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ALBERTO ROLLO racconta IL MIGLIOR TEMPO (Einaudi)

ottobre 4, 2021

Come nasce un romanzo? Per gli Autoracconti d’Autore di Letteratitudine: ALBERTO ROLLO racconta il suo romanzo “Il miglior tempo” (Einaudi)

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Una strada davanti.
Dal laboratorio di scrittura di Il miglior tempo.

di Alberto Rollo

C’era l’immagine di un giovane, un’immagine non ancora delineata ma in cui intravedevo tutto quello che mi suscita curiosità, ammirazione, dispetto, sgomento, perplessità nei ventenni che ho modo di frequentare, mia figlia compresa.
C’era questa immagine che si agitava e prendeva contorni suoi. Mi rendevo conto che alla figura concepita in autonomia si sommava la memoria di Christopher McCandless (Nelle terre estreme. Into the wild) così come lo raccontano Jon Krakauer nel libro del 1997 e Sean Penn nel film tratto da quella ricostruzione. Christopher non aveva la mia simpatia, né mi era chiaro come stimolasse una equivoca empatia in moltissimi ragazzi di buona famiglia che ne avevano fatto il loro idolo. Che lo volessi o meno, la figura che avevo in mente io aveva qualcosa di quella spinta verso l’estremo, apparteneva allo stesso caos, allo stesso dissesto interiore, allo stesso narcisismo sacrificale.  E così ho cominciato a scrivere di Filippo “Cantor” Castelli.
Cantor si è presentato con seduttiva fierezza e ha chiesto che lo seguissi.
È così che succede: solo quando un’immagine ha la temperatura di una ossessione le si può dar corpo e speranza di esistere. Cantor aveva i tratti di un dongiovanni naturale, di un inquieto esploratore della sua contemporaneità, di un compagno di coetanei che non gli somigliavano ma gli offrivano la possibilità di stare nel mondo. E adesso eccolo lì.
Tanta della sua inquietudine – è evidente – viene dalla mancanza di un adulto di riferimento (ha un fratello sceso in campo nella politica e un padre, scomparso troppo presto, che ha lasciato ai due figli un ricco studio notarile) e ora, se lo ripete esplicitamente, è alla ricerca di un maestro. Niente di più comune e comprensibile. Ma la domanda vera che mi sono fatto mentre riconoscevo nel cuore del personaggio questa urgenza è stata: ma ci sono ancora maestri? figure capaci di trasferire sapienza, modelli, esperienza? capaci di farlo con l’autorevolezza e con la ricchezza che un rapporto tanto delicato esige? Non sono forse gli adulti diventati, nei casi migliori, guide “settoriali”, vale  a dire orientati a trasferire “tecniche” e non concezioni dell’esistenza, o addirittura visioni del mondo? Non ha la pratica del cinismo (invero molto diffusa) consumato le radici di un vero magistero? Non lo sapevo. Quel che sapevo era che dovevo lasciar muovere il giovane Cantor in questa ricerca. Ed è lì che è spuntato il personaggio del dottor Romagnoli, un pediatra in pensione, vedovo, chiuso fra le pareti (spesso anche domestiche) foderate dalla musica che ama – soprattutto quella romantica di Robert Schumann, Franz Lizts, Chopin, Mendelshonn. Cantor fa visita al suo ex pediatra e cerca di appartenere a quell’atmosfera di ascolto appassionato. Chi l’ha avviato nella vita una volta, può forse aprirgli un altro varco nell’esistenza?
Il vero risultato di questa relazione è che il dottor Romagnoli, anche quando viene sollevato dall’incarico – eh sì Cantor non gli riconosce lo statuto di magister – resta a monitorare la vita di Cantor, l’amore per la bella Anna, le frequentazioni dei centri di accoglienza, l’amicizia per l’avvocato pakistano Sabir Choudhry.
Romagnoli è costretto a riprendere i fili della propria vita in mano e a rileggerla attraverso la fuga in avanti di Cantor. Fuga in avanti. Sì. Fra l’inquietudine originaria e quella che si racconta in questo romanzo c’è un episodio traumatico: Cantor assiste a un incidente e vede morire un suo coetaneo sbalzato dalla moto. Una morte inutile consumata nel clamore di una nottata metropolitana, fra il pompare di musica che viene dai locali della movida e uno stuolo di astanti ridotti all’immobilità dalla tragedia. Insomma una morte inutile. A quel punto la ricerca di maestri diventa per Cantor una scatenata rincorsa di figure, le più diverse (un muratore, un artigiano, un sacerdote), attraverso l’Italia, dal Veneto ai campi di pomodori del Sud, maturando un obiettivo sempre più estremo, sempre più “totale”.
La vicenda di Cantor viene narrata in terza persona ma è accompagnata da capitoli alterni in cui prende la parola il dottor Romagnoli. Questo doppio binario si è presentato come una soluzione naturale. Va da sé: avevo bisogno di poter utilizzare un filtro per guardare a Cantor da una certa distanza e la voce di Romagnoli – e a quel punto la profondità prospettica della sua storia – si colmava sempre di più di spessore e di dettagli.
Mi piacciono i dettagli. Mi piacciono più i dettagli della logica sequenza degli eventi – che pur esiste ed è necessaria.  Il miglior tempo è un romanzo che chiama all’appello personaggi molto diversi fra sé e a ciascuno progressivamente attribuisce uno sviluppo. Il motore della storia è dentro il rumore che fanno i personaggi intorno a Cantor e a Romagnoli. In fondo la fuga in avanti di Cantor e il fermento di attenzione che essa suscita producono una “unità” che somiglia sempre di più a una sorta di sgangherata famiglia. Eggià, all’improvviso mi sono trovato di fronte a questa inattesa evidenza.
Da qui il dettaglio. Un dettaglio che innanzitutto lavora nella costruzione delle figure di questo singolare mosaico.
C’è un pranzo di ferragosto in cui la sfilacciata famiglia si trova a casa del dottor Romagnoli: aspettano come tutte le famiglie la chiamata del figlio assente, e Cantor effettivamente chiama.
Siamo nel caos, e in un caos ancora più complicato si trovano le generazioni più giovani. Esiste un tempo migliore per loro? O più drasticamente esiste “un tempo” in cui riconoscersi? La scrittura può solo porre domande.
Cantor non è un personaggio a cui è facile voler bene, ma alla sua ansia di avere una strada davanti, una strada come quella che hanno davanti Charlie Chaplin e Paulette Goddard che appaiono in copertina, a quell’ansia, sì.

(Riproduzione riservata)

© Alberto Rollo

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La scheda del libro: “Il miglior tempo” di Alberto Rollo (Einaudi)

Una giovinezza in fuga e un maestro che non si arrende. Due generazioni si sfiorano: una ricca del tempo che ha vissuto, l’altra incapace di trovare un posto nel tempo, l’una inetta a trasmettere, l’altra incapace di ricevere. Fra l’una e l’altra, la vita che preme con grazia maldestra.

«È come se per lui tutto il mondo fosse in allarme.»

Filippo «Cantor» Castelli è un ventenne che, vorticando fra tante incertezze, di un’unica cosa è sicuro: che non ha avuto maestri, che forse non ce ne sono. Anche se ne ha cercato uno nella vigile figura del dottor Romagnoli, un pediatra che ha lasciato la professione dopo la morte della moglie e che trova conforto nell’ascolto della musica di Schumann. Cantor abbandona tutto, anche la compagna Anna che porta in grembo un figlio suo: tutto abbandona per combattere da solo, romanticamente solo, con un candore che oscilla tra la santità dell’idiota e il narcisismo eroico del sacrificio. Tanto Cantor riceve luce dalla sua affaticata, furiosa innocenza, quanto Romagnoli, che pure è stato traghettatore di piccole vite verso l’età adulta, avverte l’incombere del buio, la memoria mutilata di sentimenti che non lo difendono piú.

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Alberto Rollo (Milano, 1951), attualmente consulente per la Narrativa Mondadori, ha sempre lavorato nel mondo editoriale. È critico letterario e collabora con testate nazionali. Ha tradotto narratori inglesi e angloamericani (Will Self, Steven Millhauser, Jonathan Coe, Truman Capote). Ha esordito nella narrativa con Un’educazione milanese (Manni Editori 2016, finalista Premio Strega, Premio Alvaro-Bigiaretti, Premio Pisa) e nel 2020 ha pubblicato il monologo in versi L’ultimo turno di guardia (Manni Editori, Premio Laudomia Bonanni). Per Einaudi ha pubblicato Il tempo migliore (2021).

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