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LA COMMEDIA DI DANTE: i superbi del canto XI del Purgatorio

febbraio 9, 2021

PictureIn occasione del 700esimo anniversario della morte di Dante Alighieri, Antonio Di Grado si sofferma sul canto XI del Purgatorio, quello dei superbi

Un “tumore”, la superbia, radicato nella natura umana e proliferante dalle sue stesse fibre, ad esse organico e connaturato

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di Antonio Di Grado

Settecent’anni dalla morte di Dante, per me un’occasione per tornare alla cantica della Commedia che più amo: il Purgatorio. E rileggendo il canto XI, quello dei superbi, ancora una volta mi è capitato di veder splendere la luce dei versi danteschi attraverso i secoli, fino a illuminare gli anfratti più riposti del mondo d’oggi. Non leggo quel canto da dantista quale non sono, provo a farlo da uomo di pena come tutti, da anima espiante come le anime di quel Purgatorio che consentì a Dante di raffigurare compiutamente la condizione umana, l’incertezza, la sospensione, l’ambivalenza, gli indugi di noi comuni mortali, al tempo stesso avvinti al peccato e anelanti la salvezza, con le mani sporche dell’opera del mondo e gli occhi rapiti da un miraggio di luce.
https://letteratitudinenews.files.wordpress.com/2020/02/antonio-di-grado.jpgE provo a far mia l’ascesi dantesca, che proprio in questo canto raggiunge un punto nevralgico, giacché per il poeta si tratta di emendare il suo peccato, quella superbia intellettuale che pur lo fa sentire meritevole di una investitura divina, di un mandato di redenzione universale. E infatti a due forme di superbia allude il canto XI: e intanto a quella politica, nella duplice incarnazione della vecchia aristocrazia feudale impersonata da Omberto Aldobrandesco e della nuova élite borghese dei Comuni rappresentata da Provenzan Salvani. Due forme di potere che si susseguivano in quella drammatica fase di transizione in cui Dante visse, impegnato nell’agone politico del Comune borghese ma nostalgico della “cortesia” aristocratico-feudale (è come se volesse liberarsi, ora, di entrambi quei vincoli, ed è come dire oggi che tutte le forme del potere, qualunque bandiera innalzino, sono intrise della stessa tracotanza). E poi c’è la superbia dell’artista, incarnata dal miniaturista Oderisi che sovrasta gli altri personaggi, e con Dante, sodale nelle arti ma anche nel peccato, interloquisce.
La dichiarazione di modestia che a Oderisi come a tutti i superbi si impone (“più ridon le carte / che pennelleggia Franco bolognese”) è tuttavia espressa mediante un azzardo metaforico (quelle carte che sorprendentemente “ridono”, che risplendono con coloriture più accese e sgargianti, che gioiscono della loro raggiante bellezza) che manifesta un’esibita maestria in “quell’arte / ch’alluminar è chiamata in Parisi” e nelle estreme squisitezze del gotico fiorito. Di quei virtuosismi coloristici Oderisi non può che esser fiero nello stesso momento in cui fa ammenda del suo protagonismo cedendo il primato al rivale bolognese, così come Dante non pensa certamente di svalutare asceticamente l’arte poetica e l’eccellenza che vi ha raggiunto, né di rinunziare all’orgoglio che ne deriva, quando fa passare la palma della gloria dalle mani dell’uno a quelle dell’altro Guido (Guinizelli e Cavalcanti) e velatamente, ma immodestamente, preconizza di poterla lui stesso da lì a poco vantare.
Perché non sono in gioco le ragioni dell’arte, ma la pretesa stessa del primato: la “vana gloria de l’umane posse”, la pretesa cioè (e questa sì prova di peccaminosa superbia) di far dell’arte e della propria maestria e della fama strumenti di potere, non meno vessatori di quelli della politica rappresentati dall’Aldobrandeschi e dal Salvani. Arte e politica: due realtà perennemente in conflitto, e non solo per loro natura (perché il potere politico non tollera il dubbio e il dissenso, vocazioni dell’intellighenzia, e l’artista non si adatta al mondo com’è, in cui viceversa vegeta il politico) ma fors’anche perché speculari, perché ree della stessa arroganza, nel pretendere l’una protezione dalla politica che pur si dovrebbe avversare e l’altra obbedienza da arti e saperi come fossero anonime burocrazie o zelanti comitati elettorali. Temi, questi, tristemente attuali.
Non casualmente il canto si conclude con una delle non poche profezie dell’esilio dantesco disseminate nel poema: quell’esilio è effetto dei conflitti della rissosa Firenze di fine secolo, dove un poeta e un pensatore come Dante pur si sviliva nel commercio delle alleanze e degli interessi, ed è causa di nuove mortificazioni e penose sudditanze, che tuttavia lo affrancheranno dai compromessi pretesi dalla politica cittadina e dilateranno all’intera umanità il destinatario del suo messaggio e ben oltre, addirittura a Dio, il suo mandante. Voglia quel Dio che intellettuali e artisti da quei vincoli si affranchino definitivamente, e sappiano far “parte per se stessi” anziché “scendere e salir per l’altrui scale”.
Portrait de Dante.jpgCon toni aspri da Qohelet vetero-testamentario, Dante denunzia la radicale nullità dei primati terreni e la patetica illusione di chi a tutt’oggi li ritenesse duraturi e li fissasse in un canone. E a questo pessimismo di matrice biblica perciò può associarsi una modernissima consapevolezza della storicità dei fenomeni culturali ed artistici, del loro divenire e avvicendarsi e soppiantarsi: di una storia, dunque, delle arti e della letteratura fatta di scarti e innovazioni, di rotture polemiche e di nuove sperimentazioni, come quelle giottesche rispetto al magistero di Cimabue, o quelle di Cavalcanti rispetto all’esempio guini­zel­liano. E che sia proprio Cavalcanti, alla cui ombra imponente Dante aveva fatto riparo al suo esordio, a venir destinato all’archiviazione ad opera di Dante stesso, è prova ulteriore di superbia intellettuale così come di altrettanta superbia, ma questa volta di natura religiosa, Dante aveva dato prova nel canto X dell’Inferno, sempre ai danni di Cavalcanti, rimarcando al cospetto dell’attonito padre dell’amico d’un tempo la natura soprannaturale del suo mandato, inaccessibile a Guido.
Un cammino accidentato e irto di contraddizioni, quello dell’ascesi dantesca, di una purificazione meno lineare e progressiva di quanto suole apparire e di quanto il poeta stesso avrebbe voluto, e tanto più in questo Purgatorio dove il peccato e la sua espiazione acerbamente convivono. Tant’è che il poeta può sentirsi indotto da Oderisi a pronunziare un penoso atto di dolore: “Tuo vero dir m’incora / buona umiltà, e gran tumor m’appiani”.
Un “tumore”, la superbia, radicato nella natura umana e proliferante dalle sue stesse fibre, ad esse organico e connaturato: e tanto più quando sono affinate e stremate dall’esercizio orgoglioso dell’intelligenza, da quella scienza arida e arrogante che oggi subiamo come inerte accumulo di nozioni, metastasi di cifre, arida ratio tecno-aziendale. Alla quale Dante oppone in principio del canto un Padre Nostro parafrasato e riscritto nel segno di una francescana umiltà (“laudato sia ‘l tuo nome e ‘l tuo valore / da ogne creatura, com’è degno / di render grazie al tuo dolce vapore…”).
“Dolce vapore”: che bella definizione del Figlio di Dio. Tutt’altro che evanescente, Gesù. Eppure è così insolita e suggestiva questa figura di vibratile emanazione, questo Cristo come vaporoso guizzo del respiro cosmico, come teofania soavemente impalpabile. E così estraneo, nella sua leggerezza, dal peso opprimente dei poteri terreni e della loro irredimibile superbia…

© Antonio Di Grado

 

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Il testo del Canto XI: “Purgatorio” – “La Divina Commedia” di Dante Alighieri

Canto XI, nel quale si tratta del sopradetto primo girone e de’ superbi medesimi, e qui si purga la vana gloria ch’è uno de’ rami de la superbia; dove nomina il conte Uberto da Santafiore e messer Provenzano Salvani di Siena e molti altri.

 

“O Padre nostro, che ne’ cieli stai,
non circunscritto, ma per più amore
ch’ai primi effetti di là sù tu hai,

laudato sia ’l tuo nome e ’l tuo valore
da ogne creatura, com’è degno
di render grazie al tuo dolce vapore.

Vegna ver’ noi la pace del tuo regno,
ché noi ad essa non potem da noi,
s’ella non vien, con tutto nostro ingegno.

Come del suo voler li angeli tuoi
fan sacrificio a te, cantando osanna,
così facciano li uomini de’ suoi.

Dà oggi a noi la cotidiana manna,
sanza la qual per questo aspro diserto
a retro va chi più di gir s’affanna.

E come noi lo mal ch’avem sofferto
perdoniamo a ciascuno, e tu perdona
benigno, e non guardar lo nostro merto.

Nostra virtù che di legger s’adona,
non spermentar con l’antico avversaro,
ma libera da lui che sì la sprona.

Quest’ultima preghiera, segnor caro,
già non si fa per noi, ché non bisogna,
ma per color che dietro a noi restaro”.

Così a sé e noi buona ramogna
quell’ombre orando, andavan sotto ’l pondo,
simile a quel che talvolta si sogna,

disparmente angosciate tutte a tondo
e lasse su per la prima cornice,
purgando la caligine del mondo.

Se di là sempre ben per noi si dice,
di qua che dire e far per lor si puote
da quei c’ hanno al voler buona radice?

Ben si de’ loro atar lavar le note
che portar quinci, sì che, mondi e lievi,
possano uscire a le stellate ruote.

“Deh, se giustizia e pietà vi disgrievi
tosto, sì che possiate muover l’ala,
che secondo il disio vostro vi lievi,

mostrate da qual mano inver’ la scala
si va più corto; e se c’è più d’un varco,
quel ne ’nsegnate che men erto cala;

ché questi che vien meco, per lo ’ncarco
de la carne d’Adamo onde si veste,
al montar sù, contra sua voglia, è parco”.

Le lor parole, che rendero a queste
che dette avea colui cu’ io seguiva,
non fur da cui venisser manifeste;

ma fu detto: “A man destra per la riva
con noi venite, e troverete il passo
possibile a salir persona viva.

E s’io non fossi impedito dal sasso
che la cervice mia superba doma,
onde portar convienmi il viso basso,

cotesti, ch’ancor vive e non si noma,
guardere’ io, per veder s’i’ ’l conosco,
e per farlo pietoso a questa soma.

Io fui latino e nato d’un gran Tosco:
Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ’l nome suo già mai fu vosco.

L’antico sangue e l’opere leggiadre
d’i miei maggior mi fer sì arrogante,
che, non pensando a la comune madre,

ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante,
ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.

Io sono Omberto; e non pur a me danno
superbia fa, ché tutti miei consorti
ha ella tratti seco nel malanno.

E qui convien ch’io questo peso porti
per lei, tanto che a Dio si sodisfaccia,
poi ch’io nol fe’ tra ’ vivi, qui tra ’ morti”.

Ascoltando chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li ’mpaccia,

e videmi e conobbemi e chiamava,
tenendo li occhi con fatica fisi
a me che tutto chin con loro andava.

“Oh!”, diss’io lui, “non se’ tu Oderisi,
l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?”.

“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte
che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte.

Ben non sare’ io stato sì cortese
mentre ch’io vissi, per lo gran disio
de l’eccellenza ove mio core intese.

Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.

Oh vana gloria de l’umane posse!
com’ poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l’etati grosse!

Credette Cimabue ne la pittura
tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido
la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

Non è il mondan romore altro ch’un fiato
di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.

Che voce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il ’pappo’ e ’l ’dindi’,

pria che passin mill’anni? ch’è più corto
spazio a l’etterno, ch’un muover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto.

Colui che del cammin sì poco piglia
dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
e ora a pena in Siena sen pispiglia,

ond’era sire quando fu distrutta
la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo sì com’ora è putta.

La vostra nominanza è color d’erba,
che viene e va, e quei la discolora
per cui ella esce de la terra acerba”.

E io a lui: “Tuo vero dir m’incora
bona umiltà, e gran tumor m’appiani;
ma chi è quei di cui tu parlavi ora?”.

“Quelli è”, rispuose, “Provenzan Salvani;
ed è qui perché fu presuntüoso
a recar Siena tutta a le sue mani.

Ito è così e va, sanza riposo,
poi che morì; cotal moneta rende
a sodisfar chi è di là troppo oso”.

E io: “Se quello spirito ch’attende,
pria che si penta, l’orlo de la vita,
qua giù dimora e qua sù non ascende,

se buona orazïon lui non aita,
prima che passi tempo quanto visse,
come fu la venuta lui largita?”.

“Quando vivea più glorïoso”, disse,
“liberamente nel Campo di Siena,
ogne vergogna diposta, s’affisse;

e lì, per trar l’amico suo di pena,
ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.

Più non dirò, e scuro so che parlo;
ma poco tempo andrà, che ’ tuoi vicini
faranno sì che tu potrai chiosarlo.

Quest’opera li tolse quei confini”.

 

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