidio. La comunità la cerca, ma teme che sia troppo tardi, per trovarla o per salvarla, e in qualche modo che queste due morti siano una maledizione. Il paese è di montagna e le paure e i sentimenti, che pure non possono essere negati, non possono nemmeno essere nominati. Teme il paese il contagio di una violenza tutta umana e mai sopita, una violenza che dopo due guerre mondiali si è trasfusa in una guerra civile, politica. La maestra però non si trova e il paese, per continuare a vivere e convivere con il lutto e l’incertezza, si distoglie. In questa distrazione, Martino, il bambino che non è nato nel paese e nemmeno è stato accolto, tagliando per il bosco incrocia un capanno abbandonato, e nel capanno, color della muffa e dorata come il cappello di un fungo, sta la maestra. Il bambino non dice di averla trovata, e la maestra non parla. Ma il bambino torna e la maestra, in fondo, lo aspetta. A partire da fatti reali e racconti di famiglia, articoli di giornali, dicerie e mitologie, Maddalena Vaglio Tanet racconta una storia di possibilità e di fantasmi, di esseri viventi che inciampano in vicende più grandi di loro, e di bambini dei quali – come scriveva Simona Vinci, al suo esordio – non si sa niente, se non che sono gli unici a conoscere quanta realtà ci sia nelle fiabe, quanto amore stia nella paura, e quante sorprese restino acquattate nel bosco.

 

Proposto da Lia Levi al Premio Strega 2023 con la seguente motivazione:
«La storia narrata è ambientata in un paesino di montagna certo più aspro che confortevole. Un giorno la tragedia: Giovanna, una scolara di undici anni si è suicidata e Silvia, la sua maestra, è sparita senza lasciare tracce. Tutto il paese si affanna alla sua ricerca ma senza risultato. La troverà per caso Martino un bambino di città trasferito a forza, per motivi di salute, in quella zona montana. Silvia, accucciata in un capanno abbandonato nel cuore del bosco, muta, stracciata, è ridiventata creatura della terra allo stato primigenio. Sarà Martino a portarle acqua, cibo e a riuscire a farla di nuovo parlare mantenendo la promessa di non rivelare a nessuno il suo nascondiglio. Alla fine della vicenda tutto si scioglierà in un finale che, però, non risolverà del tutto i tratti misteriosi di certi inestricabili comportamenti umani. Ma l’elemento che per me è risultato vincente è stata la doppia sfaccettatura dello stile letterario con cui la Vaglio si rivela. Da un lato un linguaggio sfumato con punte di liricità, da poetessa che è, quando ci descrive una fuga nella magia e nel messaggio segreto del bosco, e dall’altro il piglio crudo e quasi crudele nel momento in cui ci presenta fatti e personaggi del cupo paese fra le montagne. Un mix davvero interessante.»

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Maddalena Vaglio Tanet (1985) ha studiato letteratura all’Università di Pisa e alla Scuola Normale. Si è poi trasferita a New York per un dottorato alla Columbia University. Adesso abita a Maastricht e lavora come scout letteraria. Ha pubblicato poesie in italiano e tedesco, oltre ai libri illustrati Il cavolo di Troia e altri miti sbagliati (Rizzoli 2020, finalista al Premio Strega Ragazze e Ragazzi – Migliore libro d’esordio 2021) e Casa musica (come un papero innamorato) (Raum Italic2022).

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