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LA DISERTORA

ottobre 11, 2016

La disertoraLA DISERTORA di Barbara Beneforti (Iacobelli, 2016) – un estratto del libro
Capitolo 1

La processione dei fantasmi

La creatura si era attaccata al suo corpo come la zecca al cane. La donna aveva provato in tutti i modi a liberarsene, ma nessuno dei sistemi miracolosi carpiti a caro prezzo alla guaritrice aveva portato giovamento. Non erano serviti a nulla neppure dieci mazzi di prezzemolo crudo, neppure il decotto di certe erbe segrete, amare come il fiele. Alla fine, visto che l’unico guadagno era stato un solenne mal di corpo, la donna si mise a pulire da cima a fondo tutta la casa e anche la stalla, andò al fosso con mezzo quintale di panni da lavare e se li caricò in capo senza strizzarli, perché il peso la sfiancasse meglio. Tentò ogni rimedio, lecito e meno lecito, ma niente da fare: la creatura aveva preso dimora nel suo corpo proprio come la zecca che succhia golosa il sangue del cane, mostrando fin dal primo istante della sua esistenza una testardaggine senza rimedio.
Il fattaccio si era manifestato senza clamore, nell’aia della casa di un bracciante, in un paesuccio ai margini più lontani del Granducato, poco più su della Porta San Marco di Pistoia.
Era un paese lontano da tutto, a quei tempi, collegato alla città da una strada diritta e lunga, sulla quale si affacciavano le modeste case di contadini e di artigiani. Quella stessa strada, qualche anno più tardi, venne dedicata al famoso astronomo Padre Antonelli, ma a quei tempi a Candeglia non c’era quasi niente: la farmacia e la posta sarebbero arrivate soltanto vent’anni dopo, così come le botteghe di generi alimentari, il macellaio e il fabbro.
C’erano soltanto campi e poderi, gente misera e ignorante, qualche solitario carretto che si faceva lume nell’oscurità della notte con una fioca lanterna a olio, cigolante penzoloni a un gancio. Soltanto il mercoledì e il sabato, appena dopo l’alba, d’estate e d’inverno, la strada si riempiva del via vai dei contadini che scendevano a valle per vendere le loro merci al mercato: frutti del bosco, cacio pecorino, ricotta, mazzi di polli e di piccioni già puliti e spennati per il pranzo domenicale dei ricchi.
Quella sera a Candeglia di certo era freddo, forse pioveva anche un po’, e lì, da un lato del pozzo, appoggiata al muro per metà coperto di ortiche, c’era una donna umiliata e dolente: l’Ersilia.
Si trovava in quello stato desolante perché non aveva preso marito e tuttavia si era accorta di aspettare una creatura. Qualche settimana prima aveva fatto un paio di ruzzoloni in un pagliaio con uno sciupafemmine che scendeva in paese ogni tanto, anche lui per portare le sue forme di cacio al mercato, e poi, al ritorno, per giocare una partita a tressette all’osteria, e la frittata era fatta. La creatura cresceva.
Quando il danno ormai cominciava a vedersi, nonostante si fosse strizzata fin quasi a svenire dentro a certe bende ricavate da un panno vecchio, alla fine decise che era venuto il tempo di dirlo a casa sua.
– Babbo, mi rincresce disturbarvi ma ho da dirvi che mi ritrovo in stato interessante.
– Accidenti a te e a quella troia della tu’ mamma – rispose lui, breve.

L’Ersilia mise i suoi pochi panni in un fagotto e prese la via della Bure, in direzione del podere di chi s’era vantato di essere un amante esperto, di chi aveva giurato che stava attento a tutto lui. Prese la via della Bure con la determinazione di pretendere un matrimonio riparatore.
Arrivò a Lupicciano senza fiato, si mise un momento a sedere sulla panca di sasso sotto al portico della chiesina di San Giuseppe e al primo che passava, un vecchio che andava avanti piano piano e la guardava curioso, gli domandò:
– Abbiate pazienza, lo sapete voi dov’è il podere del Venturi?
– Lo so sì, qui ci si conosce tutti. Prendi quella via laggiù e a mezzo della discesa gira a diritta, te lo trovi davanti al naso. Ma chi cerchi, se si può dire?
– Cerco Giobatta del Venturi, quello che ogni tanto viene in Candeglia a giocare alle carte.
– Ho bell’e capito. Vai, vai, vedrai che ora lo trovi ancora in casa, la sua moglie mette in tavola per mezzogiorno e ho sentito sonare il tócco che non è tanto.

L’Ersilia spalancò la bocca e si alzò in piedi sull’attenti come il soldatino davanti al colonnello:
– Come la sua moglie? O che è sposato?
– Perdinci. E ha cinque figlioli anche, il più piccino puppa ancora. Non te lo disse, eh, piccina?
– Non me lo disse, no, si vede che se n’era scordato. Ora però ho qualche cosa da dirgli io. Vi saluto, grazie e che Dio vi benedica.

Agguantò il suo fagotto e s’incamminò lesta, passò sotto la volta e sparì giù per la discesa senza girarsi indietro.
Il vecchio la seguì con lo sguardo, si levò la pipa di bocca, fece dietrofront e si affacciò sull’uscio di casa proprio mentre la moglie ne usciva per buttare le bucce di cipolla nel concime.
– Affacciati nell’aia del Venturi, Clementina, che fra un po’ si sente i botti. C’era una forestiera, lì in piazza, che cercava Giovan Battista e mi pare d’avergli visto una pancina tonda tonda, scommetto che gli porta un bel regalo, al Venturi, quella piccina.
– O Madonna santa, quel delinquente prima o poi si sapeva che faceva il danno. Aspetta un po’, che sento la Maria se ne sa nulla.

Dopo cinque minuti, quando ancora l’Ersilia non aveva trovato neanche il coraggio di affacciarsi nell’aia, e stava lì ferma in fondo allo stradello incerta se stare o se andare, tutto il paese sapeva che Giobatta del Venturi aveva messo incinta una figliola di neanche vent’anni, bella come il sole, e che ora se ne sarebbero viste delle belle e forse forse, se non stavano all’occhio, ci poteva anche scappare il morto.
Invece il morto non ci scappò, anzi. Filò tutto talmente liscio che fu quasi una mezza delusione, perché in paese ormai s’aspettavano di che chiacchierare almeno per un paio d’anni.
Prima di tutto l’Ersilia trovò finalmente il coraggio di bussare. Aprì proprio la Minerva, neanche a farlo apposta, moglie legittima di Giobatta del Venturi. Alla luce del sole non si vedevano, ma aveva più corna in capo che un paniere di lumache. A dispetto del nome promettente, era un tanghero di donnone più larga che alta, con due avambracci da carpentiere e oltre tutto ignorante come un mulo. Infatti lì per lì non capì nulla, e non si preoccupò nemmeno quando vide il marito levarsi svelto in piedi, con i capelli ritti e la faccia bianca come un cencio. E nemmeno capì nulla quando il medesimo marito prese a misurare avanti e indietro a grandi passi la cucina, attaccando la solita litania:
– O te che ci fai? O te che ci fai? tanto per far finta di nulla e perdere un po’ di tempo.

In compenso la suocera capì tutto al volo. Guardò l’Ersilia per bene, squadrò il profilo del corpo esile ma ben fatto, i bei capelli raccolti in una treccia attorno al viso ovale, i grandi occhi vivaci e terrorizzati.
– Figliolo d’un cane, accidenti a me e a quando t’ho messo al mondo, era meglio se t’affogavo da piccino.

Prese i bambini e li mandò dietro casa a giocare, poi si tirò giù le maniche del vestito e si guardò attorno spaesata, in cerca del marito. Bravo, per carità, ma trovava sempre il momento più bello per sparire, che era stato lì in cucina a ruminare il suo tabacco fino a un attimo prima.
L’Ersilia posò il fagotto sul focolare, si mise a sedere sulla panca e disse, sperando di non mettersi a piangere:
– Bada un po’ se tu stai zitto un minuto e mi stai a sentire. Io porto in pancia una creatura. È tua e in Candeglia lo sanno tutti, t’hanno visto più d’una volta e così è inutile negare. Io non mi muovo di qui neanche se m’ammazzate, così fai un po’ come ti pare:
te l’hai messo al mondo e te me lo mantieni.

E si appoggiò al muro sfinita, con gli occhi socchiusi, pregando Dio che la facesse sprofondare fino alle porte dell’inferno.
A quel punto, volere o volare, anche la moglie cominciò a mangiare la foglia, e quello fu l’unico momento di perfetta soddisfazione per tutti. Infatti la povera Minerva si mise tutto a un tratto a gridare come una furia, agguantò il marito per un braccio e prese a dargliene così di santa ragione, con tanto di schiaffi e strapponi di capelli, che quello, per scampare all’uragano, provò a infilare l’uscio di casa. Ma la Minerva lo riacchiappò e il tafferuglio proseguì nell’aia, con lei che lo infamava con le peggio parole e lui che urlava altrettanto, ma per carità di fare un po’ più piano, che tirava dei cazzotti come se l’avessero pagata, e mezzo paese affacciato in cima alla salita si godeva la gustosa novità.
Tutto questo baccano ebbe come conseguenza che il vecchio Venturi, padre di Giobatta, tornò di corsa indietro dal campo, in tempo per assistere a quasi tutto
il pestaggio del figliolo maggiore.
Non mosse neanche un dito per sottrarlo alla furia della nuora, e questo la dice lunga sulla considerazione che nutriva per quel sangue del suo sangue. Entrò in casa, guardò l’Ersilia nel canto del fuoco e si sentì preso dalla compassione perché gli sembrò smarrita e stanca. Forse rimase anche un po’ impressionato da quanto era bella, questa però è una di quelle cose che la storia non tramanda, così è solo una supposizione.
Comunque disse alla moglie:
– Non ti lamentare, donna, che forse si può trovare il verso di metterci una toppa.

Prese una seggiola, ci si mise a cavalcioni con i gomiti appoggiati alla spalliera, proprio davanti al naso dell’Ersilia e disse:
– Senti piccina, quel mio figliolo Giobatta è un poco di buono e su questo non ci piove. Te però non sei più garbata di lui, sennò non ti facevi infinocchiare a questa maniera. Così mi pare che vi convenga a tutti e due di sistemare le cose per il meglio. Io quel figliolo non te lo posso dare perché ha già preso moglie e l’ha voluta quasi maschio perché diceva che faceva comodo al podere. Ora se la gode, come tu puoi sentire da quante legnate si sta buscando lì nell’aia, quel minchione. Però noi, se Dio vuole, ci s’ha anche un figliolo più piccino che ha ancora da prendere moglie, si chiama Ferruccio. Se tu gli vai a genio ti si potrebbe dare quello, così almeno resta tutto in famiglia. Che ti pare?

L’Ersilia lo guardò un momento un po’ interdetta, pensando che magari quel vecchio gigante, che a guardarlo pareva solido e a modo, forse non aveva tutte le rotelle a posto dentro a quella testa rugosa. Poi gli venne in mente che piuttosto di tornare in Candeglia da quel prepotente del suo babbo avrebbe sposato anche Barbablù e del resto quando non si può fare quel che si vuole bisogna fare appunto quello che conviene.
– A me mi pare che potrebbe andare bene – rispose con un filo di voce, cercando di esprimere con lo sguardo tutta la gratitudine di chi si vede prima sprofondato nell’inferno e poi tirato su per i capelli fino alla speranza non diciamo del paradiso ma quanto meno del purgatorio.
Ferruccio, il figliolo più piccino, era nella stalla che caricava l’erba medica alle mucche e non s’era fatto pensiero neanche per un minuto di tutto il pandemonio che veniva dall’aia. Andarono tutti in delegazione a spiegargli la faccenda e mentre Ferruccio stava a sentire non sollevò neanche una volta la testa dal forcone.
Appena il vecchio Venturi ebbe fatto per filo e per segno prima le sue spiegazioni e poi le sue proposte, Ferruccio piantò il forcone nell’impiantito, ci s’appoggiò sopra con le braccia conserte e finalmente rivolse lo sguardo verso l’Ersilia, che stava lì da un lato della stalla col suo fagotto in mano e non s’era mai vergognata così tanto in vita sua. La guardò e disse soltanto:
– Mi pare un po’ secca.

Così tutti quanti tirarono un sospiro di vero e sincero sollievo.
L’unica cosa sulla quale l’Ersilia volle imporsi, grata al Venturi per non averla rispedita da dove era venuta, fu il nome. Per il resto entrò in quella famiglia come la nave entra nel porto sicuro dopo la tempesta. E ebbe fortuna, perché a casa del Venturi non era come da tanti mezzadri, che la donna mette in tavola la polenta e poi va a mangiare la sua fetta a sedere in disparte, nell’angolo più buio del focolare. A casa del Venturi le donne mangiavano a tavolino, insieme al capofamiglia e ai mariti, anche se il padrone storceva il naso quando veniva nel podere e vedeva queste abitudini perché disapprovava le massaie che alzano la cresta.
Nacque la più bella bambina che si fosse mai vista da quelle parti, come nelle novelle di principesse, e lei la volle chiamare a tutti i costi Luce, perché desiderava che il frutto della sua vergogna portasse almeno un bel nome da stella di cui andare fiera.
Il prete non la prese tanto bene, infatti si inventò lì per lì una Marialuce della quale per fortuna tutti quanti si scordarono appena usciti dalla chiesina di San Giuseppe, il giorno del battesimo.
Dopo di lei l’Ersilia e Ferruccio ebbero altri sei figli, che sommati ai cinque del fratello Giobatta fanno dodici bambini nel podere del Venturi. Andarono per sempre d’amore e d’accordo e nessuno li sentì mai prendersi a male parole o mancarsi di rispetto.
La sera, se avevano tempo, si prendevano a braccetto e andavano a fare una passeggiata fino al fresco della Madonna del Pelago, poi tornavano a Lupicciano in pace col mondo, chiacchierando fitto fitto di tutte le cose che avrebbero fatto un giorno o l’altro, quando i figlioli sarebbero cresciuti e loro avrebbero messo da parte qualche soldo.
La cognata Minerva, che in fin dei conti era una bonacciona, si accontentò della soddisfazione di aver tamburato ben bene il marito davanti a tutto il paese e accolse con amore di sorella quella giovane donna bella e gentile, sempre pronta a farle compagnia e ad aiutarla nelle faccende di casa. Giobatta, dal canto suo, con gli equilibrismi di cui sono capaci coloro che vivono nella vergogna, passò più di quarant’anni fra le stesse quattro mura senza rivolgere nemmeno una volta la parola all’antica amante. Dopo qualche mese l’Ersilia si era addirittura dimenticata di lui, anche se ogni tanto si domandava che mai ci avesse trovato di così interessante in quell’ometto senza talenti che girava per casa a occhi bassi e bocca cucita. A volte le cose fatte per rimedio riescono meglio di quelle fatte per volontà.
La piccola Luce diventò donna insieme a quel branco di fratelli per metà cugini o, se si vuole, di cugini per metà fratelli, ma una cosa importante da sapere, per capire come andranno le cose negli anni a venire, è che non si sentì mai completamente felice insieme a tutti quei suoi parenti.
La sua mente vagava oltre gli orizzonti conosciuti, sempre alla ricerca di qualcosa, sempre con il naso al cielo verso l’immensità e il silenzio dove galleggiavano le sue sorelle stelle. Insomma – per farla meno poetica – si perdeva parecchio nel balocco e poco nelle faccende di casa, e questa sua attitudine era continuamente combattuta da quelle donne, che l’avrebbero voluta più adatta alle cose concrete, tipo spennare i polli della zia Minerva o lavare con spazzola e sapone le lastre dell’impiantito di cucina. Entrambe cose che a Luce aborriva come la morte.
Spesso tentava di sottrarsi a queste incombenze dileguandosi nell’ombra. Si allontanava in silenzio, scendeva alla Bure. In ogni stagione dell’anno, anche nel freddo di febbraio quando doveva prendere un pezzo di legno per spaccare le lastre di ghiaccio sul pelo dell’acqua, si sfilava le calze e infilava le gambe nel fosso. D’estate si divertiva a giocare con i girini dei rospi, li tirava fuori e li osservava dibattersi disperati sopra al suo piede bianco, poi li infilava un’altra volta sott’acqua e sorridendo li guardava correre via impauriti a nascondersi sotto a un sasso. Godeva nel sentire il brivido di gelo che saliva dai piedi nudi lungo la schiena e in quel momento immaginava di essere un’altra persona e di volare da un’altra parte. Dove non lo sapeva: il mondo era un mistero per lei perché non era mai scesa neppure a Pistoia. I bambini non li portavano, per arrivare in città dal paese ci volevano due ore e per tornare indietro anche di più, non valeva la fatica.
Crebbe così, aspettando qualcosa che non conosceva, ma pur sempre qualcosa. Le donne scuotevano la testa e andavano avanti: si vede che era stata messa insieme troppo in fretta, fra quei ruzzoloni nel pagliaio. Si vede che quel nome di cosa e non di persona, mai sentito da quelle parti, non aveva portato bene. Tutti la guardavano con un po’ di sospetto, come si osservano i fenomeni della natura che ci incantano ma che non si sa comprendere, gli arcobaleni o i fuochi fatui d’estate nei cimiteri.
Ma lei non se ne preoccupò mai, perché una fra le molte cose che la lasciavano del tutto indifferente era il giudizio del mondo sulla sua persona.
Era proprio lì quella sera, ormai vecchia, a rimestare fra sé e sé questa storia dimenticata. Stava da una parte nel vento, appoggiata in un canto della chiesina di San Giuseppe, come se fosse lei sola a dover reggere come una colonna tutto l’architrave e il portico di mattoni e le panchine di sasso. Guardava i muri vecchi del suo paese e non parlava.
Lupicciano era nato a un crocicchio di strade, più di mille anni prima, addirittura ai tempi di Ottone imperatore. Nel corso dei secoli le case, prima tre o quattro poi sempre più numerose, si erano appoggiate l’una sull’altra quasi a caso, senza un disegno, e avevano finito per sdraiarsi tutte in fila lungo il crinale del poggio, come una massaia stanca. Lassù, nelle belle sere d’estate, pareva che il sole si fosse scordato di tramontare, le giornate erano sempre un po’ più lunghe e fino a sera c’era un bel chiarore, così le finestre le avevano fatte tutte minuscole e rade perché il tepore del focolare faticasse a disperdersi fra le crepe dei muri di sasso. In compenso tirava sempre un gran vento, perché d’inverno il paese affettava la tramontana, che soffiava con rombo di terremoto giù dai boschi dell’Acquerino. D’estate il maestrale rinfrescava l’intonaco e le donne si trattenevano un momento a quell’ora, sullo scalino, a respirare l’ultima aria buona del giorno prima di chinare la schiena sul paiolo della polenta da rimestare.
La vecchia Luce guardava la sua gente affollare la piazza, ne ascoltava distratta le chiacchiere e i sospiri. Pensava che ormai, fra tutti della sua stirpe, era rimasta davvero la più vecchia. Eppure a fare il conto non erano passate neppure settanta primavere. Ma il destino era sempre entrato con prepotenza a casa sua e pian piano se li era portati via tutti, chi di disgrazia e chi di miseria. E ora eccoli lì un’altra volta, a seminare saluti e benedizioni. Un’altra volta ancora erano tutti sotto il portico a salutare i soldati, che la vecchia Luce aveva perso il conto.
Ma stavolta, pensava, tutto è diverso, tutto è cambiato. All’improvviso era diventata una vecchia dalle mani nodose e ritorte. Erano tutte sotto terra le care vecchie donne conosciute, che scendevano al bozzo col fagotto di panni in capo. Non c’erano più i giovanotti di Lupicciano, gonfi di vinaccia e sempre pronti a menar le mani dopo l’osteria: erano invecchiati anche loro, curvi sotto la catasta di legna o chini sull’aratro. Non più i fratelli premurosi, non più gli amori finiti e pregati, né le loro anime che aspettavano pazienti il proprio turno in purgatorio.
La Luce osservava i loro fantasmi inutili che scivolavano sotto la volta o giù dalla parte del fontanello, fra i portici scuri, quasi invisibili nell’ombra lunga delle vigne lì sotto, nel campo di Talino. Se ne stava lì inoperosa a guardarli sfilare uno dopo l’altro, anche quelli che non vedeva da tanto tempo, e poteva ancora chiamarli ciascuno con nome e soprannome.
Ormai nell’aia di Torello i contorni dei cipressi in fila scurivano di già la viottola, i contadini cominciavano a rimettere fieno e attrezzi nella stanza del segatoio e le donne s’avviavano a chiudere il pollaio.
Non si va in guerra all’ora di cena, pensava la nonna Luce.
Si affollavano nella sua mente tutti i discorsi pronunciati invano, per arrivare inutilmente in fondo a quella sera di cannoni e di trincee, con tutti quei milioni e milioni di parole. Appoggiata al muro faceva il conto dei morti che aveva sotterrato, dei giorni passati e di quelli prima di lei, con tutte le gioie e i mille dolori, a marcia indietro fino a quelli antichi della sua bella mamma, anche lei ormai dimenticata perfino dai più vecchi, che bisognava tornare con la memoria fin nel secolo passato, addirittura, quando per prima fra le sue donne attraversò quella stessa piazza e passò sotto quello stesso portico dove erano tutti riuniti quella sera, per abbracciare il giovane Amerigo che partiva soldato.
La attraversò a piedi nudi in cerca del Venturi – pensò la vecchia Luce guardandosi la punta degli zoccoli – con lei che già si dimenava insofferente dentro alla pancia, come avrebbe fatto nel mondo di fuori per tanti anni a venire, e le sue bambine ci passarono dopo di lei e ora le nipoti, sempre ridenti: così tanti passi di donna, avanti e indietro per quella piazza, da non poter credere che non si vedesse il solco. E si domandava a che era servito tutto quel camminare.
La guerra a casa della Luce era cominciata tanto tempo prima, sotto un vecchio re e all’ombra di un’altra bandiera, ma ancora non finiva e lei era stanca. La vita è lunga – pensava – ma in certi giorni speciali passa tutta davanti in un momento, come il battito di un ciglio. Come il vento che si alza a Lupicciano all’improvviso, quando poche spanne al di sotto della luna brilla la prima stella della sera.

(Riproduzione riservata)

© Iacobelli

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Barbara Beneforti è nata a Firenze nel 1968. Si è laureata in Lettere con una tesi in dialettologia italiana. Vive e lavora a Pistoia. Da dieci anni è funzionaria presso l’ente Provincia, dove si occupa felicemente di promozione delle pari opportunità, immigrazione e contrasto alle discriminazioni. Che peraltro sono i temi che le interessano anche come impegno sociale. Ha pubblicato vari racconti, molti articoli e alcuni saggi su tradizioni popolari, dialetti e migrazioni. Ha collaborato con riviste e pubblicazioni di storia locale e linguistica. In ambito lavorativo, ha collaborato a diverse pubblicazioni su immigrazione, storia e cultura del popolo rom, tutela delle vittime di discriminazione. Nel 2011 ha scritto un romanzo, L’ultima stagione, ambientato nella seconda metà dell’Ottocento in Toscana, con il quale si è classificata al primo posto per la narrativa edita alla XIV edizione del Premio letterario internazionale Mondolibro. Abita insieme a Roberto e ai due figli, Caterina e Raniero, in mezzo a un bosco, sulle colline pistoiesi, nella stessa casa dove per più di cent’anni i suoi avi hanno lavorato come mezzadri. Grazie a queste radici profonde, ha sempre avuto voglia di confrontarsi senza paura con i mondi lontani. Ama viaggiare, leggere e chiacchierare davanti a un caffè. La scrittura per lei è memoria, impegno civile e orgoglio nel provare a dar voce a chi non ha lasciato tracce nella storia.

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