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Uno scrittore allo specchio: EDUARDO DE FILIPPO

marzo 4, 2015

Uno scrittore allo specchio: EDUARDO DE FILIPPO

di Simona Lo Iacono

Specchio, lo chiamano. E che è uno specchio? Un nemico, penserete voi, nu’ pazzariello che vi mortifica dicendo: “E guarda questa ruga, e tappa ‘sto pertuso, e levati, mi hai stancato, sempre cu’ ‘sti uocchi, pari un pupo”.
E però, pur’io che lo trovavo antipatico, da qualche tempo mi ci sono riconciliato, e ho cominciato a fargli alcune domande.
Anche perché il mio è uno specchio tutto lampadoso, uno specchio da vecchio girovago, che la sera deve levarsi il trucco, e ha bisogno di luce buona.
Specie di questi tempi, poi, in cui la vecchiaia mi spacca la fronte di tagli, lo specchio s’addolcisce, pare in vena di intimità, e se lo interrogo induce a qualche consolazione.
“Specchio – gli chiedo mentre da fuori arrivano strepiti di urlatori napoletani e i guaglioni schioccano baci alle signore – specchio, raccontami cosa sono stato”.
“E come, proprio tu lo chiedi a me? – gorgoglia infastidito lo specchio – non lo sai a questa età quello che sei stato?”
“Ma perché – rispondo – c’è uomo che sappia davvero che mistero ha in corpo? Allora sei un illuso, specchio. Pure tu che parli di verità”.
E a questa mia rimostranza, lo specchio si convince, comincia a riflettere immagini lontane di me bambino, uno sputariello di quattro anni, appeso a una mano grande.
Ecco, ora quel bambino si guarda intorno, scruta i loggioni barocchi, le luci che sfarfallìano, il tendone rosso che trema sotto gli spifferi.
Si accorge di trovarsi in teatro.
Il padre che lo tiene per mano, dev’essere uomo di palco, perché a un tratto è richiamato da certi problemi di quinte, saltella tra una comparsa e l’altra, dà ordini, sistema, aggiusta, olia.
Lo lascia lì, proprio al centro del palco, a guardare alberi di cartone, nuvole di ovatta, barche che navigano in un mare di stagnola.
E, a questo punto, tutto cambia.
La scena non è più finzione, ma realtà. Il sipario non divide, ma unisce. E ogni città è Napoli, per cui non fa differenza se esistono padri indaffarati, o famiglie arrangiate dalla sorte. Il bambino pure cambia forma, è un pulcinella che rotola, sfiata, ridacchia. Ah – sospira – con una voce maschia e infante: putissi truvà pace sotto ‘sta palandrana bianca, putissi truvà pace.
Poi scende il silenzio.
Gli applausi sfocano, la platea smozzica il clamore, il bambino toglie la machera e il cerone, fa sciogliere le lacrime sul rossetto.
Non è cchiù picciriello.
E’ tornato uomo, è diventato ciò che cercava di fuggire, cosa fragile e finita, nu scunnusciuto.
Ma pure accussì precario, pure accussì moribondo, domani tornerà in scena, e di nuovo sarà un vecchio bambino di quattro anni che si arrabatta a trovare un senso all’esistenza e non ha più paura della fine.
“Ecco – conclude lo specchio – ecco cosa è stata la vita tua. Un palco. Le luci. La mano che stringe quella di un padre. E tu, capa tosta, tu, De Filippo Eduardo, figghiu di solo nome di Eduardo Scarpetta, come quando entrasti per la prima volta a teatro: ostinato a definire verità tutta quella recita”.

[articolo pubblicato sul quotidiano “La Sicilia”]

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Il post di Letteratitudine dedicato al trentennale della morte di Eduardo De Filippo

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