Pubblichiamo un estratto del romanzo SENTI LE RANE, di Paolo Colagrande (Nottetempo). Domani Paolo Colagrande ci racconterà il suo libro
La scheda
Al tavolino di un bar, Gerasim racconta a Sogliani la storia di un terzo amico seduto poco piú in là, ed è una storia molto avventurosa. Ebreo convertito al cattolicesimo per chiamata divina, Zuckermann prende i voti e diventa “il prete bello” di Zobolo Santaurelio Riviera, località balneare di “fascia bassa”: agli occhi dei fedeli passa per un santo, illuminato, alacre e innocente. Ma un pomeriggio di fine estate, mentre intorno al suo nome diventano sempre piú insistenti le voci di miracoli, a Zuckermann si offre la visione della Romana, la figlia diciassettenne di due devoti parrocchiani. Da lí in poi, fra pallidi tentativi di espiazione, passioni e gelosie, cui fanno da contrappunto le vaneggianti digressioni di Gerasim e Sogliani – dall’Uomo vitruviano agli etologi fiamminghi, dagli asceti di Costantinopoli all’Ikea, da Rossella O’Hara all’olio di nespolo babilonese – lentamente si consuma una tragedia sentimentale che travolge l’intera comunità e trova il suo epilogo in riva a un fosso… Con una scrittura comica e pastosa, Colagrande ci racconta una storia e, insieme, il racconto che ne fa una coppia di inattendibili biografi.
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Un estratto del romanzo SENTI LE RANE, di Paolo Colagrande (Nottetempo) – pagg. 171/174
Sostiene Sogliani che non c’è niente di più infame della serenità, e la parola stessa mette le tremarole alla schiena. E anch’io credo che la parola serenità andrebbe tolta dal vocabolario non tanto per il significato, che non c’è, ma proprio come lemma, che ha un suono pedante e falso, inventato dai filosofi e dai teologi di maggioranza, quando per esempio si sente dire di accettare con serenità l’impotenza umana davanti al destino, o al volere di Dio, o quando si dice che Socrate si sottomette con serenità alle leggi di Atene, o quando si sente un critico d’arte che dice: La serenità del volto di Cristo nel Cenacolo, la serenità di Monna Lisa eccetera eccetera oppure quando si dice, poniamo di un artista o di un poeta o di un prosatore: La serenità delle sue ultime opere. E viene da chiedersi: A chi la vogliam raccontare? Ma Sogliani torna di rabbia sul sorriso sereno della Gioconda come esempio rinascimentale del rapporto d’amore tra l’uomo e la natura, che il sorriso della Gioconda Sogliani ce l’ha di traverso, e dice che secondo lui anche nei mercatini dei pittori da sagra che fanno qui in mediopoli, è difficile trovare un quadro così brutto, proprio dal punto di vista artistico pittorico: che se invece di Leonardo da Vinci, dice Sogliani, quel quadro l’avesse dipinto uno stupido come me o come te Gerasim, ci avrebbero lanciato addosso le secchiate di merda, ma niente invece son dei secoli che lo studiano per trovare a tutti i costi il pretesto per dire non solo che non è brutto, ma è sublime, e invece di ammettere che il sorriso di Monna Lisa non è né sereno né niente, è solo venuto fuori sbagliato da buttar via il quadro, nel rudo, e pazienza verrà meglio il prossimo, dicono che è una figurazione evocativa dell’inaccessibilità dell’anima, o del rapporto sfumato tra Apollo e Dioniso o per esempio potrebbe esprimere la bellezza dell’uomo rappresentato nella sua forma femminile o viceversa, e anche quest’altre frasi, dice sempre Sogliani, se invece di un consorzio di critici d’arte di alta casata le dicessimo noi, cioè me e te Gerasim, diocariòla ci sparerebbero addosso con la lancia dell’autospurgo, altro che rapporto sereno tra l’uomo e la natura.
E poi, dico io a Sogliani, non so se hai presente ma nel dibattito è saltato fuori il più furbo di tutti che dice: Aspetta aspetta aspetta che ho capito, ho svelato il mistero del sorriso sereno della Gioconda, il mistero risiede nelle modalità percettive e nei processi biochimici e dinamici dello sguardo a seconda che si guardi il dipinto con i bastoncelli fotorecettori o la fovea della retina, i bastoncelli fotorecettori e la fovea della retina mi sembra che sono parti dell’occhio come dire il centro e la periferia insomma la maggioranza e l’opposizione, che se lo guardi con la fovea della retina il sorriso si apre, se lo guardi coi bastoncelli fotorecettori, che sono poi volgarmente la coda dell’occhio, il sorriso si chiude. E secondo me questo genio qui che ha capito tutto bisognerebbe chiuderlo in una clinica, però dopo avergli sparato addosso con la lancia dell’autospurgo, invece no, anche lui a prender gli applausi della critica e l’ovazione del pubblico bue. E avanzo di dire che se una cosa del genere l’avessimo detta io o te Sogliani, dico a Sogliani, dovremmo stare attenti a girare per strada.
Insomma si adopera la parola serenità come una specie di necrologio filisteo che a far caso anche agli esempi appena fatti non contiene nessun concetto ma è solo l’anticamera vuota della putrefazione o della bruttezza terminale: Socrate che accetta con serenità la condanna a morte, il prosatore americano che è ormai alla canna del gas e allora tira fuori la serenità del pescatore Santiago – che già il nome mette la fregola ai crostini – per dire che lui stesso, il prosatore, ha sotto due maroni di ghisa; la serenità di Cristo che sta per essere tradito e poi crocifisso; la serenità della povera lattaia di Vermeer; la serena vecchiaia di Giobbe passato nel tritacarne di non so quante disgrazie; la serenità del sorriso della Gioconda come salvacondotto della orrendità del quadro. La serenità delle opere senili dell’artista che infatti subito dopo è morto e si capiva del resto che non stava bene dalla qualità scadente delle opere senili quindi era meglio che morisse prima che gli venisse in mente di farle. Eccetera eccetera.
[Estratto da Paolo Colagrande, Senti le rane, 2015, nottetempo]
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