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IL SOGNO DELLA LETTERATURA, di Daniela Marcheschi

ottobre 22, 2012

Il sogno della letteratura. Luoghi, maestri, tradizioni
di Daniela Marcheschi
Gaffi editore, 2012 – pagg. 303 – euro 14,90

Il sogno della letteratura. Luoghi, maestri, tradizioniCosa succede quando la critica fraintende o contraddice la propria vocazione? È possibile recuperare nel metodo la comprensione di un vero e proprio ecosistema della conoscenza? Quali sono le patologie che affliggono la critica? Che cosa c’è nel “sogno” della letteratura, in quel territorio affollato di visioni che ci ha dato insieme Don Chisciotte e Emma Bovary? E quand’è che il sogno si trasforma in responsabilità? A queste e ad altre domande affascinanti cerca di rispondere il libro di Daniela Marcheschi, guidandoci attraverso le circostanze della grande storia letteraria, attraverso le tradizioni e le geografie culturali che via via si sovrappongono o si separano davanti agli occhi dell’interprete. Perché il critico deve sapere che la tradizione non coincide con la storia, e che il metodo, in quanto compresenza di elementi in equilibrio (visione, etica, gusto, conoscenza, stile…), richiede innanzitutto una “schietta intimità con la vita”, cioè una capacità di comunione con l’esistenza che, sola, può prepararci alle sfide intellettuali che coinvolgono il nostro passato e il nostro presente. La letteratura, ci avverte Daniela Marcheschi, “è come la mitica Atalanta che, più corre, più si adorna di bellezza e diventa imprendibile. Avviamoci allora a considerare noi stessi degli Ippomene fortunati, se qualche volta, prima che fugga di nuovo, riusciremo a trattenerla per un po’ “.

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In esclusiva per Letteratitudine, il capitolo intitolato “Il sogno del lettore” (tratto dalla omonima sezione del libro “Il sogno della letteratura”)


IL SOGNO DEL LETTORE di Daniela Marcheschi (nella foto)

Il sogno è lo strisciare dell’essere umano dentro il proprio spirito, ovvero dentro la coscienza chiara e distinta di sé; uno strisciare attraverso le immagini oniriche ordinate in sequenze, i cui simboli sono vita e cultura distillate e trasformate perché noi ne facciamo di nuovo pensiero, e di nuovo vita. Ciò accade nel momento in cui ricordiamo e rinarriamo il sogno, ci interroghiamo su di esso, poniamo i suoi significati a elemento ordinatore di serie di successioni e iterazioni (direbbe Einstein), cioè di riflessioni. In breve, quando l’avventura retorica delle libere associazioni si muta in un’esperienza di conoscenza, di verità nell’accezione antica del termine: faticosa acquisizione di valori autentici, intimi e indimenticabili.
Che il sogno non possa così essere considerato una vacanza del pensiero lo sa bene il lettore: se il sogno non fosse la vita stessa, realtà anch’esso, un sentimento e un aspetto della realtà – di ciò che già esiste e di ciò che forse potrebbe esistere –, perché mai leggere la letteratura? L’essere umano, per la sua stessa condizione, il dato dell’umanesimo antropologico, cerca sempre una relazione vitale con la società, con l’ambiente sociale, il lavoro e il bene comune. Ha perciò bisogno di una «luce interiore», come diceva Swedenborg, per capire le cose di natura visibile e invisibile, per vedere lo splendore del cosmo di cui è parte.
Nel suo libro Alle origini del cosmo. Dialogo intorno ai misteri dell’uomo e dell’universo Edgar Morin osserva che abbiamo tutto l’universo fisico e biologico in noi, ma la nostra mente lo dimentica e divide, oppone…  Ecco, dovremmo proprio pensare che le cose sono congiunte, sono compresenti in un rapporto di coordinazione “e/e”: così abbiamo veglia e sonno, sogno a occhi  aperti e sogno nel sonno. E tutto – immaginazione e razionalità, sogni e pensiero logico – contribuisce a formare la nostra mente, ad alimentare quell’attenzione per una vita migliore che la letteratura e le altre arti inseguono senza posa.
D’altra parte il sogno, visione durante la notte, è narrativo per eccellenza. Narrare è della stessa base latina gnarus, “colui che sa”, “che ha cognizione”, e il sogno ha, porta conoscenza e comprensione delle cose, induce all’azione, apre al futuro, come accade per es. nel canto XIX dell’Odissea a Penelope, che agogna il ritorno del consorte e la cacciata dei Proci. Così noi leggiamo proprio anche per sentire e conoscere, per trovare e riconoscere finalmente chi sappia
dar voce ai nostri sogni, alle nostre aspettative profonde – quelle più nobili e grandi, che ci ricongiungono alla comunità degli esseri e che aprono nuove possibilità al mondo e di rapportarsi al mondo.
Se alla fine degli anni Settanta non fossi stata una giovane intellettuale delusa dal conformismo e dal clientelismo diffusi, convinta che la cultura dovesse radicalmente rifare i conti con l’etica, non sarei stata colpita dal romanzo Il giocatore invisibile di Giuseppe Pontiggia. Fu come un mutuo riconoscersi, un prendersi per mano e affrontare il dialogo e l’avventura della letteratura insieme ad uno scrittore che teneva vivo in sé, e non intendeva tradire, il sogno della letteratura.
Don Chisciotte è il prototipo del lettore e dei suoi sogni ad occhi aperti. Ama con tale trasporto la letteratura cavalleresca e i valori che essa propone da voler seguire le orme di Amadigi e da diventare pazzo, come tutti i cavalieri (avrebbe notato l’Ariosto). Nel capitolo trentacinquesimo della prima parte del suo romanzo, Cervantes lo mostra comicamente mentre sogna di combattere contro un gigante e, continuando a dormire, si alza seminudo dal letto, distrugge otri di vino creando lo sconquasso nell’osteria in cui si trova e che lui crede assurdamente un castello. Don Chisciotte vive sognando e sogna vivendo; per lui non conta la differenza fra veglia e sogno, semplicemente, sogna sempre ed è perciò una specie di paradosso vivente. È tanta la sua grandezza da diventare ridicolo, ma è la nobiltà di cuore, la passione, la volontà di riscattare, con le sue nobili imprese, la meschinità del mondo a conquistarci. Vogliamo Don Chisciotte, quel suo mondo fantastico, quei suoi sogni in un mondo meschino di uomini piccoli. Quando sta morendo, rinsavito, Sancho Panza lo prega: preferirebbe averlo vivo, come prima ostaggio dei sogni, perché gli è affezionato nella pazzia e per la sua pazzia. E della pazzia delle utopie gli esseri umani hanno bisogno, ancora una volta, per la loro condizione  antropologica, che è fatta di memoria del passato, percezione del presente, attesa e costruzione, progetto del futuro.
Che cosa avrebbe fatto Dante senza il sogno-visione di Beatrice fra le braccia di  Amore, nel capitolo III della Vita Nova? E Freud avrebbe coltivato il sogno della psicanalisi di decifrare i sogni, come si fa con i geroglifici, senza leggere le letterature classiche?
Il contraltare di Don Chisciotte è Emma Bovary, che ha la testa piena zeppa di  fantasticherie amorose, di sogni di evasione, cioè della letteratura romantica, sentimentaleggiante, che ha letto in convento. Una pessima letteratura ha influenzato una giovane donna, mediocre. Quelli di Emma sono i sogni di un io ipertrofico, egocentrico, incapace di guardare al mondo nella sua complessità, e per questo Mme Bovary lamenta la pochezza, l’inadeguatezza del marito Charles rispetto ai propri sogni romanzeschi di felicità. In realtà, Charles l’ama e morirà presto dopo il suicidio dell’infelice moglie, che è stata l’amante di uomini diversamente dappoco.
Emma, perduta nell’astrattezza delle sue fantasie, non ha mai scoperto questo  aspetto del marito, il suo amore comunque vero e profondo; e la sua vita resta incompiuta e amara, perché i suoi sogni si sono romanticamente opposti al quotidiano senza riuscire a farsi pensiero, esperienza, conoscenza del reale e delle persone a lei vicine.
Può essere utile ricordare che, contro quello stesso tipo di letteratura deteriore  che aveva diseducato anche Emma, e proprio negli anni in cui Flaubert stava scrivendo Madame Bovary, usciva in Italia, nel giornale «L’Arte» del 2 febbraio 1853, l’articolo Leontina ovvero necrologia d’un nome di Carlo Collodi. Si trattava di una impietosa stroncatura di Leontina, o Un quadro dei nostri tempi, «racconto» dell’avvocato Ermanno Salucci, in cui Collodi faceva una satira feroce dell’amore romantico e dei suoi luoghi comuni entro la narrativa del tempo: fra gli altri l’educazione elevata dell’eroina, pronta ad affidare alla musica e al piano i suoi tormenti e le sue malinconie, l’amore sospiroso mescolato agli slanci di devozione. Come dimenticare che Emma suona per l’appunto il piano, sogna grandi passioni e nella frustrazione ha impeti, altrettanto fantastici e superficiali, di fede?

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Il sogno della letteratura è la sintesi di una lezione, dallo stesso titolo, tenuta al Salone del Libro di Torino. Con i titoli di No al bovarismo, meglio l’etica invisibile di Pontiggia e Gli scrittori tradiscono  il sogno della letteratura è stata suddivisa in due parti apparse in «Bookmark. Il Riformista», rispettivamente 18 maggio 2005 e 3 giugno 2005.

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Daniela Marcheschi è nata a Lucca, dove risiede abitualmente. Studiosa e critico, è autrice di diversi volumi e saggi sulla poesia e sulla narrativa italiana e scandinava. Nel 1996 ha ricevuto un Rockefeller Award per la Letteratura (Critica e Poesia) e nel 2006 è stata insignita del Tolkningspris dall’Accademia di Svezia. È la curatrice dei Meridiani Mondadori dedicati a Giuseppe Pontiggia e a Carlo Collodi.

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