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CUORE CAVO, di Viola Di Grado (uno stralcio del libro)

aprile 24, 2013

In esclusiva per Letteratitudine, pubblichiamo il 1° capitolo del romanzo CUORE CAVO, di Viola Di Grado (edizioni e/o)

La scheda del libro

In un romanzo coraggioso e sorretto da una scrittura formidabile per originalità e poesia, Viola Di Grado racconta la storia di un suicidio e di ciò che lo segue. Una folgorante invenzione della vita dopo la morte: la nostalgia, l’amore, la frequentazione “fantasmatica” delle persone care, la solitudine e l’incomunicabilità, in un aldilà cupo e ribollente, senza pelle e senza sensi, dominato da una natura crudele, che sfalda i corpi, ma anche da una vita ostinata che a questa morte si sottrae. Si rimane seriamente scossi da questa lettura, in cui Di Grado conferma appieno la sua unicità.
Un romanzo che fa paura: la disgregazione dei corpi, la sopravvivenza dell’“anima”, la tristezza e il rimpianto per la vita che non riesce a ricomporsi ma continua a incedere e spiare, vagando in un mondo deserto ma affollato, dove i vivi non possono più vederti
e sentirti ma i morti restano all’erta, impauriti, in ascolto. Un romanzo sulla morte e sulla “vita-dopo-la-morte” innovativo e conturbante, la conferma evidente di uno dei maggiori talenti della narrativa di questi anni.

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Dal romanzo CUORE CAVO, di Viola Di Grado (edizioni e/o)

Nel 2011 è finito il mondo: mi sono uccisa.
Il 23 luglio, alle 15.29, la mia morte è partita da Catania. Epicentro il mio corpo secco disteso, i miei trecento grammi di cuore umano, i seni piccoli, gli occhi gonfi, l’encefalo tramortito, il polso destro poggiato sul bordo della vasca, l’altro immerso in un triste mojito di bagnoschiuma alla menta e sangue.
Il 23 luglio, in piena estate, giù per le scale polverose del mio palazzo, giù come vene dell’asfalto unto e bollente, insidiosa, la mia morte si è propagata da via Crispi 21 alle strade circostanti, al Duomo con i suoi piccioni e i suoi turisti in shorts, al fiume Amenano che odora di carogna e scompare sottoterra. Dal mio sistema nervoso centrale alle strade centrali, da freddo a caldo, un guasto perfetto senza ritorno. Giù nel cuore nero della pietra lavica, dall’acquedotto romano ai vialetti pieni di erbacce e birre vuote del parco Gioeni, alle scale ardenti della Santissima Trinità, alle facce grigie di San Pietro e Paolo fuori dalla chiesa di Sant’Agata al Borgo. Da lì è sfrecciata fino ai marciapiedi stret ti della Scogliera, un grido nel fondo del mare, un soffio nei polmoni dei gabbiani. In mezzo al chiasso dei lidi, al sudore, ai vapori di deodorante e crema solare. Geometrica nel getto delle docce, brutale in fondo agli scarichi, giù in mezzo alle cicche, dentro i profilattici usati, giù martire fino alle fogne, giù nel buio e nella merda, annodata ai capelli e alle code dei ratti.
Dopo quattro ore la temperatura del mio corpo è precipitata, soprattutto nei miei organi interni.
Prima il cervello.
Poi il fegato.
Poi la cute.
Poi il mar Ionio: si è indurito come un pugno.
A quel punto la mia morte ha spiccato di nuovo il volo. È salita fino all’Etna, sfrecciando tra i pini di Linguaglossa, furiosa come un innamoramento, segreta come un virus. Dai rami svuotati del mio sistema vascolare a quelli essiccati delle be tulle, dai miei lunghi capelli scuri alle chiome degli aceri disfatte dall’afa, dalle distese buie dei miei nervi collassati alle distese di campi brulli, a ovest, che tremarono per un attimo come sotto defibrillazione e poi si fermarono per sempre. Fulminea, umida, annodata alle radici di ogni leccio bluastro, nel Bosco Chiuso, dentro ogni ghianda acerba, fino in fondo alla terra assetata e poi di nuovo via. Su a mille metri di quota, nera con le querce, minuscola con le formiche. Su e ancora su, fino in cima, un fuoco al contrario dal cielo al cratere. L’incubazione è durata due giorni, poi, all’alba del 25 luglio, il cratere sud-est del vulcano ha improvvisamente eruttato. La lava è crollata dal fianco orientale, fino alle sette di sera. Una fontana di sangue selvatico senza più gli argini delle vene.
A quel punto si è alzato un fortissimo vento che ha spinto la cenere verso il mar Ionio. Alzando gli occhi al cielo i catanesi sono stati sorpresi da una pioggia dura e nera. Qualcosa si era fermato, qualcosa non poteva più essere rimediato. Tutti hanno abbassato gli occhi brucianti, nessuno mi ha riconosciuto. Tutti si sono riparati in casa, in mezzo ai so prammobili e ai loro piccoli amori. La cenere è finita, il sole è calato, la lava si è rappresa sulle lunghe braccia di terra scura intorno al vulcano. Il cielo, per due ore, è rimasto grigio e sgranato e madido di rosso come una garza usata. Una brezza leggera si è alzata come un sollievo, e la mia morte, solitaria e profonda, ha lasciato l’isola.
Da quel giorno, in silenzio, ha contagiato il resto del pianeta, lenta come lo smog, solenne come un vuoto, privata come una preghiera, diventando presto uno dei fenomeni ambientali più urgenti e più invisibili.
Le cose sembrano uguali ma hanno perso sostanza: il mar Ionio non è più freddo e non mi bagna, la roccia antica intorno al fiume di Cavagrande non è abbastanza dura da impedire il mio passaggio, e se nuoto posso spingermi fin dentro l’utero grigio della pietra. Le cose sembrano uguali ma hanno perso i sentimenti: da piccola, la marmellata caduta sul tavolo durante la colazione s’incollava alle mie braccia, la polvere del pavimento si attaccava alle piante dei miei piedi. Ora invece tutto resta per conto proprio.
Le cose sembrano uguali ma hanno perso la parola: da viva, se avvicinavo le dita al fuoco il calore diceva il dolore ai miei nervi, ora invece ogni fiamma è muta.
Nel 1958 due studiosi, Santini e Dell’Erba, hanno esaminato la diffusione del rigor mortis all’interno del corpo. Finora nessuno, però, si è mai interessato alla sua diffusione geografica: come potrei non sentirmi incompresa? Il rigor mortis del pianeta Terra è cominciato dal mio cuore: oltre a essere stato il primo organo del mio corpo a fermarsi, è stato anche il primo a irrigidirsi. Due ore dopo la mia morte, mentre ero ancora nella vasca, le sue cavità si sono strette su se stesse, e le sue pareti si sono inspessite come per proteggersi da quest’ultima delusione. Poi è toccato alle palpebre e a tutti i muscoli del mio viso smunto. Poi a quelli di testa e collo, del tronco, della pancia, delle gambe un po’ storte, dei piedi. Dodici ore dopo ero interamente rigida. Poi è toccato al resto del pianeta.

(Riproduzione riservata)

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