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FATTI DI MAFIA di Gianni Bonina (recensione)

Maggio 16, 2019

imageFATTI DI MAFIA di Gianni Bonina (Edizioni Theoria)

di Patrizia Danzè

Il romanzo, si sa, è il genere letterario che più di ogni altro mette in crisi e i racconti di Gianni Bonina che si costituiscono in forma di romanzo, come l’autore avverte nella premessa, squadernano sin dal racconto incipitario una materia che se sul piano della realtà, sul piano umano ed emotivo, è di difficile e forte impatto, sul piano narrativo si dimostra vincente. Perché attraversando i trentasei racconti che in Fatti di mafia (Edizioni Theoria, pp. 208, euro 16), un titolo-manifesto che è già una sfida, si dispongono in fabula, si viene risucchiati in un labirinto oscuro che tuttavia si vuole percorrere, sapendo che il piacere della lettura deve affrontare il dolore imbarazzante della finzione/realtà. Un viaggio narrativo nel sistema della mafia degli anni Ottanta in un paese siciliano, Addaro, «inesistente che però non è di fantasia, come lo sono tutte le figure che lo popolano», un campo chiuso di forze, dove la mafia non è soltanto la piovra capace di avvolgere nei suoi tentacoli territorio ed economia, o di sostituirsi allo Stato dove lo Stato è lontano o viene visto come tale, ma è la peste che riesce a diffondersi e far coincidere cultura, comunità, famiglia, individui, abitudini, costumi, comportamenti quotidiani, con la propria potenza pervasiva e con il proprio codice linguistico (lo stesso rigorosamente spalmato da Bonina in tutto il suo romanzo della mafia). Una mafia pronta a fare il salto di “qualità” per una sua prossima, futura globalizzazione.
Non più soltanto malandrineria di alcuni personaggi di rispetto, né ancora la mafia che farà affari con i rifiuti velenosi o con la droga (che comunque già si affaccia negli interessi del boss più cinico dei racconti), ma comunque una forza organizzata che impone ora con le minacce, ora con la “persuasione”, ora con la violenza più disumana, un patto “sociale”, quello tra uomo (una “parola piena di vento” come la definisce don Mariano di Sciascia) e mafia, una forza che non conosce sconfitte, ma solo vittorie. Così, nella sua rete (la stessa metaforizzata da Camilleri) si può andare a finire o perché incauti, o per disperazione o per cercare protezione, accettando anche le verità “aggiustate”, spesso più convincenti di quelle nude e crude. Allora la “civetta” non ha pudore a volare di giorno, a entrare nelle case e nelle menti e nelle coscienze della gente, perché anche la coscienza è un imbroglio e sono in molti, anche gli insospettabili, a decidere di perderla.
La mafia, dunque, come un destino, una tyche cui non è possibile sfuggire, e che non salva, non può salvare pure quando sembra che ci si possa liberare dal suo controllo. Non salva neppure i boss riconosciuti e rispettati, perché prima o poi arriva un «ragazzino con la faccia sfrontata e gli occhi di uno che stava imparando a non abbassarli per primo». Sono vite sciupate quelle che, a cominciare dal primo racconto, “Il sangue al contrario” sino all’ultimo, “Arrivano i persiani”, dipanano, quanto più si scava nell’umano, una progressiva regressione ad ferinum. Un percorso in climax che tocca ogni aspetto e ogni campo dell’esistenza umana: affetti, rapporti amicali e di colleganza, lavoro, cultura, religione, politica, capovolti in corruzione, affarismo, inganno, tradimento, violenza omicida, perdita dei valori fondanti della famiglia, della società, della vita. Persino la morte, con la quale si conclude quasi ogni racconto (con un climax serrato che procede parallelo a quello della struttura generale del libro), perde la sua sacralità, apparendo oscena e scandalosa quanto più, secondo il codice mafioso, alla vittima “spettano” funerali importanti. Poi, per i “sudditi” di quel “regno della mafia” (e “Nel regno della Mafia” s’intitolava un saggio-denuncia del 1900 di Napoleone Colajanni, uno degli intellettuali più avvertiti della seconda metà dell’Ottocento), tutto ricomincia come prima, l’iniquità continuata come sistema, la sopraffazione come habitus, l’illegalità fatta regola.
E il sovrano di quel regno, il sulfureo e proteiforme Zunanà, pronto a scendere negli abissi delle vite di tutti, a intrecciare “larghe intese” con la borghesia mafiosa o paramafiosa, con le istituzioni impotenti, e con i religiosi, “perle di cristiani” che chiudono un occhio, per rendere stabile il crimine, è persino capace di dire al sindaco, caduto anch’egli nella sua rete: «Lei è sindaco ed è temporaneo, mentre io sono come il papa che c’è fino a quando muore». Un carnefice “pietoso”, Zunanà, che sa quando fermarsi perché «la mafia è come l’alcol: se è troppo, scassa il fegato. La mafia non si può eliminare, però si può contenere entro limiti fisiologici». «Del resto» dice un disponibile don Peppino (siamo davanti a una comunità omertosa e al tempo stesso paradossalmente loquace) a un Totò Pulvirenti indeciso se pagare o no l’“assicurazione”: «Se uno si mette in testa che questa gente fa parte del creato, che so, come l’ufficio Iva, allora nessuno si fa passare per la testa di non averne a che fare. È così e basta. Chi sta in Sicilia deve pagare quest’altra tassa come chi sta a Milano deve pagare più cherosene». E Totò si convince al punto che, soddisfatto di come vanno gli affari del suo negozio dopo l’“assicurazione”, da quel momento in poi sente di far parte come di una famiglia. Una famiglia scellerata che, racconto dopo racconto, lo scrittore, addentrandosi in quella selva oscura, scruta nei particolari dolorosi della distruzione operata dalla mafia, una distruzione fisica, psicologica, morale. Fino alla prossima guerra, quando Zunanà stesso capisce che contenere la mafia entro limiti fisiologici non basta più.
Storie di solitudine, che non sembrano lasciare speranza per una terra magnifica e dura, chiusa in una sorta d’immobile irrevocabilità. È un pathos rattenuto quello dei racconti di Bonina, un pregio perché, a volte, il pathos intenso può far perdere il filo della verità. Bonina, con la sua scrittura piana, ma fortemente drammatica perché fortemente etica, non prende scorciatoie e va diretto ai fatti. Fatti di mafia, appunto.

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Gianni Bonina
Fatti di mafia
pp. 208, euro 16
Edizioni Theoria, 2019

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