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VITTORIO GIACOPINI racconta LA MAPPA

luglio 17, 2015

VITTORIO GIACOPINI racconta il suo romanzo LA MAPPA (Il Saggiatore) – tra i romanzi vincitori del Premio Selezione Campiello e finalisti per il Premio SuperCampiello. Le prime pagine del romanzo sono disponibili qui

Vittorio Giacopini

di Vittorio Giacopini

Uno scrive e riscrive le sue ossessioni. Per me (da illuminista disincantato e da innamorato della… Rivoluzione) – c’è questo tarlo del confronto e scontro tra i modelli razionali con cui cerchiamo di vedere, dire, cartografare, controllare, cambiare il mondo e il gran gioco della contingenza storica, dell’imprevedibilità, del caso che sconvolge sempre tutto e cambia il paesaggio, smentisce i progetti stabiliti, confonde il quadro. Anni fa mi era capitato di ragionare sulla vita-paradosso di Bobby Fischer. Voglio solo giocare a scacchi, diceva lui e gli scacchi erano diventati per questo ragazzo disadattato di Broooklyn un anti-mondo, o un’alternativa al mondo, una tana, un rifugio. E poi, ironia e beffa del caso, proprio la sua perfetta, autistica maestria di grande scacchista lo proietta sulla ribalta della grande storia ufficiale e lo condanna a diventare una ‘bandiera’ americana, un eroe controvoglia. La sua secessione dal mondo lo proietta nel gran gioco della politica mondiale e Fischer deve trovare un’altra via di ‘fuga’, e reinventarsi. Adesso mi accorgo che nella vicenda di Serge Victor, questo cartografo di fantasia protagonista de “La Mappa”, c’è quasi lo stesso paradosso che si ripresenta. Vedere tutto “come se si fosse per aria”; cartografare quanto c’è attorno a noi per dare un ordine perfetto, invariabile, calmo e rassicurante al corso del mondo. È il suo ‘progetto’ ma è anche un’illusione e un cavallo di troia. L’altro suo motto è “prima viene la mappa, poi l’azione” e qui si nasconde l’imbroglio o, peggio, la trappola. Le ‘mappe’ degli ingegneri-cartografi diventano l’arma in più dell’arroganza politica di Napoleone, lo strumento speciale per affermare quello spirito di conquista detestato da Benjamin Constant e allora il gioco mostra subito la corda. Tanto più una mappa è precisa, particolareggiata, esatta, affidabile tanto più la politica e la guerra se ne serviranno per ridisegnare confini e territori, spazi, logiche e, insomma in questo assurdo confronto tra spazio e tempo, la mappa tanto più è perfetta tanto più diventa subito obsoleta, è superata. Insomma, modelli razionali contro caso, storia, imprevisti, inciampi, incidenti. Crisi dell’illuminismo e crisi della ragione cartografica. E, di converso, sogno, grande sogno politico di controllo e governo sul mondo e – netto, duro, grave, sconcertante – fallimento anche della politica, e della sua ratio.
Sono alcuni temi del libro, alcuni spunti, ma poi un romanzo è un romanzo e dentro ci trovi sogni, fantasie, fole, balle, bugie, inganni e autoinganni, nitide percezioni e allucinazioni e i personaggi si affollano e il seguito degli eventi diventa una sciarada, fuori controllo. Il mio Serge – da rivoluzionario fiancheggia l’avventura di Napoleone e, amaramente, scopre che il grande esportatore della libertà e dei lumi diventa il restauratore del Potere, e dei tiranni. Da illuminista, invece, scopre che le logiche, le razionalità, i livelli di realtà sono infiniti e che sotto al mondo c’è sempre un altro mondo, o un sottomondo. Così incontra la magia dell’amore, le ambigue verità delle fiabe, così registra prospetti cartografici che mutano in allucinazione o in visione mistica, così, senza rinunciare ai suoi sogni e progetti, è costretto a ripensarli nella chiave dell’insuccesso, e del fallimento. Capita a lui e a tutti, d’altra parte.
Chiunque nel libro si illude di ‘fare’ la storia e invece la subisce. Davvero: tutti i protagonisti dei libro – Serge, il suo amore mezza maga e mezza sirena, il poeta foscoliano, due lestofanti che sembrano i fratelli Grimm, il losco, pipistrellesco, gesuitico uomo politico Saliceti e il grande, olimpico e illuso poeta Goethe, lo stesso Napoleone, in fin dei conti– tutti loro vivono una stagione speciale e questo mi interessava raccontare. Un transito dei tempi, un cambio – totale – di razionalità e di codici, di logica. Siamo lì, a cavallo tra Settecento e Ottocento. Nei manuali di scuola qui di solito si cambia pagina e capitolo, punto e a capo. Finisce l’illuminismo, inizia il romanticismo: facilissimo. E invece questo cambiamento di scena c’è chi l’ha vissuto e subito sulla propria pelle e, faticosamente, confusamente, tra mille errori e passi falsi ha dovuto imparare a farci i conti. Immaginatevi degli attori che recitano guardando la platea con uno sfondo, con una scenografia dipinta alle spalle. Loro quelle quinte di scena non lo guardano ma sanno che il pubblico vede luce, ordine, l’esatta geometria dei giardini di Versailles, la serena pace dei parchi cantati da Goethe nelle affinità Elettive, quasi un’Arcadia. Be’, loro non se ne accorgono ma mentre continuano a recitare dietro di loro le quinte e il paesaggio mutano di colpo e si materializza una fosca selva teutonica abitata da mostri, fantasmi, fate, gnomi, rospi. La visione, l’ordine, la logica del mondo sono cambiati e le maschere sul palco si trovano a subire questa mutazione estrema, e con fatica. Bisogna inventare registri e codici e metodi per muoversi nel nuovo orizzonte, nel novo tempo. Ecco, a me interessava raccontare cosa accade agli uomini, alle loro azioni e ai loro pensieri, in una fase di grande, clamorosa, affascinante ma anche perturbante mutazione. È una storia di ieri ma, tutto sommato, è anche una storia di oggi. Quel periodo è anche uno specchio dei nostri tempi, fateci caso. La scena, il mondo, le ‘regole del gioco’ sono cambiati in forma analoga almeno un paio di volte nel giro degli anni recenti e noi tutti abbiamo faticato da bestie a rendercene conto. L’89, la fine del secolo breve, della guerra fredda. O l’11 settembre come preludio agli ‘anni zero’, come evento o controevento che incide sulla confusione entropica del presente.

Ma poi forse queste sono tutte considerazioni anche un po’ troppo impegnative, e troppo serie. Il romanzo – ogni romanzo credo, il mio certamente – è anche affabulazione e gioco di specchi e arte dell’inganno. In questo non c’è niente di male (è la letteratura) a patto che la voce, che le voci che parlano dentro la cornice romanzesca abbiano un senso e un tono e una cifra speciali, e irripetibili. Personalmente, la questione delle questioni per me è la lingua. Andiamo in giro, presentiamo i romanzi, ne discutiamo e il nodo del ‘contenuto’ è, temo, troppo insistito e vincolante. Anche sul fronte della critica, si parla troppo poco di stile, di linguaggio, e invece questo è il nodo essenziale, e non per estetismo. Per scrivere buoni romanzi bisogna avere una visione del mondo complessa, la forza di darle un’ampia, coerente, rigorosa struttura narrativa senza furbizie, ma soprattutto bisogna saper creare-inventare-sognare una Lingua diversa dal parlare e e dallo scrivere ordinario. La differenza tra uno scrittore e un giornalista o sociologo eccetera sta tutta in questa alchimia complicatissima. Mettiamola con una battuta: io posso immaginare trame e racconti nel segno di Dumas o di Calvino (anche il Barone rampante guardava tutto “come se si fosse per aria”: stava sugli alberi), però quando scrivo i miei numi tutelari sono diversi: il dizionario del Tommaseo, gente come Joyce o Gadda, grandi nemici del linguaggio ordinario, persone che hanno sempre vissuto e scritto e pensato in ‘istintiva ribellione contro il linguaggio’ (Wittengstein).
Questo è il lavoro della letteratura per me adesso, e questa è “La Mappa”. Il segreto, anzi, la condizione è avere una “lingua” senza cadere mai nel manierismo. Nel fatto che la giuria dei letterati del Campiello abbia visto nel mio libro il migliore della cinquina (è stato il più votato) ci vedo un riconoscimento proprio a questo tipo di lavoro sul fronte visionario del linguaggio. Appunto: è una questione di voce (e di ricerca). E sia chiaro, il problema non è anticare il linguaggio per rendere credibile un discorso sul passato, su altri tempi. Al contrario, provare a dire il presente in letteratura richiede uno sforzo ancora più radicale e più estremo e spericolato proprio per sfuggire alla langue de bois della sociologia, del giornalismo, del wikipedismo. Adesso che sto lavorando a un romanzo sulla Roma contemporanea (e Roma, a proposito di ossessioni, è il mio altro grande tema), adesso che sto letteralmente facendo a pugni con il presente, la questione della lingua la sento ancora più intensa e complicata, e molto più urgente. Il passato distanzia soltanto grazie alla prospettiva storica. Il presente richiede un’altra voce (e, ammettiamolo, altre allucinazioni, altre manie). Ma è così: scrivo della Roma di oggi e sul tavolo ho l’Ulisse di Joyce, manuali di ornitologia, il tuttocittà, la Commedia di Dante, un dizionario di romanesco e… il Tommaseo.

(Riproduzione riservata)

© Vittorio Giacopini

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Vittorio Giacopini è nato a Roma. Lavora in un’agenzia di stampa e collabora alla rivista Lo straniero e alle pagine domenicali del Sole 24 Ore. È tra i conduttori di Pagina3, su Radio3 Rai. Tra i suoi libri, Re in fuga. La leggenda di Bobby Fischer (Mondadori 2008); Il ladro di suoni (Fandango 2010); L’arte dell’inganno (Fandango 2011); Non ho bisogno di stare tranquillo (Elèuthera 2012).

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