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PAOLO COGNETTI racconta LA FELICITÀ DEL LUPO (Einaudi)

dicembre 2, 2021

Come nasce un romanzo? Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: PAOLO COGNETTI racconta il suo romanzo “La felicità del lupo” (Einaudi)

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di Paolo Cognetti

Ho cominciato a scrivere La felicità del lupo lontano dalla montagna. Per mesi non ero andato oltre la prima pagina, pur ricorrendo alla vecchia disciplina di alzarmi presto, uscire di casa, trovare un bar e lavorare fino a mezzogiorno, ma scrivevo e riscrivevo quelle poche righe senza essere capace di proseguire. Questo a Milano, nell’autunno del 2019. Quand’ero stanco di girare a vuoto prendevo e andavo su, nella baita, con quella libertà per me fondamentale di prendere-e-andare-ogni-volta-che-mi-va, domenica o lunedì non importa, in un paio d’ore mi ritrovavo nella mia casetta di legno e pietra. La mattina uscivo a camminare nel bosco, tornavo dentro al caldo della stufa, mettevo su il caffè, aprivo il quaderno e di nuovo m’incagliavo. Che cosa c’era di tanto difficile nella storia che volevo scrivere? Era una storia d’amore, questo lo sapevo bene. Avevo tutta la visione di come sarebbe andata. Ma credo che il problema fosse proprio che avevo troppa visione, la vedevo tutta intera come un pianeta nel telescopio, e la osservavo così, nel telescopio, ormai da qualche anno, in attesa di mettermi a scriverla. Adesso che il momento era arrivato non riuscivo ad atterrare sul pianeta e a muovere i primi passi per esplorarlo. Dormivo male – le sere e le notti d’autunno sono lunghe quando stai da solo in baita, i boschi ingialliti ti mettono una gran nostalgia – e dopo un po’ mi arrendevo: Milano, sveglia, bar la mattina, yoga nel pomeriggio, poi tornare su e scoprire che ha nevicato, di notte i cannoni sparano e passano i gatti delle nevi, sono i riti dell’inverno che comincia. Intorno alla baita si preparavano le piste da sci per Natale.

Paolo Cognetti

Paolo Cognetti (foto © Stephan Vanfleteren)

Un giorno, in gennaio, mi confidai con la Babette del romanzo, che esiste davvero. Lei ha un ristorante dove ho lavorato come cuoco una decina d’anni fa, una volta che avevo finito i soldi ma non volevo proprio tornare a Milano per cercarmi un lavoro, e così mi aveva offerto un posto nella sua cucina. Allora ci conoscevamo appena, adesso è una delle mie migliori amiche. Lei è una vera artista del rifugio: ha quel talento raro di accogliere e di ascoltare, di farti sentire in un posto caldo mentre fuori, magari, ci sono venti gradi sotto zero. Nel suo modo un po’ brutale – Babette è affettuosa e brusca al tempo stesso – mi disse: forse devi buttar via quella pagina e cominciare da qualcos’altro. Tipo?, le chiesi io, sconsolato. Comincia da qui, disse lei. Da questo posto. Ti ricordi quell’inverno, quando facevi il cuoco per me? Siamo stati bene.
È dura stracciare una pagina che hai riscritto per mesi, ma non è che avessi molto da perdere. Una volta che l’hai stracciata non ci pensi più. Dopo qualche tempo, ne scrissi un’altra ricordando l’inverno in cui avevo fatto il cuoco da Babette, e come niente le pagine diventarono due e poi tre. A questo punto era febbraio. Seguivo le cose della mia vita, come tutti, il mio tran tran scandito da quei 170 chilometri che conosco a memoria, e come tutti facevo poco caso alle lontane notizie dalla Cina, finché la vita cambiò in un tempo brevissimo e il 9 marzo del 2020 ci chiusero in casa. La sera prima ci fu la grande fuga da Milano, ricordate? L’assalto ai treni per sfollare dalla città. Io invece decisi subito di rimanere perché a Milano ho la mia compagna ed è l’istinto, in un momento del genere, a dirti dove bisogna stare. La mia libertà fondamentale era persa da un giorno all’altro, ma perlomeno avevo da scrivere, questo nuovo inizio e chissà quanto tempo davanti per scoprire dove mi portava.
https://letteratitudinenews.files.wordpress.com/2016/12/paolo-cognetti.jpgDurante quel periodo di distanza forzata dalla montagna mi fecero molta compagnia le Trentasei vedute del Monte Fuji di Hokusai, il grande pittore giapponese del XIX secolo. Ogni mattina osservavo uno di quei disegni e a volte lo copiavo su un foglio, come forma di meditazione. Nelle Vedute – l’opera che è il suo capolavoroHokusai dipinse il Fuji da luoghi e prospettive diverse, ma soprattutto ritrasse l’umanità ai piedi del vulcano: pescatori, tagliaboschi, contadini, raccoglitrici di riso, mercanti in viaggio, geishe nelle sale da tè, monaci e soldati, la loro vita quotidiana, i gesti del lavoro. La montagna impassibile sullo sfondo e, in primo piano, le piccole fatiche umane mentre le stagioni scorrono in un ciclo infinito. Osservando le stampe mi sembrò di capire come mai quel genere pittorico fosse stato battezzato ukiyo-e, “immagine del mondo fluttuante”: al cospetto del Fuji, la qualità più evidente della vita umana era il suo essere effimera, transitoria, impermanente come una foglia al vento o le barchette di pescatori del disegno più famoso della serie, La grande onda di Kanagawa. E mai come in quelle settimane di paura, con l’onda che ci travolgeva e la montagna lontana a cui non potevo arrivare, la mia stessa realtà mi sembrava ritratta nel libro. Le sirene delle ambulanze e i carri funebri. Le persone sui balconi sopra a strade deserte. I ghiacciai del Rosa che splendevano, a nord-ovest, in quella primavera radiosa – Il monte Fuji dalla prefettura di Milano durante una pandemia.
Eppure il tratto di Hokusai era tutt’altro che tragico. Era pervaso di una leggerezza – la grazia, la leggerezza, l’ironia delle storie zen, degli haiku dei poeti vagabondi – che secondo me è uno dei più preziosi tesori del buddismo, una propensione verso l’attimo, la disponibilità a lasciarsene meravigliare, il respiro della vita che nella sua impermanenza sussurra: stai qui, stai qui… Era a questo che aspiravo, quando mi misi a scrivere le mie Trentasei vedute. E presto mi accorsi anche che essere lontano mi aiutava, perché c’era di mezzo la nostalgia, il senso della scrittura come ritorno e come rifugio. Così, dalla mia stanza affacciata su un cortile popolato solo dal vocio delle televisioni, aprivo il quaderno e mi ritrovavo nel bosco di qualche anno prima, quando avevo visto i boscaioli lavorare per un’estate intera al taglio degli alberi feriti dal vento, tra il rombo delle motoseghe e lo schianto dei larici che cadevano e il profumo di resina e segatura. O su un gatto delle nevi, di notte, quando un amico mi aveva invitato ad andare con lui, e a 2700 metri sotto la nevicata ascoltavamo i Dire Straits battendo la pista nera. O nella cucina di Babette, tra i fumi della lavapiatti e le pentole da grattare, le goccioline sul bicchiere di una birra fresca, una risata di ragazza di là al bar. Ecco il respiro, ecco l’attimo che passa: stai qui, stai qui
Fu davvero strano vedere Babette in un monitor, quando ci sentimmo per chiederci come stavamo. Non al banco con un bicchiere di vino, né la luce che entra dalle finestre quando fuori c’è la neve.
Allora, hai cominciato?, mi chiese.
Sì, ho cominciato, risposi – che cosa sorprendente da dire nei giorni in cui tutto sembrava interrotto e sospeso.

Nei campi di neve
verdissimo il verde
dell’erba nuova.

 

Paolo Cognetti al Premio Strega 2017

(Riproduzione riservata)

© Paolo Cognetti

[questo testo è stato originariamente pubblicato su “Tuttolibri” de La Stampa]

 

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La scheda del libro: “La felicità del lupo” di Paolo Cognetti (Einaudi)

«Silvia rise. E di cosa sa gennaio? Di cosa sapeva gennaio? Fumo di stufa. Prati secchi e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracolo».

Fausto si è rifugiato in montagna perché voleva scomparire, Silvia sta cercando qualcosa di sé per poi ripartire verso chissà dove. Lui ha quarant’anni, lei ventisette: provano a toccarsi, una notte, mentre Fontana Fredda si prepara per l’inverno. Intorno a loro ci sono Babette e il suo ristorante, e poi un rifugio a piú di tremila metri, Santorso che sa tutto della valle, distese di nevi e d’erba che allargano il respiro. Persino il lupo, che mancava da un secolo, sembra aver fatto ritorno. Anche lui in cerca della sua felicità.

Arrivato alla fine di una lunga relazione, Fausto cerca rifugio tra i sentieri dove camminava da bambino. A Fontana Fredda incontra Babette, anche lei fuggita da Milano molto tempo prima, che gli propone di fare il cuoco nel suo ristorante, tra gli sciatori della piccola pista e gli operai della seggiovia. Silvia è lí che serve ai tavoli, e non sa ancora se la montagna è il nascondiglio di un inverno o un desiderio duraturo, se prima o poi riuscirà a trovare il suo passo e se è pronta ad accordarlo a quello di Fausto. E poi c’è Santorso, che vede lungo e beve troppo, e scopre di essersi affezionato a quel forestiero dai modi spicci, capace di camminare in silenzio come un montanaro. Mentre cucina per i gattisti che d’inverno battono la pista e per i boscaioli che d’estate profumano il bosco impilando cataste di tronchi, Fausto ritrova il gusto per le cose e per la cura degli altri, assapora il desiderio del corpo e l’abbandono. Che esista o no, il luogo della felicità, lui sente di essere esattamente dove deve stare. Di Paolo Cognetti conosciamo lo sguardo luminoso e la voce limpida, il dono di osservare le relazioni umane nel loro dialogo ininterrotto con la natura, che siano i boschi di larici dei duemila metri o il paesaggio di roccia e ghiaccio dei tremila. Con le loro ferite e irrequietezze, quando scappano e quando poi fanno ritorno, i suoi personaggi ci sembrano amici che conosciamo da sempre, di quelli rari. È per questo, forse, che tra le pagine vive di questo libro purificatore abbiamo l’impressione di attraversare non le stagioni di un anno, ma di una vita intera.

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Paolo Cognetti è nato a Milano nel 1978. Tra i suoi libri: Sofia si veste sempre di nero (minimumfax 2012), Il ragazzo selvatico (Terre di mezzo 2013) e Senza mai arrivare in cima (Einaudi 2018 e 2019). Nel 2021 ha curato L’Antonia su Antonia Pozzi (Ponte alle Grazie). Sempre nel 2021 esce, sia come film-documentario sia in forma di podcast, Paolo Cognetti. Sogni di Grande Nord. Con Le otto montagne (Einaudi 2016 e 2018), che è stato tradotto in oltre 40 paesi e dal quale è stato tratto un film di prossima uscita, ha vinto il Premio Strega, il Prix Médicis étranger e il Grand Prize del Banff. Per Einaudi ha pubblicato anche La felicità del lupo (2021).

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