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RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA – di MIKLÓS VAJDA (un estratto)

giugno 16, 2015

Pubblichiamo un estratto del romanzo RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA – di MIKLÓS VAJDA (Voland – traduzione di Andrea Rényi)

“… in verità non è possibile ricevere altrove quello che non abbiamo avuto dalle nostre madri, e nemmeno ciò che abbiamo avuto.”

Nella notte di Capodanno del 1956, una madre e un figlio sono costretti a separarsi da un destino imposto dal regime comunista ungherese. Le persecuzioni della dittatura – sfociate in due detenzioni – e i conflitti mondiali alle spalle spingono l’ormai ex aristocratica Judit Csernovics a inseguire la libertà fino in America. Ma il rovescio della medaglia è l’inevitabile distacco da Budapest e da suo figlio Miklós, intellettuale deciso a non abbandonare la patria in un momento tanto difficile. Una scrittura capace di comporre con eleganza le tristi vicissitudini familiari e uno spaccato fedele della recente storia ungherese, che evoca con delicatezza, rimpianto e immenso affetto la figura di una donna di alto rango ma dotata di uno spiccato senso pratico.

* * *

Le prime pagine di RITRATTO DI MADRE, IN CORNICE AMERICANA – di MIKLÓS VAJDA (Voland)

1.
È in piedi in cucina e prepara, mescola qualcosa. Non è la nostra
cucina, non è una di quelle che erano state nostre; è solo
sua, mi è estranea. Cucina per me. È una novità anche questa.
Lei è là e ripete ciò che voglio, quello che io desidero. Lei non
esiste più, io ancora sì. E ho una volontà. Lei però va e viene
anche quando non lo voglio: entra nella mia testa, mi rivolge la
parola o rimane in silenzio, è contenta o soffre, mi pensa o mi
guarda, mi telefona, mi domanda, mi scrive, fa tutto come se
fosse viva. Sono insaziabile: mi interessa anche la sua vita privata,
quella al di fuori, prima, dopo e senza di me; provo a ricostruirla
con le minuscole tessere raccolte, ma ultimamente
qualsiasi cosa lei faccia sembra che la faccia, o meglio, che l’abbia
fatta, solo e sempre a me, per me, a causa mia, per mio tramite,
con me o con il mio aiuto.
In questo istante la voglio in piedi in quella sua cucina a mestare
qualcosa in una pentola. Magari una delle sue specialità
imparate all’estero come la salsa ai capperi che accompagna la
bistecca alla griglia. Le faccio ripetere anche molto altro: ad
esempio in questi ultimi tempi mi piace guardarla di nascosto
dal mio letto mentre si strucca seduta al suo antico tavolino da
trucco, sotto l’immenso specchio veneziano dalla cornice dorata,
e si osserva attentamente nell’altro specchio antico dalla
cornice d’argento montato su piedi, dopodiché esegue piccoli,
metodici, precisi e invariati movimenti rotatori con batuffoli
di cotone imbevuti di crema, quando è necessario fa smorfie o
gonfia metà del viso, strofina la pelle, e alla fine la unge anche
con un liquido che chiama “misto da scuotere”, che si rapprende
immediatamente e le trasforma il volto in quello bianco
di un pagliaccio. Poi lo deterge e io mi riaddormento. La
stanza è tutta a specchi, anche i sei sportelli dell’armadio a muro
sono rivestiti di specchi fino a terra. Il mio letto sta qui, nella
sua camera da letto; nella stanza dei bambini dorme la mia
Fräulein tedesca. A volte mi sveglio in piena notte quando arriva
dal bagno silenziosa nella sua vestaglia di seta gialla e dopo
l’applicazione di altre creme, stavolta per la notte, la sento
coricarsi, girarsi di continuo, trovare la posizione nel letto, raschiarsi
la gola, emettere un sospiro appagato per poi addormentarsi
di gusto, respirare a bocca spalancata, rumorosamente,
soddisfatta, proprio come di recente anch’io mi sono
scoperto fare. Oppure la guardo salire in macchina verso le undici
del mattino, truccata, con indosso un completo, cappello,
guanti e scarpe con il tacco alto; solleva dal viso il velo alla moda
dalla trama ariosa, fa retromarcia per uscire dal garage e
prende la corsia di sinistra – si teneva ancora la sinistra – per
scendere via Sashegyi, poi via Hegyalja, diretta al centro per
sbrigare delle commissioni, per poi incontrare al bar Mignon,
inaugurato di recente e primo nel suo genere in Ungheria, le
amiche, ed eventualmente anche mio padre, che a volte la raggiunge
dall’ufficio facendo due passi per concordare il programma
della serata e del giorno dopo, e per parlare di ciò che
in quel momento gli interessa. Da lì tornano a casa per pranzare
insieme. Oppure quando al termine del colloquio mensile
a Márianosztra, e in seguito a Kalocsa, viene portata via da
una guardia armata, mentre nella sala divisa in due da una fitta
rete metallica, fra le guardie e le detenute spinte fuori sotto
i grandi ritratti di Stalin e Rákosi, attraverso una porta di ferro
a due ante, all’improvviso si apre un piccolo varco nella mia direzione,
che lei forse avverte, perché si arresta per un istante,
si sporge verso di me sopra la spalla intuendomi ancora là a
guardarla. Il berretto piatto della guardia già nasconde il suo
viso per metà, ma i suoi occhi appena contratti, la testa reclinata,
il lieve sorriso e i lucciconi negli occhi mi raccontano molto
più di quello che nei quindici minuti trascorsi in presenza
di una guardia fosse riuscita a comunicarmi.
Non l’avevo mai vista piangere. Non pianse quando morì
mio padre né quando morì sua sorella maggiore. Non sapeva,
non aveva mai saputo, non aveva mai voluto, non era mai stata
abituata e non era mai stata incline a esprimere i suoi sentimenti
più impetuosi direttamente, a parole, meno che mai con
vivaci manifestazioni esteriori. Quando uno di noi doveva partire
mi abbracciava, mi stampava un lieve bacio sul viso, seguito
da leggere pacche di incoraggiamento sulla schiena, e con il
pollice mi disegnava una croce sulla fronte. Fu questo il nostro
congedo anche alla fine di dicembre del 1956 alla Stazione Sud:
entrambi a pezzi nel nostro intimo, come le rovine della città,
piangevamo senza lacrime e in silenzio, perché sapevamo che
non ci saremmo visti per molti anni o forse mai più.
Non l’avevo mai sentita cantare o canticchiare. E mi torna
spesso in mente l’episodio del telefono che squillava nella sua
casa americana con lei che mi guardava imbarazzata come per
chiedermi, senza pronunciare una parola, di rispondere, perché
aveva problemi con la lingua, in particolare al telefono. Il
più delle volte erano ungheresi a chiamarla, perché aveva ben
pochi conoscenti di altre nazionalità. Rivedo spesso quello che
potrebbe essere il filmato di quel suo sguardo implorante che
per me è una punizione, una sorta di autoflagellazione. Provavo
pena per lei, tuttavia un paio di volte le feci notare che in
tutti quegli anni avrebbe potuto pur imparare la lingua decentemente.
Mi pentivo subito e non sono mai riuscito a capire che
cosa mi costringesse a educarla, a criticarla, sottolineando co-
sì la mia estraneità, ovvero reiterando il mio rifiuto. Un’urgenza
non limpida, da chiarire, mi portava a infierire dove era più
sensibile, arrivando spesso fino in fondo. Vedevo che le dispiaceva,
che la addolorava e la rattristava; ne soffriva e si chiudeva
in sé ma l’accettava con saggezza e lo aggiungeva al resto.
Forse capiva istintivamente quello che io non comprendevo.
Questo gioco scorretto era presente anche prima dei suoi anni
in prigione e lo aveva sopportato con dolore, ma l’idea che la
casualità biologica le avesse assegnato un adolescente tanto difficile
forse la faceva ancora sorridere. Poi, però, le bastava poco
per tornare quella di sempre. Era dotata di una pazienza e di
una saggia comprensione quasi infinite, che si nutrivano da
una sorgente ben al di sotto della superficie. Non mostrava altro.
Non c’erano mai stati abbracci inaspettati, vezzeggiamenti,
baci affettuosi senza motivo o risate scherzose, giocose prese
in giro, spensieratezza e buffonate. Alcune di queste forme
espressive sono estranee anche a me. Possiedo invece capacità
di riserbo e di discrezione, che però non sono sinonimi né di
cupezza né di mancanza di colore, e nemmeno d’indifferenza,
perché non escludono calore, gentilezza, attenzione e allegria,
e possono vestire lo spirito di quella sottile ironia che mi piace
tanto. Ero abituato a cercare in altri, istintivamente e almeno in
parte, quello che in lei non potevo trovare, e sin dalla nascita lo
scoprivo in splendida abbondanza in Gizi, nella mia adorata
madrina, e in forma più semplice e modesta nella Fräulein di
turno. In seguito lo cercai nelle ragazze e nelle donne con risultati
decisamente alterni. Invano, perché in verità non è possibile
ricevere altrove quello che non abbiamo avuto dalle nostre
madri, e nemmeno ciò che abbiamo avuto. Di questo sono
sinceramente convinto.

(Riproduzione riservata)

© Voland

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Nato a Budapest nel 1931 Miklós Vajda è scrittore, saggista e affermato traduttore dall’inglese e dal tedesco. Ha collaborato per anni con le migliori case editrici magiare, ed è stato redattore della rivista “The New Hungarian Quarterly” fino al 2005. Scritto all’età di 78 anni, Ritratto di madre, in cornice americana è il suo primo romanzo e lo colloca di buon diritto tra i grandi maestri della prosa ungherese.

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© Letteratitudine

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