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LA MIA LONDRA di Simonetta Agnello Hornby (le prime pagine)

luglio 28, 2014

Pubblichiamo le prime pagine del volume LA MIA LONDRA di Simonetta Agnello Hornby (Giunti)

La scheda del libro
Simonetta Agnello arriva sola a Londra nel settembre 1963 – a tre ore da Palermo, è in un altro mondo. La città le appare subito come un luogo di riti e di magie: la coda nella fila degli aliens al controllo passaporti; l’autostrada sopraelevata diventa un tappeto volante. La paura di non capire e di non essere accettata forza impietosa il passaggio dall’adolescenza alla maturità. Diventa Mrs. Hornby. Ha due figli. Tutta una vita come inglese e come siciliana. Ora Simonetta Agnello Hornby può riannodare i fili della memoria e accompagnare il lettore nei piccoli musei poco noti, a passeggio nei parchi, nella amatissima casa di Dulwich, nel fascinoso appartamento di Westminster, nella City e a Brixton, dove lei ha esercitato la professione di avvocato; al contempo, cattura l’anima della sua Londra, profondamente tollerante e democratica, che offre a gente di tutte le etnie la possibilità di lavorare.
Racconto di racconti e personalissima guida alla città, questo libro è un inno a una Londra che continua a crescere e cambiare: ogni marea del Tamigi porta qualcosa o qualcuno di nuovo per farci pensare e ripensare. Gioca in tal senso un ruolo formidabile la scoperta di Samuel Johnson, un intellettuale che vi arrivò a piedi, ventisettenne, alla ricerca di lavoro; compilò il primo dizionario inglese ed è considerato il padre dell’illuminismo inglese. Johnson appare negli studi che Tomasi di Lampedusa – ancora una volta il nodo fra Londra e Palermo – dedicò alla letteratura inglese, con un suo celebre adagio che qui suona motto esistenziale, filtro di nuova esperienza: ”Quando un uomo è stanco di Londra, è stanco anche di vivere”.

* * *

Le prime pagine di LA MIA LONDRA di Simonetta Agnello Hornby (Giunti)

Un omaggio a Samuel Johnson

The world is not yet exhausted: let me see something tomorrow
which I never saw before.

Il mondo non è ancora esaurito: fammi vedere domani
qualcosa che non avevo mai visto prima.
SAMUEL JOHNSON

Non saprei esprimere il mio amore per Londra meglio di Samuel
Johnson, il più famoso intellettuale inglese del Settecento,
che vi arrivò da una cittadina delle Midlands, Lichfield, alla
stessa età in cui io vi andai a vivere – ventisette anni – e vi rimase
fino alla morte. Il 20 settembre 1777 alle soglie dei settanta,
Johnson rispose al suo biografo James Boswell, un giovane avvocato
di Edimburgo, che gli chiedeva se avesse mai desiderato
lasciare Londra: No, Sir, when a man is tired of London, he is
tired of life; for there is in London all that life can afford. Sir, you
find no man, at all intellectual, who is willing to leave London.
«No, signore, quando un uomo è stanco di Londra, è stanco
anche di vivere; perché Londra offre tutto ciò che la vita può
offrire. Signore, non troverete un singolo uomo d’intelletto che
desideri lasciare Londra».
Per Johnson, Londra era il luogo in cui si impara costantemente
e si vive bene. Per Boswell, il luogo in cui si va per vedere ed
essere visti. Se fossero nostri contemporanei, Johnson camminerebbe
a grandi passi per la capitale lasciando vagare lo sguardo
dalla cima dello Shard, il grattacielo progettato da Renzo
Piano, all’immondizia sul marciapiede, alla ricerca di quanto
sfuggito al suo occhio l’ultima volta che era passato da quella
strada, mentre Boswell, che viveva in Scozia e trascorreva a
Londra soltanto un mese all’anno per scrivere la biografia di
Johnson, sarebbe occupatissimo a scattare foto, in particolare
selfies da mostrare agli amici.
Per godersi Londra non c’è infatti alcun bisogno di essere
un intellettuale, basta avere una mente aperta e curiosa. L’idea
di Johnson è che qualsiasi cosa può suscitare interesse e stimolare
l’intelletto, e dunque impedire il ristagnare, o l’evaporare,
della riserva di curiosità naturale di un individuo. Osservare
Londra e i suoi abitanti porta alla scoperta di piccole gemme
segrete, che si offrono soltanto a chi sa cercarle e che mi hanno
permesso di godere al massimo della mia città di adozione e di
aumentare il godimento della vita in generale.

* * *

parte prima
Un’aliena a Londra

1
Una mesta partenza

While grief is fresh, every attempt to divert only irritates.
You must wait till grief be digested, and then amusement
will dissipate the remains of it.
Quando il dolore è recente, qualsiasi tentativo di distrarsi
è solo irritante. Bisogna aspettare che il dolore sia digerito,
a quel punto il divertimento dissiperà quel che ne rimane.
SAMUEL JOHNSON

Erano le quattro di un mattino di settembre del 1963. L’aeroporto
di Punta Raisi, inaugurato pochi mesi prima, sembrava
enorme in confronto a quello ex militare di Boccadifalco,
quasi dentro la città. La carta d’imbarco, scritta in inglese, rettangolare,
lucida, con una linea tratteggiata lungo il tagliando
da staccare appena prima di salire sull’aereo, era stata passata
di mano in mano, e scrutata come fosse un documento di
origine extraterrestre. In silenzio. Guardavo uno per uno i
volti a me cari, quasi volessi fotografarli e portarli con me
per i centoventi giorni in cui sarei stata lontana da loro, dalle
loro voci, dai loro baci. Incollati uno all’altro, e muti: mamma,
papà, mia sorella Chiara, zia Mariola – il sostegno morale
della famiglia in occasione di morti, malattie e partenze – e
le due amiche del cuore, Giovanna e Cristina. Occhi gonfi e
lunghe occhiate accompagnate da sospiri. I passeggeri erano
stati chiamati per l’imbarco. «Aspetta» disse papà togliendosi
l’orologio. Era un Rolex appartenuto a nonno: l’aveva comprato
negli anni trenta e a quei tempi era modernissimo, in
acciaio e oro, molto elegante. E portentoso: si ricaricava automaticamente
con il movimento del polso. Ma non su quello
di nonno. Aveva smesso di funzionare il secondo giorno. Lui
lo portava dal signor Matranga, l’orologiaio; quello lo teneva
al polso per ventiquattr’ore e funzionava; poi lo restituiva e
l’orologio si fermava di nuovo. Dopo varie prove, fu chiaro
che nonno i polsi non li muoveva abbastanza. Allora quel
Rolex era passato a mio padre e nonno se n’era comprato
uno tradizionale.
Papà me lo infilò. «È tuo. Ricordati chi sei, ovunque tu vada.»
Come una fede nuziale.
Le eliche cominciavano a girare. Era il mio secondo volo. Immobilizzata
dalla cintura contro lo schienale, mi girai a fatica
per guardare fuori; il finestrino sembrava l’oblò di un transatlantico.
Nella soffice luce dell’alba vedevo sventolare sulla
terrazza dell’aeroporto fazzoletti colorati, cappelli, braccia: il
saluto ai viaggiatori. Un solo punto scuro. Fermo. Come in una
vecchia fotografia: papà, altissimo; accanto a lui zia Mariola,
anche lei alta; davanti, appoggiate alla ringhiera, mamma e
Chiara, piccole piccole, tra Giovanna e Cristina. Impietriti –
l’immagine della desolazione.

Tre settimane prima, a pranzo, mamma aveva lanciato uno
sguardo eloquente a papà; lui aveva appoggiato sul piatto la
forchetta con gli spaghetti arrotolati. Mi fissava attraverso le
ciglia abbassate quasi a nascondere le pupille. «Il tuo premio
per la licenza liceale è un soggiorno di studio all’estero» disse
a labbra strette. Si portò la forchetta alla bocca, si asciugò con
il tovagliolo un impercettibile sbaffo di pomodoro e per il resto
del pranzo disse poco e niente – ascoltava il chiacchierio di noi
tre, mamma, Chiara e io: si parlava di dove sarei andata. Le
vacanze le passavamo sempre in campagna, a Mosè, da cui mi
allontanavo raramente e per brevi periodi: nella nostra famiglia
un viaggio costituiva una novità costosa.
C’ero rimasta male quando mamma mi aveva proposto di
andare a Cambridge per imparare l’inglese in cinque mesi – da
settembre a febbraio del 1964, quando sarei tornata a Palermo
per frequentare la facoltà di Giurisprudenza. Avrei preferito
andare a Parigi e avevo tentato di persuadere i miei genitori a
mandarmi lì, sostenendo che il mio francese non era poi così
buono e che gli inglesi non mi piacevano – nemmeno l’inglese
mi piaceva, era una lingua priva di musicalità, e dopo qualche
lezione privata da Miss Smith, l’insegnante dei miei cugini, mi
ero rifiutata di studiarlo. Mamma non aveva voluto saperne:
si aspettava che le sue figlie, a diciotto anni, parlassero bene
tre lingue, come era stato per lei. Ci avevo provato un’ultima
volta, un pomeriggio: «Non credo di poter imparare l’inglese,
davvero… Tu e Chiara avete l’orecchio musicale, ma io no, lo
sai». Mamma non mi aveva dato il tempo di tirare fuori altri
pretesti. «Ce la farai, amore mio» e mi aveva sfiorato il mento
con la mano leggera.

L’orologio era freddo, mi pesava al polso. Un presentimento:
non sarei più tornata a vivere a Palermo, la mia amatissima
città. Cacciai indietro le lacrime, vergognandomi: avrei dovuto
essere contenta, tra quattro ore sarei stata nel centro di Londra,
la città più grande d’Europa. E subito dopo mi aspettava una
sfida, imparare una lingua nuova in una famosa città universitaria.
Avevo letto Histoire d’Angleterre di André Maurois e
riletto Orgoglio e pregiudizio, e Miss Smith mi aveva dato due
lezioni e qualche spiegazione su come comportarmi in Inghilterra.
Ce l’avrei fatta.

Il volo della Bea, la British European Airways, veniva da Malta
e faceva scalo a Palermo per rifornirsi di carburante e imbarcare
altri passeggeri. La hostess mi interruppe con il vassoio
del pranzo, servito con sussiego e molto appetitoso: carne, due
contorni, pane, burro, dolce e acqua minerale. Forse, pensavo,
il cibo inglese era migliorato, e mi chiedevo quale altra mia
prevenzione fosse infondata.
La mia vicina, una signora maltese che fino a quel momento
mi aveva ignorata, durante il pasto parlò a ruota libera in
italiano. Senza lasciarmi spazio per dire mezza parola, elargiva
con foga informazioni sui negozi di Londra e su cosa comprare.
Non avevo denari da spendere, non mi piaceva fare commissioni
e sarei rimasta a Londra poche ore soltanto, ma ascoltavo
paziente, in attesa di una pausa per chiederle quello che mi
premeva: cosa sarebbe successo all’arrivo? Avrei ritirato il bagaglio
prima di passare dal controllo passaporti? Alla dogana
avrebbero aperto tutte le valigie? Dove avrei trovato il pullman
per il terminal? Quanto sarebbe costato il biglietto del treno
per Cambridge? Avrei avuto il tempo di visitare la National
Gallery? Mentre chiacchierava, la brava maltese aveva ripulito
il vassoio e, dopo aver messo in borsa le bustine di zucchero
inutilizzate, si era alzata per andare alla toilette. Ritornò truccata
e profumata, si allacciò la cintura, abbassò le palpebre
appesantite dalla spazzolata di mascara e cadde in un letargo
da cui riemerse soltanto quando era già cominciata la discesa
su Londra.

(Riproduzione riservata)

© Giunti

* * *

Simonetta Agnello Hornby è nata a Palermo nel 1945. Dal 1972 vive a Londra, dove è stata avvocato dei minori e presidente part time dello Special educational needs and Disability Tribunal.
Ha esordito con La Mennulara (Feltrinelli, 2002), cui sono seguiti per lo stesso editore: La zia marchesa (2004), Boccamurata (2007), Vento scomposto (2009), La monaca (2010), La cucina del buon gusto con Maria Rosario Lazzati (2012), Il veleno dell’oleandro (2013), Il male che si deve raccontare con Marina Calloni (2013) e Via XX Settembre (2013). Ha pubblicato inoltre: Camera oscura (Skira, 2010), Un filo d’olio (Sellerio, 2011) e La pecora di Pasqua con Chiara Agnello (Slow Food, 2012).

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