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MARTA BARONE racconta CITTÀ SOMMERSA

Maggio 9, 2020

Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: MARTA BARONE racconta il suo libro CITTÀ SOMMERSA (Bompiani). Libro candidato all’edizione 2020 del Premio Strega

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di Marta Barone

Città sommersaLa storia di come Città sommersa è nato è già dentro il libro. Un padre muore; una figlia non riesce ad attraversare il lutto per le troppe cose non dette e le lacerazioni rimaste aperte e in qualche modo lo lascia da parte, non riesce a guardarlo; un paio di anni dopo quella figlia, che si è trasferita in un’altra città dopo la laurea e che una volta scriveva e aveva pubblicato libri per ragazzi, ma è impantanata da anni in un silenzio fangoso, a cercare di scrivere un libro nato già morto perché basato su delle idee ma senza una storia, torna a casa e quasi per accidente ritrova la memoria difensiva su un processo per partecipazione a banda armata a cui suo padre è stato sottoposto negli anni ottanta. La figlia sa già, molto vagamente, del processo e del carcere: ma dentro quelle pagine, che sono solo un riassunto degli eventi – l’accusa è di aver curato, lui medico operaio, un ferito di Prima linea e di aver “quasi” visitato un’altra terrorista ferita tre anni dopo – si muove un personaggio sconosciuto, interessante, misterioso, che accende una miccia sepolta.
Ora io – che naturalmente sono quella figlia – desideravo sapere qualcosa di quel fantasma sfuggente: e così ho cominciato a cercare persone, a scoprire cose della sua militanza politica nell’estrema sinistra, da Valle Giulia alle lotte operaie e per la casa a Torino, dei suoi amori, delle sue amicizie, del suo bizzarro vagare, della sua generosità e delle sue scelte a volte incomprensibili, di eventi sconvolgenti che dovevano avergli cambiato per sempre la vita e di cui non sapevo nulla, e che mi costringevano a rileggere in una nuova chiave quasi tutto dell’uomo che avevo conosciuto, o creduto di conoscere.

Il materiale mi arrivava dagli amici del tempo e dalle mie lunghe ricerche, durate anni, in archivi, in centinaia di vecchi articoli di giornale, in saggi e faldoni processuali. Avevo di fronte adesso una grande quantità di materiale, soprattutto storico, e anche la storia di un personaggio che però rimaneva piena di buchi, di memoria e di assenze. La sua voce mancava sempre.
Come organizzare tutto questo? Come scriverlo? Non volevo fare né un romanzo tradizionale né una biografia, e volevo che il ritmo seguisse il moto ondoso con cui le cose mi erano arrivate e avevano progressivamente cambiato il mio modo di vedere, mentre io stessa cambiavo e crescevo nel mio mondo presente. Volevo che le due “trame” fossero intrecciate, ma qualsiasi schema provassi mi suonava meccanico e le pagine che avevo buttato giù sempre più lontane da  me. Poi, un giorno, l’illuminazione: rileggevo il passaggio della Recherche dove il giovanissimo Marcel descrive i campanili di Martinville, che gli danno un piacere particolare, e quella descrizione lo soddisfa pienamente. Tempo dopo rileggerà quella paginetta e la troverà invece insoddisfacente. Ecco lo strappo che in quel momento mi si è prodotto in testa: quello che avevo scritto ormai anni prima non era già più né me né le mie idee; erano ancora le convinzioni precedenti, e il fatto che volevo abolirmi completamente dalla storia se non come spettatore. Ora capivo che dovevo entrarci: ma come vero personaggio, ossia non la me presente, più scaltrita e più complessa, ma la me stessa più giovane, più cieca, più fragile eppure rigidissima nelle proprie certezze, e la sottotrama, ciò che avrebbe unito quei tasselli sparsi in un mosaico completo, sarebbe stato il passaggio del mio personaggio dalla cecità iniziale a una visione finale diversa.
A quel punto bisognava solo dare un ordine a tutto quel materiale: ho scartato ciò che era di troppo e ho tenuto ciò che più mi sembrava costituire l’essenza di quel ragazzo sconosciuto, che ho ribattezzato L. B. perché ora anche lui diventava il mio personaggio, staccato da mio padre, Leonardo Barone. Volevo che ci fosse un filo ma sapevo anche che alcune di quelle che nella mia testa ho chiamato “scene”, ossia certi passaggi, potevano anche essere spostati più avanti o più indietro a seconda della necessità narrativa, della tensione o della necessità di spezzarla. Quindi ho preso un blocco di fogli, li ho ritagliati in decine di schede e ho scritto ogni “scena” in sintesi su ciascuna, numerandole ma, in alcuni casi, appuntandomi la libertà di spostarle. C’erano le parti della storia di mio padre, le parti che riguardavano i nostri rapporti, i temi che mi erano più cari: quello del tempo, quello della fragilità della memoria e dell’impossibilità di ricordare tutto e di ricostruire nella sua interezza qualcun altro… Proprio così, per esempio: TEMA DEL TEMPO, 1: piccolo elenco di cose che sarebbero state inserite dove necessario. Avrei usato i documenti reali, quando fosse servito, come li usava Danilo Kiš, che diceva più o meno “quando una cosa reale è talmente inverosimile che se qualcuno se la fosse inventata la troveremmo assurda e fuori posto, allora va usata tale e quale”, e che aggiungeva che la scrittura è una mescolanza del documento, della confessione, del gioco dello spirito. Così ho voluto muovermi.
Non volevo che fosse né un libro “politico” o storico né un memoriale lamentevole: volevo che fosse qualcosa di particolare, con un andamento, appunto, ondoso, avanti e indietro nel tempo, anche nella storia stessa del ragazzo (la sua infanzia perduta arriva quasi alla fine del libro), ma anche un muscolo che pompava in una direzione precisa. Tenevo sempre accanto libri che amavo, da Nabokov a Ortese, perché i blocchi spesso erano tanti, sentivo che la prosa non fosse all’altezza di quello che volevo dire e avevo bisogno di nutrirmi in continuazione delle parole bellissime altrui, che spesso aprivano nuovi squarci e mi permettevano di andare avanti. Desideravo che la prosa fosse alta, e possibilmente bella, che ci fosse spazio per passi più lirici, perché desideravo che si allontanasse il più possibile dalle trappole del gergo giornalistico o saggistico di alcuni passaggi legati alla storia degli anni settanta vera e propria, come le occupazioni o i delitti o la vita degli umili. Volevo che fosse scrittura romanzesca.
Certo, la ricostruzione storica è precisa, anche se i nomi sono cambiati (sempre per libertà narrativa). Ma volevo soprattutto che Città sommersa fosse qualcos’altro: il mistero inscalfibile dell’altro da noi; il racconto della felicità, della speranza e del disinganno solo parziale di una giovinezza davvero straordinaria; la commozione di ritrovare un viso giovane e bambino che non hai mai visto perché non hai mai avuto foto di tuo padre, un viso che ti viene donato da una donna gentile, una prima moglie che ha conservato quelle fotografie per quarant’anni, in un giorno di maggio.

(Riproduzione riservata)

© Marta Barone

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La scheda del libro: “Città sommersa” di Marta Barone (Bompiani)

Il ragazzo corre nella notte d’inverno, sotto la pioggia, scalzo, coperto di sangue non suo. Chiamiamolo L.B. e avviciniamoci a lui attraverso gli anni e gli eventi che conducono a quella notte. A guidarci è la voce di una giovane donna brusca, solitaria, appassionata di letteratura, e questo romanzo è memoria e cronaca del confronto con la scomparsa del padre, con ciò che è rimasto di un legame quasi felice nell’infanzia felice da figlia di genitori separati, poi fatalmente spinoso, e con la tardiva scoperta della vicenda giudiziaria che l’ha visto protagonista. Chi era quello sconosciuto, L.B., il giovane sempre dalla parte dei vinti, il medico operaio sempre alle prese con qualcuno da salvare, condannato al carcere per partecipazione a banda armata? E perché di quel tempo – anni prima della nascita dell’unica figlia – non ha mai voluto parlare? Testimonianze, archivi e faldoni, ricordi, rivelazioni lentamente compongono, come lastre mescolate di una lanterna magica, il ritratto di una persona complicata e contraddittoria che ha abitato un’epoca complicata e contraddittoria. Torino è il fondale della lotta politica quotidiana con le sue fatiche e le sue gioie, della rabbia, della speranza e del dolore, infine della violenza che dovrebbe assicurare la nascita di un avvenire radioso e invece fa implodere il sogno del mondo nuovo generando delusione e rovina. Il romanzo di un uomo, delle sue famiglie, delle sue appartenenze, la sua vita visitata con amore e pudore da una figlia per la quale il mondo si misura e si costruisce attraverso la parola letta e scritta.

Proposto per il Premio Strega 2020 da Enrico Deaglio: «Una giovane donna va in cerca di suo padre, morto di cancro quando era ragazza. Davanti a lei la Città, che un tempo era dominata dalla Fabbrica e dal suo sistema di vita, che nei caffè resiste sulle pareti con “la luce torbida delle carte dei cioccolatini”. Siamo a Torino e Marta Barone indaga sugli oscuri, violenti, ma anche felici Anni Settanta, di cui il padre è stato protagonista, testimone e vittima. “Città sommersa”, denso di pietas non immemore, è un esordio letterario fulminante.»

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Marta Barone è nata e vive a Torino. Traduttrice e consulente editoriale, ha pubblicato tre libri per ragazzi.

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