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LE VERITÀ SEPOLTE di Angela Marsons (un estratto)

luglio 30, 2020

Pubblichiamo le prime pagine di “Le verità sepolte” di Angela Marsons (Newton Compton), romanzo vincitore dell’edizione 2020 del Premio Bancarella

 * * *

La scheda del libro

Quando, durante uno scavo archeologico, vengono rinvenute alcune ossa umane, uno sperduto campo della black country si trasforma improvvisamente nella complessa scena di un crimine per la detective Kim Stone. Non appena le ossa vengono esaminate diventa chiaro che i resti appartengono a più di una vittima. E testimoniano un orrore inimmaginabile: ci sono tracce di fori di proiettile e persino di tagliole da caccia. Costretta a lavorare fianco a fianco con il detective Travis, con il quale condivide un passato che preferirebbe dimenticare, Kim comincia a investigare sulle famiglie proprietarie e affittuarie dei terreni del ritrovamento. E così, mentre si immerge in una delle indagini più complicate mai condotte, la sua squadra deve fare i conti con un’ondata di odio e violenza improvvisa. Kim intende scoprire la verità, ma quando la vita di una sua agente viene messa a rischio, dovrà capire come chiudere al più presto il caso, prima che sia troppo tardi.

* * *

Le prime pagine del libro vincitore del Premio Bancarella 2020: “Le verità sepolte” di Angela Marsons (Newton Compton Editori – traduzione di Nello Giugliano)

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Prologo

Justin abbassò lo sguardo sulla lama sospesa sopra il polso. Il coltello
apparteneva alla madre; ma la mano che tremava era la sua.
Per un secondo fu sopraffatto dagli aspetti pratici del gesto che
aveva deciso di compiere. Aveva scelto il coltello giusto? Ce n’erano
così tanti. Nel cassetto delle posate. Nel ceppo di legno. Più un set
di coltelli in argento, ancora conservati nella confezione decorata.
Il coltello che stringeva in quel momento non era stata la sua prima
scelta. All’inizio aveva optato per il più grande e minaccioso tra
quelli contenuti nel cassetto. Con la lama seghettata. Una fila di denti
aguzzi, come le creste di una catena montuosa.
Il manico gli aveva dato una bella sensazione, ma l’idea di quelle
zanne che gli laceravano la pelle l’aveva fatto desistere. Era buffo:
pur essendo sul punto di togliersi la vita, aveva paura del dolore.
L’aveva rimesso nel cassetto per prenderne un altro. Lungo ed
elegante, con il manico più spesso, più consistente. L’aveva visto
tante volte in mano a sua madre, che lo usava per affettare l’arrosto
della domenica.
Si sentì trapassare da una fitta di tristezza, mista a rammarico.
Ricordò come, la domenica, sedeva sempre accanto alla sua sorellina,
aspettando con ansia il pasto più atteso della settimana. La madre
metteva in tavola ogni piatto con grande attenzione, quasi fosse
una cerimonia. Con un’espressione orgogliosa. Justin sentì un nodo
alla gola quando realizzò che sua madre non avrebbe più provato
orgoglio pensando a lui.
Restò con il coltello sospeso a mezz’aria mentre si chiedeva se c’era
un modo per tornare a quei giorni: ai primi anni dell’adolescenza,
quando gli bastava sentirsi parte della famiglia. Le gite, le vacanze
al mare, la rosticceria e i film la sera.
Provò a deglutire, a fatica.
Ormai non era più quel ragazzo. Non lo era da cinque anni. La
rabbia che giaceva sopita in lui era divampata come un incendio.
Sapeva cosa doveva fare.
Gli si piantò nella mente il volto di sua madre. L’angoscia che
provava era una sensazione quasi fisica.
Lanciò uno strillo quando passò la lama lungo il polso.
Tracciò un graffio che andava a incrociare alcuni dei patetici tentativi
fatti in precedenza: questa volta almeno fu ricompensato da
una bollicina di sangue all’estremità di una riga sottile come un filo
di cotone. Era pur sempre un passo avanti.
Il volto della madre campeggiava ancora nella sua mente; un volto
animato da comprensione e perdono. La stessa espressione che gli
aveva rivolto quando era stato sospeso a scuola per aver preso a pugni
un ragazzo, durante la ricreazione. O quando aveva rubato la bici di
un amico e aveva rotto la ruota anteriore. Quelli erano stati errori,
e lei l’aveva perdonato.
Ma questa volta era tutto diverso.
Mai prima di quel momento, in diciotto anni di vita, aveva provato
il desiderio di portare indietro le lancette dell’orologio. Da un paio
di giorni non pensava ad altro, ora dopo ora. Ma non era per sé che
provava rammarico. Non si sarebbe mai sposato. Non avrebbe mai
portato una ragazza a casa per farle conoscere sua madre. Non avrebbe
mai avuto figli. Eppure, era per sua madre che provava dispiacere.
Stava per toglierle ogni speranza di avere un nipote.
Nella mente, il volto di lei cambiò, divenne perplesso, confuso,
quasi titubante.
E Justin si sentì dilaniare dal dolore di sua madre.
Perché lei avrebbe dubitato di sé stessa. Si sarebbe chiesta dove
aveva sbagliato, se non fosse tutta colpa sua.
E, al pensiero, Justin sentì le lacrime che gli bruciavano gli occhi.
«È tutto sbagliato», sussurrò, cominciando a scuotere il capo.
Non sopportava l’idea che sua madre potesse prendersela con sé
stessa. Non era affatto colpa sua. Aveva fatto tutto da solo.
Lasciò andare il coltello e rovistò nel primo cassetto del comodino,
per tirarne fuori un taccuino e una penna.
Sapeva di non avere alternative. Lo sapeva da due giorni. Ma la
madre non doveva passare il resto della vita nella vergogna a causa
delle sue scelte. Justin non si sarebbe mai perdonato per ciò che aveva
fatto e, per quanto potesse provarci, neanche lei ci sarebbe riuscita.
Si fermò al ricordo del volto impotente e terrorizzato che lo guardava,
pieno di confusione, in cerca di un motivo, di una ragione per
quello che lui stava facendo. Era una domanda alla quale, all’improvviso,
non era in grado di rispondere, una domanda che lo nauseava
nel profondo. E quegli occhi, oddio, quegli occhi, pieni di paura,
avevano smascherato la vergogna nel suo cuore. Solo in quel momento
aveva davvero capito cos’era diventato. L’oscurità della sua
stessa anima gli aveva tolto il respiro. Si era trasformato in un mostro.
E non sarebbe finita con lui. In realtà, era solo l’inizio. Sarebbero
arrivati l’odio e la morte, e Justin era troppo vigliacco per fermarli.
Mise il messaggio per la madre sul cuscino e riprese il coltello.
Con impugnatura ferrea e mano salda, si concentrò sulla vena del
polso.
Squarciò la pelle con la lama.
Questa volta, faceva sul serio.

* * *

1

«Bryant, svolta a sinistra», esclamò Kim quando udì le sirene in
lontananza.
Con un grande stridore di freni, l’auto affrontò la curva in derapata
ed entrò in una zona industriale.
«Ma non stavamo tornando a casa?», borbottò l’agente.
Kim ignorò il collega e fece saettare lo sguardo a sinistra, in avanti,
a destra e poi indietro, attenta a cogliere un eventuale guizzo tra gli
edifici bui.
«Capo, lo sai, vero, che ci sono anche altri poliziotti a West
Mid…».
«Siamo a meno di un chilometro da una rapina a mano armata
con dei feriti, e tu pensi solo al pasticcio di carne con il purè?», lo
interruppe brusca lei. D’altro canto, era colpa di Bryant se aveva
lasciato la radio accesa.
«Hai ragione», ammise il sergente. L’idea della cena contava ben
poco al cospetto di un innocente che stava perdendo litri di sangue
per una coltellata allo stomaco.
«Scommetto che è qui, da qualche parte», disse Kim socchiudendo
gli occhi per scrutare nell’oscurità.
In base alla descrizione, sospettava che l’uomo che stavano cercando
fosse Paul Chater, prolifico taccheggiatore diciannovenne che lei
stessa aveva più volte portato in centrale sin da quando di anni ne
aveva undici.
Il ragazzo era stato bandito da tutti i centri commerciali e i negozi
del centro, uniti in una rete di informazioni all’interno della quale
la sua foto aveva ottenuto più visualizzazioni del video porno di una
star dei reality show.
«Perché mai si sarebbe spinto fin qui?», chiese Bryant.
a meno di trecento metri dal negozio, e il giovane
guidava un motorino tutto scassato con la marmitta ormai inservibile.
Di sicuro avrebbe fatto in modo di allontanarsi quanto più in fretta
possibile dalle vie principali.
«Potremmo girare entrambi per un’ora senza incontrarci», aggiunse
Kim.
«Quindi sa anche che lo cercheremo qui?», domandò il collega.
«Non a bordo di una Astra Estate», gli rispose. «Farà più attenzione
a quelle maledette sirene».
Da qualche anno, Paul Chater limitava l’esercizio della sua professione
ai piccoli negozi, con poche telecamere a circuito chiuso o
nessuna. E le frequenti sortite in carcere erano per lui un rischio del
mestiere, nonché un meritato riposo; ma l’uso del coltello rappresentava
un’escalation.
Kim abbassò il finestrino nella speranza di cogliere il ronzio della
motoretta, ma gli ululati delle sirene sempre più vicine non aiutavano.
«Capo, non lo trovere…».
«Eccolo», esclamò lei puntando il dito oltre il parabrezza.
Bryant pigiò l’acceleratore.
«No, non lo inseguire», lo ammonì Kim. «Sta cercando un posto
dove nascondersi. Se lascia il motorino e scappa a piedi, non lo
beccheremo mai».
Si sforzò di pensare in fretta. «Arriva in fondo alla strada, gira a
destra e poi a sinistra».
Se Chater aveva un minimo di buon senso, si sarebbe diretto verso
l’estremità occidentale di quella zona, che finiva a ridosso di un argine
ripido dal quale si accedeva all’alzaia del canale, ma per arrivarci
doveva prima percorrere circa ottocento metri di rettilineo.
Quando attraversarono il parcheggio di una ferramenta per piombare
in strada, Chater entrò nella loro visuale: era diretto proprio
dove aveva previsto lei.
«Raggiungilo», ordinò Kim.
Bryant schiacciò l’acceleratore.
Chater si guardò alle spalle.
«Più veloce», esortò lei.
Il suono delle sirene le comunicò che le autopattuglie erano arrivate
nel quartiere, ma sapeva che ormai non potevano raggiungerlo.
«Vagli accanto», disse, mentre abbassava il finestrino.
Mancavano duecento metri all’argine.
«Capo, cosa stai…».
«Accosta», gridò Kim quando si trovò in parallelo con Chater.
«Accosta», ripeté, faccia a faccia col giovane stupito.
Centocinquanta metri.
«Capo, non fare nulla di…».
«Ferma questa cazzo di carretta», strillò lei.
Tra cento metri, il ragazzo avrebbe gettato via il motorino per
scappare a piedi.
Il vecchio trabiccolo proseguì a scatti.
«Portami più vicino», disse Kim, col fiato corto.
«Non vorrai mica…».
«Bryant, gliel’ho già chiesto con le buone», lo interruppe lei, girandosi
a guardarlo.
Cinquanta metri, e ormai erano all’altezza del suo avambraccio
sinistro.
Kim esitò solo per un istante, poi ripensò al messaggio radio sul
signor Singh che continuava a perdere sangue nel suo negozio.
Venticinque metri.
Afferrò la maniglia e aprì la portiera, colpendo piano una coscia
del giovane.
Bryant frenò e il motorino cadde a sinistra, lontano dalla loro auto.
Kim spalancò la portiera e corse fuori. Chater si alzò e partì a tutta
velocità verso l’argine.
Il suono delle sirene proveniva ormai da ogni direzione quando lei
coprì i tre metri che la separavano dal ragazzo.
Saltò in avanti mentre lui stava per arrivare in cima al rialzo.
«Beccato», esclamò atterrandogli addosso. La cerniera della giacca
da motociclista le premette contro il ventre e, allo stesso tempo,
affondò nella schiena di Chater.
Lui, con un gemito, provò a scrollarsela di dosso.
Kim lo rigirò e lo guardò in faccia, oltre la visiera del casco.
«E va bene, stronzetto», fece e gli si mise a cavalcioni sullo stomaco.
«Che hai combinato questa volta?»
«Levati di dosso, stronza», rispose lui, dimenando il bacino come
Ricky Martin.
Kim gli serrò le cosce contro le costole. «Dov’è il coltello, Paul?»
«Non c’era nessun coltello», protestò Chater.
La bocca fu rapida a formulare la risposta, ma gli occhi smentivano
le parole.
«Dov’è, Paul?», chiese lei, stringendogli un polso.
«Te l’ho detto, non c’era nessun cazzo di coltello», gridò il giovane,
ora che era riuscito a farsi coraggio. «Volevo solo qualche sigaretta,
hai capito?».
Kim si sentì pervadere dalla rabbia al pensiero di un uomo innocente
che stava morendo dissanguato nel suo negozio. La vita appesa
a un filo, perché quel coglioncello non voleva pagarsi le cicche.
«Allora trovati un lavoro e compratele», gli rispose, stringendo
ancor più la presa mentre un’autopattuglia parcheggiava di sghembo
sul marciapiede.
Guardò il suo collega, ora fermo in piedi accanto alla loro vettura,
con le braccia conserte. «Sai, Bryant, li odio davvero quelli convinti
che gli sia tutto dovuto».
«Lo portiamo in centrale, detective?», chiese uno degli agenti appena
arrivati, mentre sopraggiungeva una seconda volante.
Lei annuì e si raddrizzò in tutto il suo metro e ottanta di altezza, per
togliersi poi un rametto dai capelli neri a spazzola. Tornò a rivolgersi
al giovane riverso al suolo. «Sei sempre stato un cazzone, Paul, ma
ora sei un cazzone con un coltello, e ciò significa che resterai al fresco
per un bel pezzo», sibilò prima di consegnarlo agli agenti. «L’arma
sarà da qualche parte qui nel quartiere, ragazzi», aggiunse.
«I vostri problemi non finiscono mica qua, porci», dichiarò Chater
con disprezzo. «Ce ne sono un sacco come me, in strada, e stanno
per arrivare…».
«Oh, questo lo so, ma… come si dice: un passo per volta».
Tornò dal collega che la stava aspettando e scuoteva il capo in
silenzio. Kim si ripulì le mani dalla polvere e sorrise: una canaglia in
meno in giro per le strade.
«Okay, Bryant. Ora puoi tornartene a casa e pensare alla cena».

(Riproduzione riservata)

© Newton Compton

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Angela Marson ha esordito nel thriller con Urla nel silenzio, bestseller internazionale ai primi posti delle classifiche anche in Italia. La serie di libri che vede protagonista la detective Kim Stone prosegue con Il gioco del male, La ragazza scomparsa, Una morte perfetta, Linea di sangue e Le verità sepolte. Vive nella Black Country, in Inghilterra, la stessa regione in cui sono ambientati i suoi thriller. I suoi libri hanno già venduto più di 3 milioni di copie. Per saperne di più: http://www.angelamarsons-books.com

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