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Uno scrittore allo specchio: GIACOMO CASANOVA

novembre 17, 2016

Uno scrittore allo specchio: GIACOMO CASANOVA

di Simona Lo Iacono

Risultati immagini per GIACOMO CASANOVASono stato davanti allo specchio in tutti i momenti della mia vita. Nell’abbondanza, nella carestia. Nell’amore, nell’odio. Nella trepidazione, nell’indifferenza.
Davanti allo specchio mi sono travestito, calzando parrucche a boccoli su cui spruzzavo canfora per tenere lontane le cimici, indossando giacche ricamate con oro e lapislazzuli, o giamberghe all’ultima moda, fatte venire per me dalla sartorie di Parigi.
Davanti allo specchio ho portato tutte le mie amanti, per verificare che fossero veramente come il mio sguardo le vedeva, e per dimostrare loro che io sapevo cingerle di spalle senza lussuria, ma con tenerezza.
Davanti allo specchio ho scoperto che il castrato Bellino non era un uomo ma una adolescente, Teresa, che si fingeva maschio per poter cantare nei teatri dello Stato della Chiesa, dove era vietata la presenza di donne sul palco.
Ero certo della sua femminilità, dell’assenza di violenza e prepotenza. Lo compresi dalla naturalezza con cui gorgheggiava tra le voci bianche: senza affettazione, con uno sfogo accorato e doloroso del petto.
Quando mi si rivelò e fu costretta ad ammettere il suo inganno, non le permisi di spogliarsi davanti a me. La rivestii con le mie mani senza amarla, per assecondare quella finzione fino in fondo.
D’altra parte a Venezia non era inusuale scoprire altre identità sotto le maschere beccute del Carnevale, o dietro le “baute”, quei travestimenti che uomini e donne usavano sfoggiare anche nella quotidianità o per strada, per coprirsi di anonimato durante un affare importante, un incontro licenzioso, una fuga spericolata.
Era una città carnale e viziosa che si beava degli infingimenti, che giocava con le personalità sovrapposte e con apparenze debordanti, fatte per indurre alla malizia.
Ci si amava ovunque, a Venezia. Sulle gondole che cigolavano tendendo un passo lento, di veglia funebre. Tra le calli strettissime e spiritate, dove era facile incontrare anime dell’oltremondo che si fingevano ancora in vita. Tra i ponti sospirosi che congiungevano isolotti e terre di fiume, come bracci tesi a stringere l’amante.
Io ho amato in acqua, sulla terra, dietro i palchi, sui balconi, persino tra le tegole di un tetto. Quando suonavo il violino nel teatro di San Samuele, di proprietà dei nobili Grimani , amai persino tra le custodie degli strumenti di orchestra, dove m’incantucciavo con con arpiste suadenti e senza vergogna.
Non mi sentivo licenzioso, ma vitale, perchè ad ogni amplesso scongiuravo la morte, e in ogni donna lasciavo una traccia palpitante della mia fragilissima eredità.
Anche quando fui arrestato per “libertinaggio”, e ristretto ai Piombi, non pensai mai che amare senza regole fosse offensivo, ma che rientrasse tra gli obblighi di un tempestoso personaggio di mondo.
Quanto mi sbagliavo.
Fuggito dalle carceri, approdato dopo un’evasione fantasiosa a Bolzano, e da lì a Monaco di Baviera, condussi una vita inquieta, che mi valse altre accuse e altri processi. Sono stato spia nei Paesi Bassi per incarico del governo francese, imprenditore di manufatti tessili, alchimista, scrittore. Ho conosciuto Caterina II di Russia, Federico il Grande, Voltaire, Rousseau, Madame de Pompadour e papa Clemente XIII. Ho affrontato un duello con il conte Branicki e l’ho ferito con un colpo netto di pistola. E, sempre, ho intessuto relazioni con duchesse svaghite, principesse annoiate, serve e cortigiane.
Ho anche amato, una volta. Francesca Buschini, una ragazza semplice e incolta che non ha mai cessato di perdonare i miei tradimenti e di starmi accanto, fino alla fine.
Quando, stanco delle mie peregrinazioni, accettai un posto da bibliotecario nel castello del conte di Waldstein a Dux, in Boemia, tutto stava cambiando.
La Francia si era accesa di fuochi mortali al grido di “libertè, egalitè, fraternitè”. La nobiltà fu rovesciata dalla avanzata del popolo e della borghesia, e quel mondo civettuolo e privilegiato che era sempre stato lo scenario di ogni mia impresa si sgretolò con l’incedere del nuovo tempo.
A Dux i servi mi rimbrottavano con scherzi e oscenità, mi prendevano in giro, mi tiravano i capelli fuggendo divertiti e scanzonati. Per loro non ero altro che la caricatura di un secolo svampito e pretenzioso, che metteva in scena la vita come si fa con un dramma a teatro.
Forse era vero, e fu proprio lì, in Boemia, accanto ai libri e chino a scrivere la mia biografia, che compresi quanta solitudine ci fosse dietro ogni mio legame.
I posteri mi avrebbero ricordato come avventuriero, seduttore, libertino.
Ma mio padre era Gaetano Casanova, un ballerino parmigiano con remote origini spagnole. Mia madre era Zanetta Farussi, un bellissima attrice veneziana. Sin dalla nascita ho visto palchi, tendoni, cerone e camerini per il cambio di costume.
Ho sempre pensato che quella finzione fosse vera, e che bastasse recitare per essere felice.

(articolo pubblicato sul quotidiano “La Sicilia”).

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