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UN OCCIDENTE PRIGIONIERO di Milan Kundera (Adelphi)

Maggio 16, 2022

“Un Occidente prigioniero” di Milan Kundera (Adelphi)
Premesse di Jacques Rupnik e Pierre Nora – Traduzione di Giorgio Pinotti

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Segnaliamo con piacere questo volumetto di Milan Kundera intitolato “Un Occidente prigioniero” ed edito da Adelphi con premesse di Jacques Rupnik e Pierre Nora (traduzione di Giorgio Pinotti). Il sottotitolo ha una valenza molto significativa: “O la tragedia dell’Europa centrale”.
«Ci sono congressi di scrittori più importanti, o comunque più memorabili, dei congressi del Partito», scrive Jacques Rupnik nella sua premessa. «Questi ultimi, nella Cecoslovacchia comunista, si susseguivano tutti uguali, mentre i congressi di scrittori potevano essere imprevedibili e talvolta forieri di radicali cambiamenti nei rapporti fra il potere e la società.
Ci sono poi discorsi congressuali che segnano un’epoca e che, riletti oggi, mantengono intatto tutto il loro signi$cato. Subito pensiamo a quello contro la censura pronunciato a Mosca, nel maggio 1967, da Solženicyn, e alla bella canzone di Guy Béart che ha ispirato: « Il poeta ha detto la verità, deve essere giustiziato »… Meno noti sono i sorprendenti discorsi tenuti a Praga, un mese dopo, al Congresso degli scrittori, a cominciare da quello di Milan Kundera.
All’epoca Milan Kundera è uno scrittore di successo, grazie alla pièce Majitelé klíÉu˚ (I proprietari delle chiavi, 1962), ai racconti Amori ridicoli (1963 e 1965) e soprattutto al romanzo Lo scherzo, del 1967 (e dunque coevo al Congresso degli scrittori), che raffigura e chiude un’epoca – e resta associato, per i lettori cechi ma non solo, alla primavera del 1968».
Siamo dunque nel giugno del 1967, poco dopo la lettera aperta di Solženicyn sulla censura nell’Urss; e in Ceco­slovacchia si tiene il IV Congresso dell’Unione degli scritto­ri. Un congresso diverso da tutti i precedenti – me­morabile. Ad aprire i lavori, con un discorso di un’audacia limpida e pacata, è Milan Kundera, allo­ra già autore di successo. Se si guarda al destino della giovane nazione ceca, e più in generale delle «piccole nazioni», appare evidente – dichiara Kundera – che la sopravvivenza di un popolo dipende dalla forza dei suoi valori culturali. Il che esige il rifiuto di qualsiasi interferenza da parte dei «vandali», gli ideologi del regime. La rottura fra scrittori e potere è consumata, e la Primavera di Praga confermerà sino a che punto la rinascita delle arti, della letteratura, del cinema a­vesse accelerato il disfacimento della struttura poli­tica. A questo discorso, che segna un’epoca, si ricol­lega un intervento del 1983, destinato a «rimodella­re la mappa mentale dell’Europa» prima del 1989. Con una veemenza che il nitore argomentativo non riesce a occultare, Kundera accusa l’Occidente di ave­re assistito inerte alla sparizione del suo estremo lem­bo, essenziale crogiolo culturale. Polonia, Ungheria e Cecoslovacchia, che all’Europa appartengono a tut­ti gli effetti, e che fra il 1956 e il 1970 hanno dato vita a grandiose rivolte, sorrette dal «connubio di cultura e vita, creazione e popolo», non sono infatti agli oc­chi dell’Occidente che una parte del blocco sovieti­co. Una «visione centroeuropea del mondo», quella qui proposta, che oggi appare ancora più preziosa e illuminante.

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