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WIDAD TAMIMI racconta LE ROSE DEL VENTO

luglio 19, 2016

WIDAD TAMIMI racconta il suo romanzo LE ROSE DEL VENTO. Storia di destini incrociati (Mondadori)

Le prime pagine del libro sono disponibili qui

di Widad Tamimi

Mio nonno perse la vista subito dopo la pensione. La cecità lo faceva sentire solo, in una sorta di isolamento esistenziale che lo imprigionava nei ricordi, quelle immagini vicine al cuore che non hanno bisogno di luce per essere indagate. A volte si trattava di memorie dolci, soavi, che lo rendevano leggero come il bambino che era stato a Trieste negli anni venti. Altre volte il suo volto si copriva di ombre: il passato restituiva anche i dolori, da cui, senza le distrazioni che il perimetro e i colori della vita esterna possono offrire, prendeva a fatica le distanze.
Gli facevo compagnia perché si sentisse meno solo, mi raccontava della sua vita, ed io lo ascoltavo per ore seduta sul divano della sua casa di Como.
Finalmente comprammo un piccolo registratore e le cassette di una volta. Decidemmo che si trattava di un vero e proprio progetto, e che io ne avrei tenuto le redini, nella veste di intervistatrice. Fui onorata di questo riconoscimento: mio nonno non cedeva facilmente il controllo, lasciarsi guidare da me significava riporre una grande fiducia in me.
La domenica successiva mi presentai a casa sua con una scaletta di temi e domande. Non solo, elencai anche un preciso numero di regole che avrebbero limitato il nostro lavoro. A mio nonno piacevano i contratti e accolse il regime professionale con serietà.
Cominciammo dall’albero genealogico. La famiglia Weiss – Schmitz aveva alle spalle una storia affascinante, e i personaggi su cui soffermarsi a lungo non mancavano. Poi passammo alla musica, alla letteratura, alla psichiatria. Guardammo le foto delle case in cui abitarono, parlammo del fascismo e infine dell’esilio.
Un giorno in compagnia di suo fratello parlammo del valore della musica nella famiglia. Piero era un pianista, abitava in America, insegnava presso l’Università di Baltimore. Ogni anno raggiungeva l’Europa, dove si ritirava per lunghe ore di studio. I due fratelli, all’epoca entrambi ottantenni, mi sembrarono due bambini messi l’uno affianco all’altro. Mi raccontarono del violino della madre, la mia bisnonna. Prima di imbarcarsi sull’ultima nave che li portò a New York da Londra nel 1939, la mia bisnonna decise di liberarsene, come ad infliggersi un sacrificio in nome di una speranza silente. Un atto di redenzione, forse.
Le versioni dei loro ricordi non coincidevano perfettamente, eppure alcuni particolari erano identici. A tratti bisticciarono, poi, però, piansero entrambi.
Soffrii con loro, e inevitabilmente pensai a mio padre, che, sulle note di una storia apparentemente diversa, era stato segnato da un destino molto simile al loro.
Mentre il mio nonno materno, ebreo triestino, tornava dal suo esilio contro il volere di tutta la famiglia per ristabilirsi in Italia, patria che amava, mio padre, palestinese, diventava profugo a sua volta.
Il paradosso che colpiva i giovani pensieri dei miei sedici anni era l’idea che un popolo afflitto dall’enorme sofferenza causata della persecuzione si trasformasse, in cerca di stabilità e sicurezza, nel nuovo persecutore. Osservando e ascoltando le memorie di mio nonno e di mio padre, e nonostante i dettagli delle loro esperienze fossero diversi, mi sembrava di ripercorrere la stessa storia su un nastro incantato.
Entrambi erano stati orgogliosi e innamorati della terra di origine, entrambi erano partiti pensando che si trattasse di una breve vacanza in attesa che la situazione di casa si calmasse, entrambi avevano un unico sogno: tornare.
Certo, mio padre era partito senza un soldo. La sua era una famiglia povera senza mezzi economici, né intellettuali. La famiglia di mio nonno era invece ben attrezzata e con molti contatti internazionali. Ma il dolore dei due bambini che mio nonno e mio padre furono è come uno specchio. La storia si rincorre, una punta tocca l’altra e la spinge più in là. Il cerchio non può chiudersi, continua a girare su se stesso, senza offrire una soluzione definitiva al problema dell’esilio. La soluzione di un esilio è la ragione dell’esilio dell’altro, una sorta di coperta troppo stretta, in cui a tirare un lembo da una parte o dall’altra, qualcuno rimane per forza scoperto.
Sapevo che quelle due storie, il cui incrocio era stata la ragione della nascita di mia sorella e mia, non sarebbero mai potute essere separate. Andavano, una volta per tutte, raccontate insieme.
Ed è così che, dopo qualche anno, bussai alla porta di mio padre e gli spiegai che era arrivato il suo turno, avevo una scaletta di domande anche per lui.
Mi raccontò della scuola dei profughi, dei calzoncini corti donati dall’ONU e del suo tentativo di tornare a casa dopo la fondazione di Israele. Mi raccontò delle colline di Hebron e della desolazione del deserto di Amman, dove arrivò come rifugiato. Anche la sua voce si ruppe nel pianto.
E’ a mio nonno e mio padre che ho dedicato questo libro, ai bambini che furono:

“Quei due bambini, nati in luoghi e tempi diversi, eppure uniti da una storia comune.

I bambini, come semi trasportati dal vento, partono per terre lontane, portando dentro di sé la storia delle proprie origini. Non hanno scelta, i bambini, seguono la direzione delle correnti. Sono rose, i bambini del vento, belle e ricche di spine per difendersi dalle sfide dei mondi nuovi, in cui fioriscono, contaminando e venendo contaminati, in una trama di destini incrociati.”

(Riproduzione riservata)

© Widad Tamimi

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Il libro

Le rose del ventoSi dice che il punto migliore per cominciare a raccontare una storia sia l’inizio. Ed è ciò che l’autrice di questo romanzo fa: interrogare le storie dei propri avi, dai rami dell’albero scendere fino alle radici. Un impulso incontenibile, vitale: “Mi sento indecifrabile a me stessa. Mi manca la chiave. Ripercorro la storia a ritroso, in cerca di una casa che sia la mia”. Tessendo la trama delle proprie origini, Widad Tamimi ci porta nel cuore tormentato del secolo appena trascorso. E ci racconta di un padre, Khader, nato in Palestina, a Hebron, nel 1948, proprio l’anno della fondazione dello Stato di Israele. La famiglia si era trasferita a Gerusalemme in cerca di benessere, ma la guerra li ha costretti a fuggire e a tornare nella città di origine. Sono poveri, lavorano la terra, vivono in una stanza di mattoni e lamiera. Khader ha un sogno: diventare un pediatra per aiutare i bambini del suo paese. Nel 1967 c’è una nuova guerra che li rende profughi per la seconda volta. Scappano ad Amman, in Giordania. Ancora più indietro negli anni Carlo Weiss, il nonno materno, nasce a Trieste nel 1924, è ebreo e si sente fiero di essere italiano, la villa di famiglia è frequentata da scrittori, musicisti, psichiatri. Finché, nel 1938, la situazione per gli ebrei si fa insostenibile e Carlo e i suoi scappano, prima a Losanna, poi a Londra, infine negli Stati Uniti. Carlo rientra in Italia nel 1947, pochi mesi prima che la famiglia di Khader sia costretta a fuggire da Gerusalemme. Incontra una donna, se ne innamora, nascono due figlie. Anche Khader raggiunge l’Italia, per studiare Medicina. Conosce la figlia maggiore di Carlo, bella e ribelle, tra i due nasce un amore fortissimo. La prima delle loro figlie raccoglie l’eredità complessa di uomini e donne sradicati dalla propria terra, sospinti dal vento implacabile della Storia. Con coraggio, determinazione e inesausto desiderio di riparare il passato per costruire il futuro, segue il percorso di due esili incrociati, due destini che ci raccontano da dove veniamo e ci chiedono dove vogliamo andare.

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Widad Tamimi (Milano, 1981), figlia di un profugo palestinese fuggito dall’occupazione israeliana del 1967 e di una donna di origini ebree, la cui famiglia scappò a New York durante la Seconda guerra mondiale, è cresciuta in Italia. Attualmente vive a Lubiana col marito e i due figli e presta servizio nei campi di accoglienza ai profughi nell’ambito del programma “Restoring Family Link” della Croce Rossa Slovena. Nel 2012, per Mondadori, ha pubblicato il suo primo romanzo Il caffè delle donne. Scrive racconti per “Delo”, il principale quotidiano sloveno.

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