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L’ESTATE DEL ’78 di Roberto Alajmo (recensione)

Maggio 3, 2018

L’ESTATE DEL ’78 di Roberto Alajmo (Sellerio) – recensione

Nascere scrittore in una famiglia da raccontare

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di Anna Vasta

Chi non ha avuto un’infanzia, se si perde, non potrà ritrovarsi. Come i sottotetti di una vecchia casa essa conserva, custodisce spezzoni, scarti di un presente in fieri scampati per caso o imperscrutabili disegni  al tarlo roditore del tempo. Ritrovati quando quel presente è diventato un passato da recuperare e se possibile alimentare di cocenti inutili rimpianti, di tutto quel non vissuto, non accaduto che avrebbe potuto essere.  Ne L’estate del ’78 di Roberto Alajmo (Sellerio, 2018), un romanzo che sarebbe riduttivo definire autobiografico – anche se porta le stimmate dell’autore-per la valenza paradigmatica di vicende e personaggi, il tempo perduto di quell’età dell’innocenza che non è mai del tutto innocente, rivive negli anni della ragione come tempo ritrovato, complice la finzione letteraria. Arma a doppio taglio, che se salva dall’oblio, dall’umana dimenticanza, se riesce a ricomporre in una forma  “il disordine e il dolore precoce” di una vita, inesorabile ne arresta il fluire, vi imprime il  rigor mortis della scrittura.
Nascere scrittore, per Roberto Alajmo non  è una iattura-come egli sembra credere citando Evelyn Waugh: se in una famiglia nasce uno scrittore, quella famiglia è perduta-, ma una condizione di grazia che gli consente di raccontare in un suo personalissimo lessico familiare la propria. Una chance in più per accostarsi al mistero imprendibile di una madre tenera, quanto assente- chiusa in un suo mondo di fragili sogni, delusi ideali, connaturale infelicità- e al dolore offeso  di un figlio, orfano da prima del distacco definitivo- la morte volontaria di Elena, a poco più di quarant’anni. Un suicidio programmato e in un certo senso fallito nella sua malriuscita messinscena- l’ultima vanità di pavesiana memoria; Roberto mi capirà-, ma che vuole essere estrema affermazione di sé contro i limiti della realtà esterna. Distruttivi quando si rivelano tratti costitutivi della propria inquieta interiorità. Ci sono individui costituzionalmente infelici. Strutturalmente. A prescindere da ogni circostanza: infelici.
Il tema dell’addio che dà inizio alla narrazione a partire dalla bella estate del ’78, l’estate della maturità, del  passaggio all’età adulta, si svolge per tutto il romanzo in uno spazio atemporale che l’autore percorre in un andirivieni senza posa nello sforzo tormentoso di colmare il vuoto dei tre mesi che lo separano dal suicidio di Elena. La morte, anche quando è annunciata- i polsi fasciati, i ricoveri improvvisi, certe stranezze premonitrici- coglie sempre impreparati, inadeguati alla sua fatalità. Da qui la necessità di trovare delle ragioni che rendano plausibile ciò che non lo è, che non può esserlo, perché  anche la più naturale delle morti ha un che di scandaloso, di imperdonabile per chi resta. A maggior ragione se chi resta è un figlio non ancora adulto. In tal caso essa viene vissuta come un abbandono, se non un tradimento.
Risultati immagini per roberto alajmo letteratitudinenewsL’ incontro dell’autore con la madre –  da due anni Elena vive sola, minata dalla malattia e dalla cura della malattia, ma soprattutto dai propri demoni – appesantita, stanca, mentre guarda il figlio per l’ultima volta con la mano sulla fronte per ripararsi dal sole o per l’ imbarazzo di una situazione insolita-si rivela alla luce di quanto accadrà tra breve un  commiato definitivo e a un tempo incompiuto come tutto ciò che accade a nostra insaputa, quasi alle nostre spalle.

Quell’incontro-commiato è il punto di partenza di un viaggio a ritroso, una discesa agl’Inferi sino a quell’infanzia che  è un luogo- dice  Heidegger- più che un tempo, per attingervi dati, indizi, frammenti di vissuti personali e familiari necessari a rimontare un macchinario sfasciato.  Man mano che si addentra nel caos dei ricordi- fotografie, lettere, appunti, note- la memoria seleziona, manipola il materiale esistente, lo fissa in fotogrammi  in cui è difficile riconoscersi. C’è sempre qualcosa che non torna- il pezzo che avanza o un oggetto che non sono riuscito a collocare e mi rigiro tra le dita-. Un groviglio di riflessioni, considerazioni, interrogativi sui grandi temi esistenziali e la consapevolezza  di non essere riuscito a venirne a capo, a trovare una soluzione, alla fine di tutto questo raccontare, che non sia un  rimedio provvisorio al male di vivere endemico alla condizione umana.  La felicità non è che un tempo postumo. Una memoria trascorsa. Una cicatrice, anzi. Una frattura mal ricomposta che quando cambia il tempo riprende a far male. L‘amore, un bene effimero insidiato dal  disamore che nutre in sé come serpe in seno-dentro ogni persona che pure mi adora esiste un’altra persona, quella che un giorno smetterà di amarmi-. Il suicidio, un beau geste, un atto velletario di ribellione a un destino comune, quello di non poter decidere della propria nascita. Idea accarezzata e vagheggiata dallo scrittore sino a quando non diventerà padre. E poi i legami familiari, le perversioni, gl’inconfessabili segreti che si annidano pure nella più -apparentemente- normale delle famiglie, le complicazioni affettive, le ambiguità dei sentimenti, anche tra padri e figli. Il suo rapporto controverso con il  padre,al quale finirà col rassomigliare anche nel fisico. E quello non facile con Arturo, il figlio adolescente, che dalla giovane nonna-chi muore giovane, ha vinto la sua battaglia contro il tempo e l’odiosa vecchiezza- attraverso il padre sembra aver ereditato  i cromosomi dell’inquietudine.
Il tutto a margine e dentro un flusso narrativo che a volte s’ingorga, ma non deborda mai oltre gli argini di una eleganza di forme e di una sobrietà di scrittura che  nulla concede  all’emotività soggettiva, semmai ne smorza i toni nel garbo di una lieve sorridente autoironia.

 

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[Proponiamo in lettura anche l’articolo di Daniela Sessa dedicato a “L’estate del ’78”]

 

La scheda del libro

Prendere per mano i lettori, invitarli in casa, guardare assieme le foto dell’infanzia, raccontare la parte più inconfessabile di sé e della propria famiglia. Roberto Alajmo, nella sua opera più necessaria e personale, ha trasformato un materiale intimo e doloroso nel romanzo di una vita.
Luglio 1978: lo scrittore è uno studente in attesa degli orali dell’esame di maturità, studia con i compagni a Mondello, vicino Palermo, e a fine giornata esce insieme a loro per riposarsi, rifiatare, mangiare un gelato. Una passeggiata di trenta metri e lì, seduta sul marciapiede, trova la madre. Lei lo guarda riparandosi dal sole con la mano. «Mamma, che ci fai qui?».
È l’ultimo incontro tra Elena e suo figlio Roberto, il momento da cui scaturisce questo libro, l’investigazione familiare di uno scrittore su un evento che ha segnato la sua giovinezza e la sua maturità: l’esistenza intera.
È la storia di un addio di cui il ragazzo non aveva avuto sentore, la ricerca di un senso per il commiato improvviso di una madre dal marito, dai figli, dalla vita stessa. Il ritratto di una donna che voleva afferrare il mondo, e il mondo le scappava dalle dita. Un dramma di disagio domestico come forse se ne consumavano tanti, in quegli anni, nel chiuso segreto degli appartamenti della borghesia italiana. È un racconto di grande originalità letteraria, attraversato da una suspense che a tratti toglie il respiro, da un’emozione attenta a trasformarsi in pensiero e parola, da un umorismo necessario ed elegante.
Mai il lettore ha la sensazione di spiare dal buco della serratura il dolore altrui. E questo accade nonostante l’autore accompagni il testo con le foto di una famiglia come le altre, almeno all’apparenza. Alajmo condivide la sua indagine con noi, ci esorta ad appropriarci del suo passato, ad affrontare con lui il mistero del susseguirsi delle generazioni umane. «Statemi a sentire», sembra dirci. E non c’è altro che possiamo fare.

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Roberto Alajmo, giornalista e scrittore, dal 2013 dirige il Teatro Biondo di Palermo. Tra i suoi libri: Notizia del disastro (2001), Cuore di madre (2003), Nuovo repertorio dei pazzi della città di Palermo (2004), È stato il figlio (2005), da cui è stato tratto nel 2012 l’omonimo film diretto da Daniele Ciprì, Palermo è una cipolla (2005), L’arte di annacarsi (2010).

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