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I MALARAZZA di Ugo Barbàra (Rizzoli) – recensione

novembre 30, 2023

I Malarazza - Ugo Barbàra - copertina“I Malarazza” di Ugo Barbàra (Rizzoli)

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I nuovi leoni di Barbàra sono malarazza

di Gianni Bonina

Con I Malarazza (Rizzoli) il siciliano Ugo Barbàra ha creato il contraltare a I Leoni di Sicilia della conterranea Stefania Auci e si prepara sicuramente a completare l’opera con un seguito, così come l’autrice trapanese ha fatto con L’inverno dei leoni. Alla saga storica dei Florio romanzata, Barbàra ha risposto con un’altra saga ispirata a fatti veri e della stessa epoca, quella dei Montalto, ma essenzialmente romanzesca. E sebbene la parabola dei Florio la incroci a distanza, qui e là richiamata dall’autore palermitano, le vicende delle due casate si snodano, sia pure nello stesso clima politico e socio-economico nonché occupando entrambe posizioni borghesi e non aristocratiche, con rivolgimenti molto diversi: i Florio di origini calabresi non lasciano Palermo mentre i Montalto nativi di Castellammare del Golfo vanno via dalla Sicilia per fare fortuna negli Stati Uniti. Una fortuna figlia del malaffare, spregiudicati e avidi fino all’ingordigia essendo sia Antonio Montalto (nella Guerra di Secessione trafficante di armi con i confederali e apparentemente entusiasta unionista, dopo aver guadagnato indebita fama di fervente sostenitore e amico di Garibaldi) che la moglie Rosaria Battaglia (usuraia e abile donna d’affari sans merci) ai quali prima arride la sorte nella parte ascendente della loro vita e poi arriva la rovina in quella calante, ma non per volontà del fato avverso o per i mutamenti degli scenari mercantili, com’è per i Florio, quanto per una forma di hybris che colpisce l’intera famiglia punendo le colpe del capofamiglia e di riflesso della irrequieta moglie.
Facile dunque il richiamo dei Malarazza, già nell’epiteto, ai Malavoglia di Verga e allo spirito tutto siciliano della “roba” che quanta più si accumula tanta più si perde, entro il quale riverbera anche il tramonto della nobile genia de Il Gattopardo, echi del quale romanzo si colgono nel grande ricevimento per l’inaugurazione della banca, durante il quale don Antonio muore in un amor fati che ricorda la fine del principe Salina, come anche nella figura del tenente Badaracchi, nel sembiante del cavaliere Chevalley, a colloquio con Montalto sui mali della Sicilia.
Senonché, a ben vedere, Barbàra evoca nel suo mondo letterario i calchi del romanzo siciliano di genere, dal Marchese di Roccaverdina di Capuana quanto alla tresca tra padrone e serva che genera un figlio illegittimo a Il bell’Antonio di Brancati nel glamour che circonfonde Antonio Montalto, da I Viceré di De Roberto nelle vicissitudini interne di una famiglia e nella loro scalata economica a Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa nell’idea che “non c’è migliore sistema per conservare il potere che mantenere il caos”, da Sette e mezzo di Giuseppe Maggiore per la contestualità topografica e temporale, Palermo e i fatti del 1860, a I giovani e i vecchi di Pirandello, anch’esso romanzo storico di tipo manzoniano che integra “un misto di invenzione e realtà”. Ma in certe atmosfere, a chiudere un largo cerchio siciliano, balugina anche Andrea Camilleri con la sua dottrina del doppio: basti la scena del pescatore Saverio che ad Antonio Montalto dice di non essere sicuro di volere sapere la verità su quanto ha fatto il figlio e perciò non gliela chiede.
Di Camilleri, pensando a Pirandello, c’è anche il gioco dell’agnizione e dello “sfaglio” nel riconoscimento del figlio in un povero pescatore come nell’incontro finale di un ragazzo e una ragazza che ancora non sanno di essere fratelli, elemento questo che probabilmente costituirà il fondo di ripartenza del sequel. E che un nuovo romanzo sia del tutto prevedibile rileva dagli enigmatici e avulsi prologo ed epilogo, dove il tempo della narrazione è portato al 1990, oltre un secolo avanti e dopo fatti che non conosciamo e che vengono richiamati in prima persona da Anthony Scudera, discendente ultimo di Nicola il pescatore poi capitano dell’Esercito unionista e quindi trafficante internazionale di reperti antichi. L’io narrante, in antitesi con la terza persona usata dal narratore onnisciente che è l’autore, cita il “fatto di Maple Road”, del tutto ignoto al lettore e capitato diciassette anni prima, e del proposito di fare uscire da avvocato il padre dal carcere per portarlo con sé benché colpevole di uxoricidio. “Sono l’ultimo frutto del seme piantato da Antonio Montalto – chiude il romanzo. – E quella che vi racconto è la storia della nostra malarazza”. C’è dunque un annuncio esplicito: fondato sulla supposizione che restino cento anni da narrare, protagonisti iniziali i figli di casa Montalto e Rizzo (un fattore divenuto signore alla Sedara), cento anni che potrebbero perché no essere spalmati in più volumi a formare perlomeno una trilogia e che nel tempo avranno per teatro nuovamente New York dal momento che l’io narrante del primo titolo scrive da Long Island.

Image from LETTERATITUDINE (di Massimo Maugeri)

Litlle Italy agli inizi del 900

Intanto questo primo volume. Sin dall’epigrafe sulla copertina (“Conquiste e cadute di una famiglia maledetta dalla propria ambizione”) e da quella in apertura del testo, una citazione dell’Ulysses del poeta inglese Alfred Tennyson (che designa “una tempra di eroici cuori, sempre la stessa: affraliti dal tempo e dal fato, ma duri sempre in lottare e cercare e trovare né cedere mai”), il romanzo si costituisce come un’opera in nero di una prometeica sfida al proprio destino nella febbrile ricerca di una felicità unicamente materiale. Antonio Montalto fa parte di quella schiera di siciliani intraprendenti e di bello spirito che non amano il sonno lampedusano, un po’ sognatori ed idealisti, un po’ opportunisti e speculatori, contrapposti alle anime dolenti dei siciliani rassegnati e oppressi che popolano, in un tout de même con gli intrallazzatori e i padroni dei feudi, il mondo immoto di Verga: senza però separazione di ceto e censo, perché il giovane Antonio è amico fraterno di un villano addetto alle sue terre con il quale un giorno stabilirà – ancora di più la moglie vedova – rapporti paritari di affari entro una mesaillance di tipo etnico che appare insieme la pietra di scandalo e il giro di volta. Antonio non emigra ma fugge a New York dopo essere finito nel mirino dei borbonici e convince la moglie a seguirlo benché del tutto contraria. Negli Usa lo precede la nomea di eroe garibaldino che sfrutta come trampolino di lancio nella società d’oltreoceano non per agitare il vessillo della libertà ma per inalberare l’insegna di imprenditore. Ed ha successo, ciò che basta per ammorbidire la moglie che dal canto suo intraprende la stessa via con altrettanta fortuna. Ambiziosissimi e venalissimi entrambi, affettano un atteggiamento di solidarietà nazionale con gli immigrati italiani ma nulla fanno che non sia inteso a creare nuovi profitti.
Attorno a loro si muovono figure che recedono di fronte alla loro preponderanza: l’orfanella Bianca, da un’avventatezza della quale il romanzo prende le mosse; il timorato Nicola Scudera, che assurgerà a coprotagonista in vicende fatte per rendere rocambolesca e avventurosa la sua formazione; lo spietato Rocco Trupiano, della torva famiglia degli “Scippatesti”, che parla solo dialetto e che in America sbarca col solo proposito di uccidere Nicola (l’omicida del fratello Bartolo il quale aveva provato a violentare Bianca), ma poi destinato a conoscere una nuova dimensione della vita; il massaro Vincenzo Rizzo, fedele servitore della stessa natura di Antonio Montalto, come lui e più di lui dotato di un grande fiuto per gli affari.
Tutti i personaggi sono legati da un fil rouge che decide le loro sorti e che è l’amore, elemento posto a fare da mezzo di contrasto spirituale alla cupidigia più materialistica propria della condizione generale. L’amore permea il romanzo come una linfa vitale e sotterranea capace di innestare nuovi cuori nelle coscienze di tutti, ma anche sostanze tossiche: Antonio, prima innamorato della cugina, poi incapricciato con Rita, quindi marito di Rosaria, per amore o un suo surrogato si unisce con Vinzia, una “Lupa” verghiana che gli dà un secondo figlio illegittimo e che ricerca l’amore fisico nella più miserabile perdizione; Nicola, innamorato non corrisposto di Bianca, se ne allontana quando può starle vicino e si lega per amore ad una ragazza americana per poi coronare il suo sogno; Rocco Trupiano, incapace di provare sentimenti che non siano di odio, viene proprio dall’amore indotto a rinunciare ai suoi programmi omicidi per vivere una vita che però non basterà a redimerlo del tutto; infine Rosaria Battaglia, forse il personaggio più riuscito, sinopia di una Franca Florio elevata a potenza di spirito di iniziativa e ingegnosità, il solo a non venire intaccato dall’amore se non filiale, tanto da affrontare la morte improvvisa del marito, nel pieno di un gala, preoccupandosi solo di salvare le apparenze e la festa.
Ma se l’amore è la benzina nel motore, il senso dell’avventura, la preminenza dell’ambientazione in esterni e dei vasti spazi americani, è l’olio che lo fa girare. Il romanzo si distingue anche in questo dai “Leoni” della Auci, giacché lascia i salotti e il chiuso delle dimore gentilizie per aprirsi ai teatri di guerra, alle traversate oceaniche, ai dedali del Lower East Side, ai traffici notturni per mare, alle campagne dell’entroterra siciliano, alle variazioni geografiche di scena. Recede Pirandello e avanza Verga a favore di un traitment che pure è estraneo alla tradizione letteraria innanzitutto siciliana e che fa di Barbàra un innovatore per nulla preoccupato di tenersi sul solco mainstream.

Ugo Barbàra

In questa chiave, la sua Sicilia appare una variabile distorsiva che rivolve il modello storico della classe siciliana dominante fatta dalle sole élites aristocratiche e del potere in mano ai ceti borghesi consolidati ed equiparati a quelle, perché Antonio Montalto parte da una posizione di proprietario terriero indebitato e in disfavore, tanto da suscitare ilarità quando al circolo dei galantuomini si propone di acquistare un brigantino. Di qui il nerbo di un romanzo di formazione sui generis che vede crescere insieme con Antonio gran parte delle figure comprimarie nel verso di una controstoria che è anche letteraria, un romanzo di formazione compreso in quanto dice Rosaria Battaglia ai figli: “Non dobbiamo dimenticare da dove veniamo perché è da lì che deriva quello che siamo”. Un passo decisivo quasi a conclusione di una saga che si serve di uno stile narrativo – anche questo un elemento di variazione – forte di un criterio di scambio frenetico tra i tempi della narrazione e quelli della scrittura, per modo che l’autore anticipa esiti di rivolgimenti diegetici che poi riprende tornando sui suoi passi per narrarli: in questo modo fa del romanzo storico nel genere della saga una struttura non più fondata su un rigoroso svolgimento cronologico di tipo ottocentesco ma un portato di carattere diacronico e moderno che assume un ritmo di prolessi e analessi da vedere come un fatto nuovo.

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La scheda del libro: “I Malarazza” di Ugo Barbàra (Rizzoli)

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I Malarazza segue la scalata di un’eccezionale famiglia alle prese con gli stravolgimenti della Storia e con la maledizione che si abbatte su chi non si accontenta di un presente in sordina.

Castellammare del Golfo, 1860. Mentre Garibaldi si prepara a sbarcare in Sicilia, Antonio Montalto ha un’intuizione: cedere parte delle terre che hanno fatto la fortuna della sua famiglia – che da sempre produce olio e vino – in cambio di un piccolo veliero. Al paese intero pare un folle ma a lui non interessa; ha capito prima di tutti dove sta soffiando il vento del cambiamento e non può restare a guardare. Sa che se vuole realizzare le proprie ambizioni deve staccarsi dalla terra dei padri per guardare oltreoceano. Inizia così l’avventura dei Montalto che, tra l’arsura di Castellammare e il fragore di New York, incroceranno la grande Storia e daranno vita a un impero fondato sulle imprese visionarie di Antonio, ma soprattutto sulla caparbietà della moglie Rosaria, capace di gettare le basi per un progetto che travalica il loro tempo: la creazione di una banca americana con una presidente donna. Intorno a loro e ai sei figli, una schiera di figure memorabili, tra cui la giovane Bianca che, lasciata la sua esistenza siciliana per seguire la padrona Rosaria, si rifà una vita come speziale nella città americana. E Nicola, suo segreto amore, che scopre come i fantasmi possano inseguirlo anche di là dal mare. Con voce magistrale, Ugo Barbàra dà vita a una narrazione portentosa, cesellando in un ritmo incalzante una vicenda che ha in sé gli ingredienti di ogni grande romanzo: personaggi umanissimi, amori e destini da sovvertire.

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Ugo Barbàra (1969) è scrittore, giornalista e sceneggiatore. Ha scritto, tra gli altri, In terra consacrata (Piemme, 2009), candidato al Premio Strega, e Le mani sugli occhi (Piemme, 2011) candidato al Premio Scerbanenco. Questo è il suo primo romanzo per Rizzoli.

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