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IL GIARDINO DELLE MOSCHE di Andrea Tarabbia (un estratto)

agosto 3, 2016

Pubblichiamo l’incipit del romanzo “IL GIARDINO DELLE MOSCHE. Vita di Andrej Cikatilo” di Andrea Tarabbia (Ponte Alle Grazie) – vincitore del Premio Selezione Campiello 2016

Le prime pagine di IL GIARDINO DELLE MOSCHE. Vita di Andrej Cikatilo” di Andrea Tarabbia (Ponte Alle Grazie)

La morte per fame
(1936-1978)

I.

Per molto tempo, non so più nemmeno quanto, io ho vissuto
in luoghi astratti. Stavo qui, nella mia casa o sul posto di lavoro,
eppure non c’ero, disse, ero altrove. Io mi svegliavo
– perché senza dubbio la mattina mi svegliavo – e avevo la
sensazione di non esserci, come se il sonno mi avesse rubato
o continuasse a esistere durante la veglia. Facevo ogni
cosa come se al posto mio ci fosse qualcun altro. Lei deve
credermi: era come se non sapessi chi ero. Questo le chiedo,
di ascoltarmi e credermi, ma non mi domandi, non ancora,
perché io mi sia deciso a raccontare. Ci saranno cose, da qui
in avanti, se avrà pazienza e se avrò la forza di continuare, a
cui non vorrà credere (fatico io stesso!), ma le assicuro che è
tutto vero. Tutto è successo e succede, e voglio che sia chiaro
da subito che ogni cosa che ho fatto, ciò che sono diventato,
mi fa tremare. Io poi ho sempre fatto fatica a ricordare: sul
lavoro, per esempio, mi appuntavo ogni cosa e poi dimenticavo
dove avevo lasciato il biglietto. Anche quello è un luogo
astratto. È stato così per anni: a volte per via di questa mia
sbadataggine perdevo le commesse, o non ero pronto a ricevere
le consegne. Per questo molti si lamentavano di me, i
colleghi e i dirigenti scrivevano delle lettere al soviet in cui
dicevano che il compagno Cˇ ikatilo era uno sfaticato, un sabotatore,
uno che lavorava poco e male per rallentare la
produzione e per questo bisognava sollevarlo dall’incarico.
Io invece sono sempre stato un comunista, fin dalla prima
infanzia ho vissuto e lavorato e lottato per la nostra Grande
Causa Comune. Ho dato tutto a questo Paese, tutto, fin dal
momento della mia nascita. In cambio ho ricevuto… no, non
è ancora il momento per questo: ci sarà tempo per ogni cosa.
Dicevo che sono uno che dimentica. Tuttavia questi fatti,
questa storia e questi nomi io me li ricordo – li ricordo tutti
uno per uno, anche se in certi momenti della mia vita avrei
voluto dimenticarli e fare come se non fosse successo niente.
Anche adesso vorrei averli dimenticati, e invece sono tutti
qui, davanti a me e a questo dito che mi duole e non si muove,
e mi pare quasi, con un piccolo sforzo di concentrazione, di
riuscire a ricordare perfino le circostanze in cui sono venuto
al mondo, sul tavolo della nostra baracca a Jablocˇnoe. Sento
le grida di quella donna che sarebbe diventata mia madre, e
quasi la vedo, con le cosce magre e le caviglie gonfie, e vedo
un pezzo di pane raffermo che è caduto per terra e si è macchiato
di sangue e placenta e so che qualcuno, forse proprio
la mamma, tra poco lo mangerà, perché ogni cosa che si può
mangiare deve essere mangiata. La donna che mi levò dalla
pancia non mi aveva ancora pulito con il suo grembiule che la
mamma, esausta, chiedeva del pane e un po’ d’acqua.
«Acqua ce n’è, compagna, ma non c’è pane» le rispose la
mia levatrice.
Sul tavolo sporco di sangue e vergogne, la mamma si era
liberata della presa dell’altra donna, una ragazzina che le
aveva tenuto la testa mentre mi partoriva, e aveva bevuto da
una tazza ricavata dalla scorza di una betulla. La ragazzina
aveva gli occhi cerchiati di blu – il blu profondo che c’è nelle
voragini che si aprono nelle strade – e, mentre io stavo sospeso,
nudo, in mano alla levatrice, non aveva il coraggio di
guardarmi.
«È vivo?» aveva chiesto la mamma, ma solo dopo aver bevuto.
«Speriamo di sì» aveva risposto la levatrice, e mi aveva
picchiato sulle natiche.
Io mi ero messo a urlare e a piangere, espettorando il
blocco catarrale che mi ostruiva i polmoni e la prima cosa che
vidi, nella concitazione e nella tragedia del mio primo minuto
di vita, furono proprio i solchi blu della ragazza che si ostinava
a non guardarmi.

(Riproduzione riservata)

© Ponte Alle Grazie

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Il libro
Tra il 1978 e il 1990, mentre in Unione Sovietica il potere si scopriva fragile e una certa visione del mondo si avviava al tramonto, Andrej Čikatilo, marito e padre di famiglia, comunista convinto e lavoratore, mutilava e uccideva nei modi più orrendi almeno cinquantasei persone. Le sue vittime – bambini e ragazzi di entrambi i sessi, ma anche donne – avevano tutte una caratteristica comune: vivevano ai margini della società o non si sapevano adattare alle sue regole. Erano insomma simboli del fallimento dell’Idea comunista, sintomi dell’imminente crollo del Socialismo reale. Questo libro, sospeso tra romanzo e biografia, narra la storia di uno dei più feroci assassini del Novecento attraverso la visionaria, a tratti metafisica ricostruzione della confessione che egli rese in seguito all’arresto. E fa di più. Osa raccontare l’orrore e il fallimento in prima persona: Čikatilo, infatti, in questo libro dice «io». È lui stesso a farci entrare nella propria vita e nella propria testa, a raccontarci le sue pulsioni più segrete, le sue umiliazioni e ossessioni. Il giardino delle mosche è un libro lirico e crudele allo stesso tempo: la storia di un’anima sbagliata, una meditazione sul potere e la sconfitta e, soprattutto, una discesa impietosa fino alle radici del Male.

* * *

Andrea Tarabbia è nato a Saronno nel 1978. Ha pubblicato, tra gli altri, i romanzi La calligrafia come arte della guerra (Transeuropa, 2010), Marialuce (Zona, 2011), Il demone a Beslan (Mondadori, 2011), il racconto La ventinovesima ora (Mondadori, 2013) e il reportage La buona morte. Viaggio nell’eutanasia in Italia (Manni, 2014). Nel 2012 ha curato e tradotto Diavoleide di Michail Bulgakov per Voland. Vive a Bologna con la moglie e il figlio.

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