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A PELLE SCOPERTA di Francesca Piovesan (recensione)

dicembre 21, 2019

A PELLE SCOPERTA di Francesca Piovesan (Arkadia)

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L’amore bianco

di Antonio Celano

Benché Francesca Piovesan sia veneta, c’è qualcosa di eracliteo nella sua raccolta di racconti A pelle scoperta (Arkadia, collana Sidekar, 2019, 128 pp.), qualcosa in continua trasmutazione: che è quello, ma che è anche non quello; un dinamismo della realtà che è stallo.
«Alle cose piccole» è, infatti, il calice programmatico che l’autrice alza in esergo al libro, ma che è già – e il lettore se ne accorge fin dalle prime pagine – la minuscola molecola che si struttura con milioni di sue simili per disegnare una realtà più grande. Ed è stato scritto che questa è una raccolta di “quadri della quotidianità”, tuttavia non distaccati, con un filo intertestuale forte, ma direi anche ossessivo, che li cuce tutti. Un filo rinterzato dai colori: il bianco su tutti – un colore/non-colore molto complesso – ma poi il rosso, l’arancio (che è oro, luce solare), il giallo, il grigio, il presagio cattivo del nero.
E fossero solo i colori! Francesca Piovesan semina le sue piccole compulsive ossessioni (gli animali, le finestre di fronte – come in certi romanzi di Simenon –, le tende appena accostate, le camicie di seta, le ansie genitoriali, gli accenti russi, gli sfagli accecanti della vista e i capelli raccolti in uno chignon) in tutti i suoi racconti: sassolini di un Pollicino al quale, però, non serve riportarsi a casa, ma creare un collante, un percorso ulteriore, addirittura un segno di allarme, in una silloge già molto compatta e convincente per temi e visioni di vita. Come a dire che sì, il materiale al quale l’autrice attinge, in fondo, è quello: le sette note della musica, le poco più di venti lettere dell’alfabeto, le quattro basi azotate del DNA, ma che la varietà che da queste si sviluppa è qualcosa di più della loro semplice somma, almeno quanto le somiglianze che si riconoscono tra una narrazione e l’altra, come quando si ruota un caleidoscopio. Perché, in fondo, a questo servono le ossessioni metonimiche dell’autrice: a far riconoscere il quotidiano nella sua accezione invariante, allotopica (in altre parole, di mondi uguali e diversi, paralleli, ognuno con più o meno variazioni al tema), dove la funzione di scrivere ogni racconto è la condanna di creare ogni volta qualcosa di similmente diverso.
imageI corti di Francesca Piovesan – anche questo è stato giustamente fatto notare – si collocano in un ambito letterario minimalista. Ma in questo semplificato quotidiano e stilistico si aggirano protagonisti, co-protagonisti e comparse, che ne costruiscono man mano il senso. Anzi, possiamo con tutta certezza dire che, nei racconti che compongono A pelle scoperta, spesso i co-protagonisti sono addirittura più importanti dei personaggi principali. Perché – come la donna del tè in “Tarte-Tatin, la badante in “Club sandwich”, la commerciante di “Terzo accesso al mare”, la donna del cinema in “Lo zoo comunale” – i comprimari sono spesso cartine al tornasole, creano un effetto di specchi in ogni singolo frammento narrativo che permette, sia pure in maniera indiretta, forse nemmeno così precisa, di far vedere o intuire almeno, al lettore, la realtà interiore dei protagonisti (e direi che, da questo punto di vista, la copertina del libro è davvero ben scelta).
E qual è questa realtà? È la dinamica tra generazioni, condizioni, desideri, cogitazioni, tensioni, in cui sempre si incastra, tra cui sempre si siede il convitato scomodo che è l’amore o una simile condivisione profonda. Un amore che, però, proprio non riesce ad avere il colore della passione, ma che dilava nel bianco (e, in un caso, addirittura pare alludere al suo contrario). Un bianco non sempre colore, ma anche grado zero, assenza del colore: che è, dunque, memoria di vitalità e di purezza, ma soprattutto impasse, paura della pagina bianca ancora da scrivere, indecisione, potenzialità inespressa di un legame o di una separazione mai definitivi, la coda mozzata di una lucertola che allude a una salvezza e a una speranza, ma chissà se avrà modo di ricrescere.

L’amore è una dinamica bianca, sembra, così, dirci Francesca Piovesan. Quel mar dei Sargassi che è porzione di Oceano e che pure non ha spiagge. Che brucia senza riparo la nostra pelle di «scimmie nude», che ci costringe bulimici a cambiare di continuo camicie e amori, solo per frapporre ancora un’ultima barriera all’altro.

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imageLa scheda del libro: “A pelle scoperta” di Francesca Piovesan (Arkadia)

A pelle scoperta è il racconto della pelle che le persone tendono a coprire per sentire meno. In questa raccolta di racconti, invece, c’è lo svelamento, l’esposizione al sole o alle intemperie di tutto quello che riceviamo attraverso la pelle e il corpo: le emozioni, le paure, la passione che nasce o viene dimenticata. I protagonisti vivono in quadri della quotidianità che si svela sotto i loro occhi attraverso situazioni comuni che diventano le porte per una sensibilità a volte al limite della sopportazione. Una sensibilità fatta di sensi di vista, di olfatto. Una sensibilità che si interroga poco sulla sua moralità se quello che fa vivere in quell’istante è un bene accettato da tutti o un male da osservare sdegnati. A pelle scoperta è un territorio di incontri di verità, che spesso fatichiamo ad accettare, di liberazione da categorie prestabilite, una costante e lenta rivoluzione del corpo che si riconosce nella pelle di chi incontriamo.

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Francesca Piovesan nasce in un primo luglio troppo caldo per tutti nel 1982. Vive in provincia di Venezia, a pochi chilometri dal mare, con un marito e due gatti maschi. Ha pelle troppo chiara e capelli rossi. Dopo aver lavorato per anni nel recupero crediti ha riscoperto la scrittura e pubblicato racconti su “Cadillac” e “Ammatula”. Crede negli unicorni e in tutto quello che le resta incastrato negli occhi. Ama la pizza, la pasta, il pesce crudo, le canzoni italiane e ballare.

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