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ROMÀNS – Pier Paolo Pasolini

novembre 5, 2015

In occasione del quarantennale della morte di PIER PAOLO PASOLINI (Bologna, 5 marzo 1922 – Roma, 2 novembre 1975) pubblichiamo un estratto dell’introduzione del volume ROMÀNS, di Pier Paolo Pasolini (Guanda – a cura di Nico Naldini)

In collegamento con il forum di Letteratitudine dedicato al quarantesimo anniversario della morte di Pier Paolo Pasolini

INTRODUZIONE

Se si fa attenzione alle date di composizione si vedrà che il racconto lungo Romàns e quello più breve Un articolo per il « Progresso » sono il primo risultato di mimesis realistica della narrativa pasoliniana. La realtà rappresentata: l’ambiente popolare friulano del dopoguerra con le tensioni sociali e ideologiche proprie di un impegno al rinnovamento in atto dalla fine del fascismo.
Un mondo sociale in cui vengono subito distinte, secondo gli schemi del realismo classico, alcune delle sue componenti: il ceto dei piccoli proprietari terrieri, quello dei contadini poveri, mezzadri e fittavoli di proprietà altrui, quello poverissimo dei braccianti. Più in basso ancora, e quasi occultato nella propria miseria, una specie di sottoproletariato di lavoranti a ore che potranno trovare un riscatto solo emigrando all’estero. Se non si tengono a mente queste divisioni di classe, che oggi sembrano del tutto superate ma che alla fine degli anni Quaranta si presentavano agli occhi di Pasolini con tutta la loro dinamica di conflitti nascenti, forse non si capirà il pathos sociale di questi racconti e quanta parte di esperienza del mondo popolare lasciano già intravedere. Il mondo degli « altri » cui Pasolini sentiva di dover sacrificare i suoi privilegi di classe e di cultura. E poiché sono gli altri « che fanno la storia », esigeva un mutamento profondo anche di se stesso. Semplificando all’estremo si potrebbe dire: Pasolini, cresciuto nel mito novecentesco dell’autonomia dell’arte in cui l’unico canone di giudizio era quello estetico e la cultura si svolgeva tutta sotto il segno del tecnicismo e della filologia, attraverso una serie di passaggi razionali ma in cui la passione aveva sempre indicato la strada giusta, aveva commisurato il gusto estetico alle virtù sociali e l’antirealismo tipico della letteratura del Novecento a un’arte asservita a ideali etico-fantastici al cui centro c’era il popolo, oggetto di pietà e di amore. Nessuna remora da parte di Pasolini a denunciare il proprio « populismo », l’« umanitarismo » – che gli furono rimproverati dalla cultura ufficiale della sinistra degli anni Cinquanta – e a considerare il messaggio dei Vangeli alla radice della rivoluzione socialista.
La negazione di ogni tipo di settarismo, la letteratura concepita come dialogo storico e non come monologo metastorico, il primato dell’esperienza esistenziale sul dogma dottrinario sono all’origine di ogni sua svolta, mentre la virtù cristiana della carità unita all’ordine razionale marxista gli aveva consentito non solo delle convinzioni, ma anche delle contraddizioni che hanno dato flessibilità intuitiva al suo pensiero.
« Cristo, facendosi uomo, ha accettato la storia » scrive nel 1954 al poeta cattolico Carlo Betocchi, « non la storia archeologica, ma la storia che si evolve e perciò vive: Cristo non sarebbe universale se non fosse diverso per ogni diversa fase storica. Per me in questo momento le parole di Cristo: ’Ama il prossimo tuo come te stesso’ significano: ’Fa’ delle riforme di struttura’. »
Un personaggio di Romàns si esprime quasi con le stesse parole: « Voi preti non capite quale missione abbiate, oggi, nel mondo. Come spiegarle che Cristo dicendo: conforta gli ammalati, sfama gli affamati ecc., per noi del nostro tempo, voleva dire: Fate delle riforme di struttura? Ma voi sembrate non credere all’universalità della parola di Cristo e al suo valore eterno: se Dio si è fatto uomo, è entrato nel tempo, vuol dire che ha accettato la temporalità, cioè la storia ».
Chi parla è un giovane intellettuale comunista, mite e gentile insegnante di scuola media, in cui Pasolini ha proiettato una parte di se stesso e delle sue esperienze politiche combinandole con quelle religiose di un secondo alter ego trapiantato in un cappellano di paese, Don Paolo, cui sono indirizzate le parole citate.
Le vicende del racconto, datate tra il 1947 e il 1949, hanno per sfondo la pianura friulana tra le rive del Tagliamento e i bastioni delle Prealpi dove Pasolini abitava in quegli anni.
Romàns, un borgo contadino che nei giorni di festa formicola di grida, di canti di ubriachi, di pazzie di gioventù, ha come corrispettivo reale Borgo Runcis situato a San Giovanni, frazione di Casarsa, qui detta Marsure, dove la gente, al contrario che a Romàns, « non è capace nemmeno di ridere ». Anche i personaggi del racconto sono presi dalla realtà. I ragazzi, allegri, alti e solidi come pioppi, appartengono tutti alla «meglio gioventù » che Pasolini ebbe cara in quegli anni. La cellula del partito comunista, la loggia con gli archi a sesto acuto dove vengono appesi i giornali murali in cui si celebrano le polemiche tra i due partiti avversari, il cattolico e il comunista, sono ancora oggi dei solidi edifici… mentre nelle case e nei campi si effonde l’odore antico, materno del Friuli. Don Paolo che fonda una scuoletta gratuita per i ragazzi poveri del paese ed è animato dal mito della redenzione sociale attraverso l’istruzione è il Pasolini di quegli anni, e il suo diario scolastico parafrasa ciò che Pasolini andava scrivendo in quel periodo sull’autogoverno e sulla scuola attiva.
« Si pensa a Pasolini nella scuola » scriverà Andrea Zanzotto, collega per qualche anno ancora ignoto, coetaneo e quasi conterraneo, « alla sua passione didattica, alla sua puntigliosa e ardente volontà di applicare i ’metodi attivi’, nei tempi dell’immediato dopoguerra, quelli, per così dire, di Carleton Washburne e dell’’onestà’ deweyana. Segnalando ai colleghi gli esperimenti di Pasolini, il preside Natale De Zotti da cui egli dipendeva lo definiva ’maestro mirabile’, e così sempre lo definiva ricordandolo in seguito. Tristezza al pensiero degli entusiasmi di quei tempi, col motto ’educazione e democrazia’, che tanti giovani insegnanti (bicicletta, un solo pasto al giorno, stanza non riscaldata) condividevano… »
Altro soggetto autobiografico che fa la prima apparizione in un testo narrativo è quello dell’inclinazione omoerotica. Ma ciò che per comodità qui viene disgiunto – impegno letterario e sociale, scelte politiche, passione didattica, amore per la natura, sessualità – è per la verità indivisibile nell’interazione della personalità profonda di questo Pasolini degli anni friulani, tutta immersa in un’atmosfera di amore – agape, filìa, eros. Amore che non osa dire il suo nome. Qui infatti non si pronuncia mai e il lettore può solo intuirlo nella scena in cui Don Paolo viene trafitto dalla bellezza del giovinetto Cesare Jop, che è puro mistero, un « mistero senza segreti ». E più avanti il lettore dovrà di nuovo impegnarsi a interpretare quella « cosa », entità indefinita eppure incombente che si è rintanata nell’animo di Don Paolo, lo esalta e lo fa soffrire.
Come le virtù dell’eteronomia dell’arte vittoriose sulla « poesia pura » non si erano attuate nella carriera letteraria di Pasolini miracolisticamente bensì attraverso una lunga preparazione intellettuale, così la scoperta dell’eros omosessuale non aveva obbedito ai comuni canoni edonistici ma si era imbattuta in risvolti così drammatici e conflittuali da rendere il giovane lettore di oggi – presumiamo – piuttosto incredulo. Per trovare le testimonianze di un tale conflitto, è preferibile sorvolare le opere maggiori – Petrolio incluso (anzi, soprattutto Petrolio) – dato il loro peso e numero. Ci basteranno qui quelle più immediate, rese agli amici nel fuoco delle confessioni private e che corrispondono cronologicamente alla stesura di Romàns.

(Riproduzione riservata)

© Guanda editore

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La scheda del libro
La vicenda di “Romàns” si svolge negli anni del secondo dopoguerra e ha per sfondo la pianura friulana tra le rive del Tagliamento e i bastioni delle Prealpi. La scena è costituita da un borgo contadino che nei giorni di festa formicola di grida, canti, risa, ma nei giorni feriali ritrova la piena dimensione della povertà e del lavoro umile, nella quale affiorano ormai impeti di rivolta, confusi ideali politici. Romàns è la storia di un giovane prete, del suo arrivo in uno sperduto paesino del Friuli, del suo duro servizio pastorale e del rapido, drammatico processo interiore che lo porterà alla consapevolezza di una realtà sociale che il suo apostolato non riesce ad assorbire del tutto, e anche dell’insanabile contrasto tra la visione del proprio ruolo e gli impulsi più naturali, che lo spingono all’amore per un ragazzo. A Romàns, che si configura quasi come un breve romanzo autonomo, si accosta Un articolo per il «Progresso», un racconto «che vede una volta ancora in azione la ‘meglio gioventù’» (così Nico Naldini nell’introduzione). A questi due testi si aggiunge, a formare un armonico trittico, Operetta marina, narrazione emersa «da una raccolta di carte, frutto di un complesso e mutevole disegno narrativo che ha come oggetto il mare» e che è compresa sotto il titolo Per un romanzo del mare. Nella sua dimensione di «leggenda personale» essa viene a completare e a chiudere il libro esemplare di una felicissima stagione.

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