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IL DUCA di Matteo Melchiorre (Einaudi): incontro con l’autore

giugno 27, 2022

Il Duca - Matteo Melchiorre - copertina“Il Duca” di Matteo Melchiorre (Einaudi): incontro con l’autore e un brano estratto dal romanzo

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Matteo Melchiorre è nato nel 1981. Dopo essere stato ricercatore presso l’Università degli Studi di Udine, l’Università Ca’ Foscari e lo Iuav di Venezia, è direttore dal 2018 della Biblioteca del Museo e dell’Archivio Storico di Castelfranco Veneto. Si occupa di storia economica e sociale del medioevo e della prima età moderna, e di storia della montagna e dei boschi. Autore di numerosi saggi storici, tra gli altri libri ha pubblicato: Requiem per un albero. Resoconto dal Nord Est (Spartaco 2004), La banda della superstrada Fenadora-Anzú (con vaneggiamenti sovversivi) (Laterza 2011), La via di Schenèr. Un’esplorazione storica nelle Alpi (Marsilio 2016, Premio Mario Rigoni Stern 2017 e Premio Cortina 2017) e Storia di alberi e della loro terra (Marsilio 2017).

Per Einaudi ha pubblicato Il Duca (2022). Abbiamo chiesto all’autore di raccontarci qualcosa sulla genesi di questa sua ultima opera…

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«Ho iniziato a scrivere Il Duca, cioè a pensare di scrivere ciò che molto più tardi avrebbe trovato la forma di un romanzo e che ancora più tardi avrei chiamato il Duca, in una notte del 2014», ha detto Matteo Melchiorre a Letteratitudine. «A quel tempo, la notte, mi succedevano molte cose. Non che fossi un nottambulo, o che girassi sistematicamente nottetempo. Si dà il caso, semplicemente, che in quel giro d’anni molte cose rilevanti accadessero in orari in cui adesso, ora come ora, dormo da un pezzo.

Matteo Melchiorre

Insomma in un paese che potrebbe benissimo assomigliare a Vallorgàna, ossia il paese del Duca, c’era una sagra. Oltre al tendone sotto al quale v’erano quei tavoli lì con le gambe di ferro apri-chiudi e le relative panche con le stesse gambe di ferro apri-chiudi, c’erano, nello spiazzo prospiciente il tendone, un po’ di giostre maldestre; giostre vecchie, bruttine, per niente à la page.
Uscii dal tendone della sagra verso le due di notte. Le giostre erano ovviamente spente. La piazza del paese era deserta. Non una finestra era accesa. C’era soltanto, un po’ lontano, un giro di lampioni. Con me c’era un amico, abitante di quel paese. Quella sera ebbe un colpo di genio. Egli, quel mio amico, vide la più triste di quelle giostre, ovvero una giostra a catene per i bambini piccoli. Aveva le catene a penzoloni. In quel buio marginalissimo, in quel vuoto, il mio amico volle dunque mettere in piedi una recita muta.
Lo vedo, d’improvviso, barcollare. Si finge sfinito. Lo si direbbe ubriaco e disperato al contempo. Cammina così, con quella rassegnazione spaesata, ciondolando il capo, gli occhi socchiusi, verso la giostra a catene. Prova a prendere un seggiolino una prima volta. Niente. Prova di nuovo. Niente. Prova la terza volta: il seggiolino è in pugno. Lo tira verso di sé, vi si lascia cadere sopra e vi rovina dentro. Il seggiolino è stretto, per arrivare alla seduta il mio amico deve sforzarvisi dentro di sbieco. Dopodiché, com’è ovvio che accada a una persona che barcolli e sia sfinita, è come se il mio amico perdesse i sensi e le ossa. Presente una marionetta cui nessuno tenga più i fili? Così. Giace sul seggiolino della giostra, senza più consapevoli sentimenti, la testa crollata sul petto. Finge un lamento.
Io vidi quella immotivata recita muta e restai senza parole, e ancora prima che il mio amico vi ponesse fine rialzandosi in piedi, e venendo verso di me ridendo, mi dissi che in una scena così, in un luogo così, in una notte così doveva esserci una verità raccontata. Fatto sta che quella sera tornai a casa con un minimo di solletico nel cuore. Presi fuori il primo foglio che trovai. Buttai giù il racconto del mio amico che finge la disperazione sul seggiolino di una giostra a catene e mi dissi che dovevo una buona volta raccontare, di luoghi come quello in cui stava la giostra di quella notte, non solo la superficie solatìa, ma anche il lato pustèrno. Registrai lo sguardo, e cominciò così l’avventura del Duca».

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Un brano estratto dal romanzo “Il Duca” di Matteo Melchiorre (Einaudi)

Il buio, veloce come può essere sul finire di ottobre, quando uscii dal bar era intanto già calato. Una bavesèla di vento, che soffiava dalla Montagna, portava in qua nel silenzio botte secche di capre impuntate, che si fecero sempre piú nette finché incontrai quel cimento di corna e crani in un angolo della piazza. Le capre erano due, una bianca e una bruna: prendevano corsa alzandosi sulle zampe posteriori per quindi sferrarsi, tronfie e spietate, il colpo reciproco.
Eccole qua, mi dissi, le consacratissime bestie di don Attilio, da quest’ultimo battezzate coi nomi prelibati di Palestina e Galilea. Ma non si pensi, per questo, che le due capre del nostro pastore siano unicamente un vezzo di gusto biblico. Servono a don Attilio, infatti, per tenere pulita la riva della canonica, un prato in piedi, secco e scomodo, buono appunto soltanto per le capre. Sennonché questa Palestina e questa Galilea fuoriescono spesso e volentieri dal loro getsemani e girano esuli attraverso il paese, sollevando con ciò qualche sussurrata protesta nei confronti della loro gestione, giudicata dai piú troppo liberale e tollerante.
Sentendo i miei passi, Palestina, la capra bianca, disincagliò le proprie corna da quelle di Galilea, la capra bruna, e fuggí via in direzione della canonica. Galilea rimase stupefatta da quell’improvvisa vigliaccheria, dopodiché, quando io fui salito in macchina e partii, si mise nella mia scia e mi rincorse insensatamente per un buon tratto. Abbandonò l’inseguimento solo allorché imboccai la strada tutta in salita che dal paese porta in villa.
Ricordo che quella sera mi fermai sul parapetto della corte a guardare il panorama notturno. Vallorgàna, ai piedi del dorso prativo a metà del quale sta la villa dei miei avi, era come un’isola appena illuminata. Per il resto, uniformemente, solo buio. Era buia la campagna intorno al paese. Era buia la Val Fonda, un lunghissimo fiordo che si spinge, da Vallorgàna, verso il mondo aperto. Era buio il greto di sassi nel quale scorre la poca acqua del torrente Fragolfo, che nel corso delle ere ha scavato appunto la Val Fonda. Anche il cielo, va da sé, era buio, poiché non si vedeva una stella. Soltanto laddove sapevo che la Val Fonda andava infine riversandosi nella Piana, potevo scorgere un bagliore aranciato che montava nel cielo; un bagliore piú denso e piú vivo, quasi sul limite del contemplabile, in corrispondenza del respiro luminoso, per fortuna assai lontano, in un altro mondo, della città di Berua.
Ma il buio piú spesso stava come sempre alle mie spalle, dietro alla villa, dove la massa incombente e nerissima della Montagna veniva su di colpo fra costoni e versanti. Vasta e leggermente concava, boscosa, porta di altre montagne via via piú acute e piú aspre fino a diventare unicamente roccia, questa montagna che si chiama la Montagna, come fosse l’unica possibile montagna, per noi di Vallorgàna è una presenza ineludibile; tant’è che anche di notte non solo la si avverte, ma si continua a vederla, poiché è capace di un buio denso, profondo, centripeto, che la scolpisce piú nera nel circostante buio.
A ogni modo, allorché il mondo si trovi immerso in questi abissi oscuri, la villa dei miei avi, all’opposto della Montagna, trattiene invece una sua fievole fosforescenza, che la rende non troppo diversa da una roccia nuda, spoglia, biancastra. E parrebbe davvero pura roccia se non fosse prodotta da un pensiero matematico, rigoroso: il portale ad arco giusto al centro della facciata; le trifore perfettamente allineate; gli spigoli netti; le finestre ottimamente cadenzate; il timpano svettante; e infine, accanto al timpano medesimo, i due camini, altissimi, affusolati come guglie.
Dopo che trascorsi nel buio della corte poco meno di una mezz’ora, sentii un rumore oltre la corte, in fondo al prato, tra le siepi dei noccioli. Poteva essere un capriolo, poteva essere un tasso, una volpe, o forse il vento, o forse niente. Mi parve tuttavia che nel prato si muovessero delle ombre, che sul colmo del timpano sbandierasse uno straccio, che all’interno della villa, nel salone al primo piano, vi fossero occhi bene aperti.

(Riproduzione riservata)

© 2022 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino
Pubblicato in accordo con Grandi & Associati, Milano

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La scheda del libro: “Il Duca” di Matteo Melchiorre (Einaudi)

L’ultimo erede di una dinastia decaduta, i Cimamonte, si è ritirato a vivere nella villa da sempre appartenuta alla sua famiglia. La tenuta giganteggia su Vallorgàna, un piccolo e isolato paese di montagna. Il mondo intorno, il mondo di oggi, nel quale le nobili dinastie non importano piú a nessuno, sembra distante. L’ultimo dei Cimamonte è un giovane uomo solitario che in paese chiamano scherzosamente «il Duca». Sospeso tra l’incredibile potere del luogo, il carico dei lavori manuali e le vecchie carte di famiglia si ritrova via via in una quiete paradossale, dorata, fuori dal tempo. Finché un giorno bussa alla sua porta Nelso, appena sceso dalla montagna. È lui a portargli la notizia: nei boschi della Val Fonda gli stanno rubando seicento quintali di legname. Inaspettatamente, risvegliato dalla smania del possesso, il sangue dei Cimamonte prende a ribollire. Ci sono libri che fin dalle prime righe fanno precipitare il lettore in un mondo mai visto prima. L’abilità dell’autore sta nel mimetizzarsi tra le pieghe della storia, e fare in modo che abitare accanto ai personaggi risulti un gesto tanto istintivo quanto inevitabile. È quello che accade leggendo Il Duca, un romanzo classico eppure nuovissimo, epico e politico, torrenziale e filosofico, che invita a riflettere sulla libertà delle scelte e la forza irresistibile del passato. Con una voce colta e insieme divertita, sinuosa e ipnotica – inusuale nel panorama letterario nostrano – Matteo Melchiorre mette a punto un congegno narrativo dal quale è impossibile staccarsi.

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