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VENGA PURE LA FINE, di Roberto Riccardi (le prime pagine del libro)

novembre 7, 2013

In esclusiva per Letteratitudine, pubblichiamo le prime pagine del romanzo “VENGA PURE LA FINE” di Roberto Riccardi (edizioni e/o, collezione Sabot/age)

Il libro
Al tenente dei carabinieri Rocco Liguori arriva inatteso un ordine del Comando Generale: dovrà recarsi all’Aia, a disposizione del Tribunale internazionale per la ex Jugoslavia. Il colonnello Dragojevic, condannato per la strage di Srebrenica, caduto di recente in depressione, è in coma per aver ingerito una massiccia dose di farmaci. Il procuratore Silvia Loconte, non credendo al tentato suicidio, chiama a indagare Liguori, che sette anni prima in Bosnia aveva arrestato Dragojevic. L’indagine lo riporta indietro nel tempo, facendogli ritrovare anche Jacqueline, la giovane funzionaria della Croce Rossa con cui aveva intrecciato una storia d’amore mai risolta. Liguori dovrà misurarsi ancora una volta con le trame più oscure e gli intrighi degli ambienti coinvolti nella guerra. Sullo sfondo la politica, con le sue vecchie figure e le nuove alleanze. Con i suoi retroscena difficili da decifrare, celati dietro l’eterna maschera delle versioni ufficiali.

* * *

1.
Bosnia-Erzegovina, 1995

Rumori, dal fitto della boscaglia. Samira volge di scatto
gli occhi al suo compagno, nel suo sguardo c’è una ri –
chiesta di aiuto. Lei e Sefer sono le staffette avanzate
della banda di irregolari che ha osato sfidare il temibile esercito
serbo. Una follia, l’aveva detto dal primo momento. Trenta soldati
improvvisati, male armati, contro un intero reggimento
attestato a difesa. Un attacco suicida. Li hanno fatti a pezzi,
sono rimasti in sette. Due di loro sono feriti, Ismet non arriverà
alla notte. La sera allunga la sua ombra nel cielo e col buio
aumenterà la paura. Quella che già adesso le attanaglia la gola.
Samira sente il pericolo nel fruscio sottile delle foglie. Sarebbe
bello che a muoverle fosse il vento del Nord, anche se tante
volte lo ha maledetto, quando all’alba usciva di casa e la sua
sferza impetuosa le gelava il sangue. Sarebbe bello se tornasse
quel tempo, quando la vita era lavoro duro, la mattina a scuola
e il pomeriggio ad aiutare la mamma nelle faccende di casa.
Ma Samira una casa non ce l’ha più. L’ha barattata con un
fucile e due scarponi incrostati di fango, per un uomo che l’ha
trascinata in una lotta disperata, a perseguire un obiettivo
privo di senso. Non ci saranno vincitori, alla fine di quel dolore
avranno perso tutti. I pochi che scamperanno alla mitraglia, ai
cecchini, alle mine disseminate nei campi, riceveranno in
premio un Paese dilaniato, dove nulla sarà più come prima.
Croati, serbi, bosniaci musulmani, quando il massacro si sarà
fermato resteranno nemici. Nei pensieri della gente, nelle
anime ferite la guerra non finirà. Prima erano tutti mescolati:
in seno ai villaggi, alle famiglie nate senza badare troppo alle
origini. Era il komšiluk, il codice non scritto della reciproca
tol leranza. Dopo, sarà tutto un guardarsi con rancore. «Il tuo
esercito bastardo ha ucciso mia madre». «Brutta puttana, cosa
vuoi? Sono stati i tuoi a incominciare». Saranno questi i di –
scorsi fra chi si era giurato eterno amore, se qualcuno avrà
ancora voglia di parlare.
Ma Samira non vedrà tutto questo, perché nel bosco avanza
la milizia del colonnello Dragojevic´, il macellaio venuto da
Gracˇa nica. L’uomo che conduce la pulizia etnica in quell’angolo
di Bosnia. Non avrebbero dovuto affrontarlo, sono condannati,
nessuno di loro sfuggirà a quegli uomini addestrati a
scovare i nemici nel cuore della foresta. Li sente più vicini,
adesso, tanto da fiutarne l’odore. Per Sefer è lo stesso, glielo
legge negli occhi.
«Cosa facciamo?» chiede.
«Non parlare, potrebbero sentirci».
Il suo compagno ha ragione. Hanno bisbigliato, ma nel
silenzio di un bosco fa rumore anche il respiro. Samira però
non sa tacere.
«Non vedo più gli altri. Forse dovremmo…».
«Tornare indietro? Fallo tu se vuoi. Io non muovo più un
passo».
Sefer scuote la testa, è fuori di sé. Nello scontro appena
avvenuto è caduto l’ultimo dei suoi fratelli. Il grosso della famiglia
si era dissolto nell’attacco al villaggio, ingoiato da una fossa
comune. Samira non riuscirà a calmarlo e lo sa, ma deve provarci.
«Cosa vuoi fare, aspettarli? Pensi che quell’albero ti riparerà
dai loro proiettili?».
Ha alzato appena il tono di voce. Basta quel tanto e il re –
siduo equilibrio del suo compagno va a perdersi chissà dove. Il
ragazzo cresciuto in una storia più grande di lui si lancia nel
fitto della boscaglia senza pensare a niente. Prima della guerra
tagliava la legna, come suo padre e suo nonno. Era in gamba,
con un colpo di scure buttava giù un piccolo fusto. La sua abilità
non gli servirà a strappare alla morte un solo minuto.
Samira lo vede sparire fra gli alberi, una corsa disperata che
porterà solo a farli scoprire, ma tanto la loro fuga non sarebbe
durata. Anche senza sentire i colpi lei sa che il suo Sefer, che in
una sera lontana le rubò il primo bacio e sparì per lasciare il
posto a un nuovo amore, se n’è andato per sempre. È in un
altrove sconosciuto, dove forse non ci sono i fucili. Magari avrà
raggiunto i suoi genitori, le sorelle di cui era così geloso. Che
la sua anima trovi pace, pensa la donna mentre l’incubo della
guerra si avvicina di nuovo. È tanfo di sudore, odore di polvere
da sparo, è clangore di metallo.
«Getta le armi, sei circondata!».
D’istinto compie il gesto contrario. Arma l’otturatore e si
accuccia, pronta ad aprire il fuoco per l’ultima volta. La voce
dell’uomo si fa più dura.
«Non ci provare. Sei sola, i tuoi compagni li abbiamo già
presi».
I soliti espedienti. È una gara di nervi, sanno che è stanca e
disperata. Stanno bluffando per metterle paura. Oppure no.
«Avanti, Samira, vieni fuori. È sciocco morire così».
Non è un trucco. L’hanno chiamata per nome, segno che
qualcuno ha parlato. È vero, gli altri sono stati catturati, hanno
già iniziato a torturarli. Toccherà pure a lei e non ha senso
arrendersi, meglio morire subito con un’arma in mano. Ma
ventinove anni di vita gridano altro. Le urlano di aggrapparsi a
una labile illusione di sopravvivenza. Alla sua età si spera
sempre che ci sia un domani, che sia migliore.
Samira getta il fucile. Forse pensa ai bambini che ha affidato
ai nonni prima di abbracciare la guerriglia, forse vuol solo
vivere un attimo in più. Il colonnello Dragojevic´ sorride, un
ghigno beffardo che mette i brividi.
«Sei bella, donna musulmana. Me l’avevano detto, ma non
credevo lo fossi fino a qusto punto. Oggi è stata una buona
giornata».
La spingono lungo il sentiero nella boscaglia, poi a forza su
una camionetta. Un percorso a ritroso che la riporta all’accampamento
serbo preso d’assalto dal suo gruppo. È co me le
hanno detto, i suoi compagni sono tutti prigionieri. Mancano
Ismet e Sefer, non è difficile capire perché.
L’ufficiale sparisce dietro la tenda più grande, dev’essere il
suo quartier generale. Ora a occuparsi di lei è un giovane senza
insegne sulla divisa. È il capitano Paskaljevic´, il braccio destro
del colonnello, ma non spreca il fiato a presentarsi. Un istante
più tardi Samira si ritrova nel gruppo dei suoi.
«Ti hanno fatto del male?». La voce del compagno è impastata
di terrore. Era il leader di quel manipolo improvvisato,
ora è solo un giovane uomo tremante. Forse avrebbe diritto a
un’altra possibilità, ma il destino se ne frega e gli lascia al più
qualche ora. Anche lui ha figli, sta pensando a loro. La moglie
è morta a Sarajevo nel massacro del mercato, era andata in città
a trovare i genitori. Doveva restarci una settimana, poi è iniziato
l’assedio ed è rimasta intrappolata in quella immensa
gabbia di fuoco e metallo, che alla fine l’ha uccisa.
Samira non risponde alla domanda. Sta osservando l’ufficiale
serbo che, fermo a qualche metro, impartisce ordini ai
suoi uomini con un’espressione feroce sul volto.
«Tramano qualcosa» dice al suo capo, che si volta a fissarla.
Nell’occhiata che si scambiano ci sono impotenza, dolore,
inutile affetto. Poi qualcuno li afferra e li trascina in una
radura vicina, verso un poligono di tiro improvvisato. Sullo
sfondo non ci sono sagome e quello non è certo il momento di
fare addestramento. È fin troppo chiaro, il bersaglio saranno
loro.
Dalla fila dei prigionieri si leva un bisbigliare sommesso.
Samira non partecipa, ha la gola secca. Si concentra sui figli,
vuol morire con quella immagine impressa nel cuore. Pensando
a loro nell’ultimo istante, s’illude, potrà trovarli più
facilmente quando tutti saranno dall’altra parte. Ammesso che
sia vero, che l’aldilà non sia un abbaglio per imam e sacerdoti.
Un bel pretesto per combattere, la religione, funziona da
secoli. Scannarsi senza tregua in nome di una fede. Pensa che
beffa se Dio si è stancato di governare un mondo tanto assurdo
e si è trasferito altrove.
Dalle file dei serbi risate di scherno. «Preparatevi a morire»
dice una voce dal mucchio. Il capitano Paskaljevic´ lascia fare
per un po’. Ascolta i commenti dei suoi con un mezzo sorriso
sulle labbra, poi decide che ne hanno avuto abbastanza. Si
mette dietro la fila e, battendo un frustino, scandisce comandi
secchi a cui i soldati rispondono con precisione. È la fine,
ancora qualche secondo e Samira sarà cibo per vermi. Terra
alla terra, chissà se i carnefici si prenderanno la briga di seppellirli.
«Plotone, caricate!».
La ragazza sente tirare indietro gli otturatori, riempirsi le
canne dei fucili. È l’ultimo atto, quei proiettili usciranno per
conficcarsi nei loro corpi e poi sarà notte per sempre. Il soldato
che ha di fronte la guarda con aria triste, le mani contratte sulla
sua arma. È giovane, è la prima volta che partecipa a un’esecuzione.
Neanche per lui quello sarà un bel giorno.
Fra le labbra una muta preghiera. Dio non esiste, non è possibile
che stia lì a osservare un simile scempio senza far nulla,
eppure bisogna implorarlo. Se si è addormentato un urlo
profondo, dall’anima, potrebbe scuoterlo dal suo torpore. Ma
anche l’anima tace. In quel giorno che sa di pioggia e di morte
a gridare sono solo i carnefici.
«Mirate!».
I soldati sollevano i kalasˇnikov ad altezza d’uomo. Dalla fila
dei condannati un fruscio, uno dei compagni si sta pisciando
addosso. Samira evita di guardarlo per risparmiargli un vano
imbarazzo. La morte in faccia è una brutta bestia, difficile spiegarlo
a chi non l’ha provato.
Dai suoi ricordi di scuola riaffiora un dettaglio che credeva
rimosso. Tolstoj o Dostoevskij, chi dei due affrontò il plotone di
esecuzione e si salvò per un estremo atto di clemenza? Si sforza
di rammentarlo. Era Dostoevskij, adesso ne è sicura, e intanto i
proiettili non arrivano. Quei bastardi lo fanno apposta, la mandano
per le lunghe per godersi la loro agonia.
Invece no, la ragione è diversa. Dalla tenda si è affacciato il
macellaio di Gra cˇa nica. L’attesa serviva a farlo assistere all’apice
della sua vittoria. La fucilazione di cinque inermi, bella
gloria. Ma chi crede che le guerre si vincano col valore è uno
stolto, o uno che non le ha mai viste.
Gli occhi di Samira vanno dal colonnello Dragojevic´ all’ufficiale
che dirige il plotone d’esecuzione. Fra i due uomini
un’occhiata, poi il capitano solleva il frustino.
«Fuoco!».
Chiude gli occhi. Come sarà passare dalla luce al buio?
Forse se non guarda non sentirà nulla. Chissà se gli altri stanno
pensando la stessa cosa. Non li vede, può solo sentirli tremare,
ma perché quei maledetti colpi non partono? Vorrebbe stare
nel plotone per premere subito il grilletto, perché lo strazio
abbia fine.
Poi finalmente capisce. Invece degli spari alle sue orecchie
arriva una risata sguaiata. Ne aveva sentito parlare, non credeva
lo facessero davvero: le finte esecuzioni, una tortura disumana.
Gli otturatori scattano a vuoto. Samira e i suoi
compagni sono ancora vivi, eppure non appaiono sollevati. Le
armi dei serbi si sono abbassate, ma loro restano in balìa dell’odio
nemico.
Si guardano, uno del gruppo sembra invecchiato di colpo.
I suoi capelli si sono ingrigiti in pochi istanti, anche a vederlo
non si riesce a crederlo. Il colonnello Dragojevic´ si avvicina.
Aspetta, per parlare, di avere gli occhi di tutti fissi nei suoi, che
girano da un prigioniero all’altro come il tamburo di un
revolver nella roulette russa.
«Vi starete chiedendo perché non vi abbiamo uccisi. Per voi
abbiamo altri progetti, prima di andare all’inferno risponderete
a molte domande. Oggi stesso sarete trasferiti al campo di
concentramento di Omarska. Da quelle parti, dovete sapere, si
ottengono risposte molto sincere».

(Riproduzione riservata)

© Edizioni E/O

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Roberto Riccardi è colonnello dell’Arma e direttore della rivista Il Carabiniere. Ha lavorato per anni in Sicilia e Calabria e ha comandato la Sezione antidroga del Nucleo investigativo di Roma svolgendo indagini in campo internazionale. Ha esordito nel 2009 con Sono stato un numero (Giuntina) a cui è seguito il thriller Legame di sangue (Mondadori, 2009), il romanzo storico La foto sulla spiaggia (Giuntina, 2012) e il giallo I condannati (Giallo Mondadori, 2012). Per le Edizioni E/O è uscito nel 2012 Undercover.

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