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HOUSE OF CARDS 3, di Michael Dobbs (un estratto)

marzo 6, 2015

Pubblichiamo le prime pagine del romanzo “HOUSE OF CARDS 3 – Atto finale“, di Michael Dobbs (Fazi Editore) – traduzione di Stefano Tummolini e Giacomo Cuva

In contemporanea con la terza stagione dell’omonima serie tv interpretata dal premio Oscar Kevin Spacey, arriva in libreria il terzo e ultimo capitolo della serie cult sul… potere.

Il libro
Sono passati dieci anni da quando, grazie a una lunga serie di sotterfugi e manipolazioni, Francis Urquhart ha raggiunto l’apice. Ora si appresta a diventare il primo ministro più longevo nella storia del paese: lo spettro della vecchiaia incombe, è tempo di bilanci e di pensare a come guadagnarsi un posto nella Storia. Ma nel corso della sua impietosa scalata il nostro protagonista si è fatto molti nemici, e oggi si ritrova con un branco di lupi alle calcagna pronti ad azzannarlo, mentre i molti scheletri da tempo sepolti nell’armadio minacciano di saltare fuori.
Nel suo ultimo atto, Urquhart è costretto ad affrontare un’inaspettata crisi di governo che coinvolge lo scacchiere internazionale: deve operare nella questione cipriota, complicata ulteriormente dal ritrovamento di certi giacimenti petroliferi a cui sono in molti ad ambire. Ma il petrolio non è l’unico segreto dell’isola: Urquhart è legato a questa terra da una tragica vicenda personale del suo passato, pronta a perseguitarlo.
Come prevedibile, l’instancabile FU non è pronto a farsi da parte, né a cedere di fronte a chicchessia. È ancora disposto a tutto e determinato a lasciare il segno. Ci riuscirà?

***

PROLOGO

Monti Troodos, Cipro – 1956

Era un tardo pomeriggio di maggio, la stagione più
dolce sui Troodos, quando i monti non sono più ammantati
da una coltre di neve e il sole levantino ancora
non li batte come un martello sull’incudine. L’aria
primaverile era carica del forte odore della resina e il
suono della brezza si sfrangiava contro i grandi rami
dei pini, come il rumore del mare su una riva di ciottoli.
Ma il Mediterraneo distava molte miglia, quasi il
massimo possibile su un’isoletta come Cipro.
Una colonia di balestrucci volteggiava acrobatica
tra gli alberi, pressata dalle richieste dei piccoli. Era un
periodo propizio, una stagione d’abbondanza perfino
sulle montagne. In quelle poche settimane di primavera,
la polvere delle schegge di roccia frantumate, che si
confondeva col terriccio, diventava una miniera di fiori
selvatici, e ovunque spuntavano cespugli di gladioli
purpurei, papaveri tinti di sangue e alissi odorosi, i cui
pistilli dorati, anticamente, venivano usati come cura
contro la follia.
Ma non c’era cura per la follia che stava per esplodere
sul fianco della montagna.
George, sedici anni ancora da compiere, spronava
l’asinello su per il sentiero, incurante della bellezza che
aveva intorno. Era tornato a concentrarsi solo sulle tette.
Quel pensiero, ormai, gli rubava quasi tutto il tempo,
togliendogli il sonno, impedendogli di dare ascolto
a sua madre, facendolo arrossire ogni volta che
guardava una donna, puntandole immancabilmente gli
occhi in mezzo alle tette. Era come se le tette fossero
dotate di un’energia autonoma, che attirava il suo
sguardo come un magnete, a prescindere da quanto si
sforzasse di essere educato. Non riusciva mai a ricordare
le facce, perché raramente alzava gli occhi fin lassù:
rischiava di finire a nozze con qualche befana sdentata,
un giorno o l’altro. Purché avesse le tette.
Se voleva evitare di impazzire o, peggio ancora, di finire
in convento, in qualche modo doveva farlo. Lo doveva
fare a tutti i costi. Prima dei sedici anni. Entro due
settimane.
E poi aveva una gran fame. Lungo la strada, lui e il fratellino
più piccolo, Euripide, che aveva quasi tredici anni
e mezzo, si erano fermati a rubare del miele dalle arnie
di quella vecchia strega di Cloride, che aveva gli occhi
cattivi come una cornacchia e le dita orribili e nodose, e
li accusava sempre, col suo fiato pestifero, di rubarle il
miele – che lo facessero o no. Quindi qualche furtarello
gli spettava di diritto. Era la legge del posto. George aveva
domato le api con il fumo di una sigaretta che si era
portato dietro apposta. C’era mancato poco che si strozzasse
– ancora non fumava, ma si era ripromesso di iniziare.
Molto presto. Appena l’avesse fatto. E a quel punto,
forse, avrebbe ricominciato anche a dormire la notte.
Non mancava molto. Da un pezzo s’erano lasciati
alle spalle i terrazzamenti, dove pochi olivi rinsecchiti
ancora si tenevano aggrappati alla roccia, ed erano già
due chilometri più su del paese, quindi dovevano salirne
meno di due. La luce aveva cominciato ad attenuarsi,
tra un paio d’ore avrebbe fatto buio e George
voleva essere a casa prima di allora. Sua madre stava
cucinando lo stufato con le cipolline che gli piaceva
tanto; decise che le avrebbe chiesto anche un altro bicchiere
di quel vino rosso, così denso che aveva ancora
in bocca il gusto della posa. Se lo sarebbe guadagnato.
Diede all’asinello un’altra sferzata. L’animale, sotto
il peso della sella di legno grezzo e dei panieri gonfi di
stracci, faticava a percorrere il sentiero cosparso di
ciottoli e non prestò alcuna attenzione all’incoraggiamento.
Manifestò la sua contrarietà come d’abitudine.
«Non sulla divisa di scuola, bestiaccia!», disse Euripide
facendo un salto indietro e imprecando quand’era già
troppo tardi. Le avrebbe prese, se non fosse andato a
scuola in divisa – anche se la scuola non era che un tugurio
fatiscente dietro la chiesa, dotato di una sola stanza.
Anche un paesino povero come il loro aveva le sue regole.
E le sue armi.
Come le due Sten avvolte negli stracci in fondo a
uno dei panieri che andavano a consegnare, insieme al
resto dei rifornimenti, al fratello maggiore. George invidiava
suo fratello, che si nascondeva con altri cinque
guerriglieri dell’EOKA in un rifugio di montagna, da cui
calava di tanto in tanto per colpire gli inglesi e i loro
informatori e svanire di nuovo tra la nebbia.
EOKA. Ethniki Organosis Kyprion Agoniston – l’Organizzazione
Nazionale dei Combattenti Ciprioti –,
che da un anno cercava di aprire un varco nelle anguste
menti coloniali dei governanti britannici per costringerli
a concedere all’isola l’indipendenza. Per al-
cuni erano dei terroristi, per altri dei paladini della libertà.
Per George, dei grandi patrioti. Ogni sua particella
che non fosse schiava del sesso voleva unirsi a loro,
appartenere a loro, per combattere i nemici del suo
paese e della sua gente e sentirsi finalmente un vero
uomo. Ma le frustrazioni giovanili si accumulavano
una sull’altra, perché l’Alto Comando proibiva categoricamente
a chiunque avesse meno di diciotto anni di
impugnare le armi. George avrebbe anche mentito, ma
era del tutto inutile, in un paese dove chiunque sapeva
perfino il giorno in cui era stato concepito. Poco prima
del Natale del 1939. La guerra contro i tedeschi era
cominciata solo da pochi mesi e il fratello di suo padre,
George, era entrato come volontario nel reggimento
Cipro dell’esercito inglese. Come molti altri giovani ciprioti,
aveva scelto di unirsi alla lotta per l’autonomia
e la libertà in Europa, che una volta vinta, avrebbe
condotto anche il paese all’indipendenza. O almeno
così si pensava. La partenza di suo zio era stata festeggiata
con una lunga notte di bagordi e amore, durante
la quale era stato concepito anche lui.
Ma lo zio George non era più tornato.
E nell’animo del piccolo George era rimasta impressa
la convinzione che avrebbe dovuto faticare molto
per onorare la memoria di uno zio, di un fratello e
di un amico così coraggioso: una memoria che, col
tempo, si faceva sempre più gloriosa. George idolatrava
quell’uomo che non aveva mai conosciuto, ma poiché
non aveva neanche sedici anni, invece di marciare
sui suoi eroici passi doveva accontentarsi di consegnare
messaggi e provviste.
«Davvero l’hai fatto con Vasso? Dimmi la verità,
George».
«Certo, stupido. Un sacco di volte!», mentì lui, gonfiandosi
di vento il petto. Ormai cominciava a rendersi
conto che le bugie si accumulavano una sull’altra, e
ogni volta che saltava fuori l’argomento di sua cugina
era costretto ad arrampicarsi sempre più in alto su quel
traballante castello di falsità.
«E com’è stato?». Euripide si dimenava nella sua divisa
tutta macchiata, cercando di non tradire la sua inesperienza,
ma incapace di resistere all’emozione della
scoperta.
«Ha le tette come due poponi, due morbidi meloni
di carne», esclamò George, ruotando le mani per mostrarglieli.
Avrebbe voluto allargarsi, ma non poteva;
Vasso gli aveva concesso solo di sbottonarle la camicetta,
sotto la quale, invece dei morbidi frutti che aveva
immaginato, c’erano due tettine dure dure, con dei
capezzoli come dei noccioli di prugna. Era certo che la
colpa fosse di Vasso. La prossima volta gli sarebbe andata
meglio.
Euripide ridacchiò all’idea, ma non gli credette.
«Non l’avete fatto, di’ la verità», disse con tono accusatorio.
George sentì che il suo delicato castello di
menzogne cominciava a oscillargli sotto i piedi.
«Sì che l’abbiamo fatto».
«Non è vero».
«Psefti».
«Malaka!».
Euripide gli tirò un sasso e George si scansò, inciampando
su una pietra e atterrando sul sedere, mentre
tutti i suoi sogni andavano in frantumi. La risata
squillante di Euripide, che alternava acuti da bambino
a rauchi suoni adolescenziali, risuonò nella vallata, riversandosi
sull’orgoglio del fratello come acido. George
si sentiva umiliato, aveva bisogno di qualcosa che ristabilisse
la sua fragile autostima. Poteva esporre il fratellino
a qualche pericolo, o inventarsi qualcos’altro
per riaffermare la sua superiorità. D’improvviso ebbe
un’idea.
Allentò la corda che chiudeva uno dei panieri e frugò
all’interno con un braccio, sotto le arance e le fette di
maiale affumicato, finché non afferrò con le dita un pezzo
di tela di forma cilindrica. Lo estrasse molto delicatamente,
insieme a un secondo fagottino più piccolo. All’ombra
di un grande masso, adagiò entrambi i pacchetti
su un soffice tappeto di aghi di pino, aprì delicatamente
gli involucri, ed Euripide restò senza fiato. Era la
prima volta che faceva da corriere, non gli era stato detto
cosa trasportassero, e quando se ne rese conto strabuzzò
gli occhi per lo stupore. Davanti a lui, adagiato
sulla tela, c’era il metallo grigio opaco di una Sten, dotata
di un’impugnatura pieghevole per poter essere nascosta
più facilmente. Accanto c’erano tre pacchetti di
munizioni.
George si compiacque dell’effetto sortito, ma aveva
ancora altro da fare. Nel giro di pochi secondi, come
gli aveva insegnato suo fratello la settimana prima, preparò
la Sten, una mitragliatrice leggera, facendone
oscillare lo scheletro di metallo, bloccandolo in posizione
e preparando uno dei caricatori. Mise il primo
proiettile nel tamburo. Era pronta.
«Non pensavi che sapessi usarla, di’ la verità». Adesso
si sentiva molto meglio. Aveva riaffermato la sua autorità.
Sistemò l’arma nell’ansa del gomito e assunse
una posa da combattimento, passando in rassegna tutta
la vallata come se si preparasse a far fuoco, a sterminare
un migliaio di nemici acquattati nei loro castelli prima
di ordinare al suo silenzioso esercito di combattenti
di piombare sui bastioni per finire i superstiti. Poi si
voltò verso l’asinello, indirizzandogli una raffica di effetti
sonori. La bestia, inconsapevole del suo destino,
continuò a brucare un folto ciuffo d’erba.
«Passamela, George. Ora tocca a me», lo implorò il
fratello.
George, il Comandante, scosse la testa.
«Sennò dico a tutti di Vasso», minacciò Euripide.
George sputò per terra. Gli piaceva il suo fratellino,
che pur avendo solo tredici anni e mezzo già correva
più veloce e ruttava più forte di qualsiasi compaesano.
Ed era anche più sveglio della maggior parte dei suoi
coetanei, e più che capace di ordire un piccolo ricatto.
George non aveva idea di cosa avrebbe potuto raccontare
a proposito di lui e Vasso, ma nel suo fragile stato
emotivo anche una briciola era già di troppo. Gli passò
l’arma.
Appena la mano di Euripide si chiuse intorno all’impugnatura
con le guancette in gomma e il suo dito
si allungò sul grilletto, la pistola sparò cinque volte prima
che il bambino, terrorizzato, la lasciasse cadere in
terra.
«La sicura!», strillò George, troppo tardi. Se l’era
scordata. L’asinello starnutì contrariato e scappò una
ventina di metri più in là, a cercare pascoli più tranquilli.
Le principali qualità della Sten 9mm sono la leggerezza
e la rapidità di fuoco sostenuto; non è molto potente,
e neppure tanto precisa. In più, la vampa di ritorno
è rumorosa. Nell’aria cristallina dei Troodos, dove
le falde delle montagne si dipanano dal monte Chionistra
perdendosi nell’orizzonte avvolto dalla nebbia,
il suono si propaga come il canto di una procellaria in
volo. Era dunque prevedibile che la pattuglia dell’esercito
inglese sentisse il colpo della Sten; la cosa insolita,
semmai, era che si fosse avvicinata così tanto senza
che George o Euripide se ne accorgessero.
Si sentirono delle grida da una parte e dall’altra.
George fece uno scatto per recuperare l’asinello, ma
era già troppo tardi. Cento metri più sotto, e in avvicinamento,
c’era un soldato con la divisa color kaki e
il berretto Highland che agitava contro di loro un 303.
Il primo sentimento di George non fu la paura, ma
l’invidia; quello sbarbino scozzese aveva poco più dei
suoi anni.
Euripide invece già correva; George si attardò solo
per recuperare la Sten e i due pacchetti di munizioni
rimasti in terra. Corsero su per la montagna, dove gli
alberi crescevano più fitti, coi rovi che gli graffiavano
le gambe e il cuore che gli batteva all’impazzata, ansando
così forte da non riuscire più a sentire neanche
i loro inseguitori, finché non ce la fecero più. Si sdraiarono
su una roccia, leggendosi l’un l’altro il terrore negli
occhi, con i polmoni in fiamme.
Euripide si riebbe per primo. «Abbiamo perso l’asinello,
mamma ci ammazza», disse senza fiato.
Corsero ancora un po’, finché inciamparono in un
piccolo avvallamento del terreno ben nascosto dalle
rocce dove decisero di nascondersi. Si sdraiarono a
faccia in giù al centro di quella scodella di pietra, tenendosi
stretti, e rimasero ad ascoltare.
«Cosa ci fanno se ci prendono, George? Ci frustano?».
Euripide aveva sentito storie da incubo su quello
che facevano gli inglesi ai bambini sospettati di aiutare
l’EOKA: in quattro gli tenevano braccia e gambe,
mentre un quinto li frustava con una bacchetta di
bambù, tanto sottile quanto tagliente. Non era una punizione
come quelle che ti davano a scuola: dopo non
ti rialzavi più. Con i Tommies eri fortunato se riuscivi
ancora a strisciare.
«Ci tortureranno per scoprire dove portavamo le armi,
e dove si nascondono gli uomini», sussurrò George
con le labbra secche. Sapevano tutti e due cosa significava.
Un rifugio dell’EOKA era stato scoperto nei pressi
di un paese lì vicino poco prima che arrivassero le prime
nevi. Otto uomini erano rimasti uccisi durante l’incursione.
Il nono, l’unico sopravvissuto, che non aveva
neanche vent’anni, era stato impiccato nel carcere di
Nicosia la settimana prima.
Pensarono entrambi al fratello maggiore.
«Non possiamo farci prendere, George. Non dobbiamo
parlare». Euripide era calmo, aveva le idee chiare.
Era sempre stato meno emotivo e più razionale di
George – il cervello di casa, quello che aveva un grande
futuro davanti a sé. Si parlava perfino di fargli continuare
la scuola dopo l’estate, di mandarlo al ginnasio
Pankyprion, nella capitale, per farlo diventare un insegnante,
se non addirittura un funzionario dell’amministrazione
coloniale. Sempre che ci fosse stata ancora
un’amministrazione coloniale.
Restarono lì sdraiati, sforzandosi di fare meno rumore
possibile, ignorando le formiche e le mosche,
cercando quasi di fondersi con la roccia calda. Dopo
una decina di minuti sentirono le voci.
«Sono scomparsi dietro quelle rocce, caporale. Dopodiché
non li ho più visti né sentiti».
George cercò di controllare la paura che gli stringeva
la vescica come una morsa. Era disgustato, temeva
di farsela sotto come un bambino. Cosa avrebbe fatto
lo zio George? Euripide lo guardò con aria interrogativa.
George gli sorrise e il fratellino ricambiò. Si sentirono
entrambi sollevati.
Dai rumori oltre le rocce, intuirono che altri due
soldati, forse tre, avevano raggiunto il primo, che si era
fermato con il caporale una trentina di metri più in là.
«Hai detto che sono bambini, MacPherson?».
«Due, caporale. Uno ha ancora la divisa della scuola,
coi pantaloncini corti e tutto. Non sono pericolosi».
«A giudicare dai rifornimenti che abbiamo trovato
sul mulo, direi che sono pericolosissimi. Mitragliatrici,
detonatori. Avevano perfino delle granate, fatte sul tavolo
da cucina della nonna con dei pezzi di tubatura.
Dobbiamo prenderli, MacPherson. Assolutamente».
«Probabilmente quei bastardi sono già scomparsi,
caporale». Si sentì un tramestio di stivali. «Vado a dare
un’occhiata».
Ora gli stivali si avvicinavano, calpestando lo spesso
manto di aghi di pino come un tappeto di ossa friabili.
Euripide affondò i denti nella carne morbida del
labbro: ora aveva paura. Paura della bacchetta di
bambù, paura di tradire il fratello maggiore. Strinse la
mano di George, in cerca di rassicurazione, e mentre
le loro dita gelate s’intrecciavano, George cominciò a
sentirsi più forte, e a trovare il coraggio per tutti e due.
Era lui il più grande, doveva assumersi le sue responsabilità.
Fare il proprio dovere. E anche riconoscere la
sua colpa – visto com’era andata. Doveva fare qualcosa.
Diede un pizzicotto sulla guancia al fratello.
«Quando torniamo a casa, t’insegno come usare il
rasoio», disse sorridendo. «E poi andiamo da Vasso tutti
e due. OK?».
Strisciò fino alla cima della scodella di roccia te-
nendo la testa bassa, piazzò la Sten sul bordo e chiuse
gli occhi. Poi fece fuoco finché il tamburo non restò
vuoto.

(Riproduzione riservata)

© 2015 Fazi Editore srl

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Michael Dobbs è nato nel 1948 ed è un membro del Partito Conservatore inglese. Tra i diversi incarichi rivestiti durante la carriera politica si ricorda quello di capo dello staff del partito durante l’ultimo governo Thatcher (1986-1987). Dal 2010 è membro della Camera dei Lord. La trilogia di House of Cards, di cui Fazi ha già pubblicato i primi due volumi, ha venduto milioni di copie in tutto il mondo.
Dobbs ha partecipato alla produzione e sceneggiatura della serie omonima ispirata a questo romanzo.

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