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VIAGGIO IN AFRICA di Giorgio Manganelli (recensione)

settembre 11, 2018

VIAGGIO IN AFRICA di Giorgio Manganelli (Adelphi, a cura di Viola Papetti)

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L’Africa di Manganelli

di Gianluca Barbera

Nel 1970 Manganelli viene incaricato dalla multinazionale Bonifica, che progetta di realizzare una strada lungo la costa orientale dell’Africa, da Dar es Salaam al Cairo, di compiere un sopralluogo di due mesi in quei luoghi e stendere una relazione. La strada non verrà mai realizzata e nessuna delle due versioni stese da Manganelli sarà mai pubblicata. Colma la lacuna Adelphi dando alle stampe “Viaggio in Africa” (a cura di Viola Papetti, pp. 71, euro 7), fedele alla prima versione. Dopo una cena a Spoleto, nella casa di Castaldi (dirigente di Bonifica), Manganelli, seppure riluttante, accetta di sobbarcarsi la fatica di un viaggio che definirà “splendido e massacrante”. Si presenta in albergo in “completo kaki, berretto con visiera e ombrello”, pronto a sfidare un mondo ignoto, a bordo di un gippone fatto per frantumare le ossa, tra leoni, coccodrilli, serpenti e marabù; passando per città “inventate” dagli europei (Nairobi, Kampala, Gibuti), percorrendo Paesi sconvolgenti. “L’Africa è una incredibile meraviglia” scrive in una lettera da Dar es Salaam, “ma che pesantezza”. Quella di Manganelli è un’Africa descritta con potenza visiva: “Costole, ossame di un cadavere geologico: montagne di ciottoli lavorate da un’acqua furibonda ed effimera; valli livide tra giallo e ocra, luoghi inaccessibili protetti o esclusi da barriere invalicabili”; dominata da una natura “che ancora odora di creazione”. Una terra in cui “l’uomo, essere labile e spaventato, ininterrottamente tratta la propria sopravvivenza con l’indifferenza del mondo”. La relazione che stende al ritorno è un serrato confronto tra due mondi inconciliabili. Tra un’Europa continente-città, dove tutto è regolato dalle necessità economiche, e un’Africa fatta di “città rare e lontanissime; spazi indifferenti, un pachiderma planetario abitato e percorso da insetti lievissimi e provvisori”. Una terra “senza strade, percorsa da lunghe, rare piste sinuose, labili e ostinate”. E non è una differenza da poco perché “la strada è mentale, la pista fisiologica”.
Il continente nero lo attrae e respinge al tempo stesso (non vi tornerà più): “steso su una gigantesca tavola anatomica, l’Africa presenta lo scheletro calcinato di un corpo arcaico. L’Africa appare morta – qualcosa che forse non è mai stato vivo”. Essa, annota, ci appare come una regione selvaggia popolata di animali da zoo, un parco, una riserva, uno scenario cinematografico. “Occorreranno secoli per farne una Svizzera” pensa il viaggiatore europeo, il quale non teme gli animali, sa tenere a bada gli insetti, “è immunizzato contro i bacilli, elude il calore, usa il sole tropicale per abbronzarsi”. Per lui le distanze si misurano “da un albergo all’altro”. Gli africani invece non viaggiano. La vita “è localizzata quando non è immobile”. La “bellezza” dell’Africa è una elaborazione dei bianchi. Di più: “l’Africa non ha un paesaggio, perché il paesaggio è stato inventato come consolazione per l’uomo inurbato”; mentre qui “troppo esile è il tessuto cittadino. Troppo dispersa anche la ragna dei villaggi. Qui l’uomo è l’eccezione”. La violenza della natura è il segno che contraddistingue il continente. L’uomo africano non trova una collocazione stabile da nessuna parte. “Il suo stesso passato è una mutevole tradizione orale, qualcosa che facilmente si adultera, si perde. Se la storia è edificio e scrittura, qui la storia non è mai cominciata”. Ogni civiltà ha i suoi simboli, e quelli della dignità africana non sono i colossei ma i leoni, “non torri ma svettanti giraffe, non acropoli ma crateri affollati di belve”. L’Africa è un continente “ignaro di date”, dove “la morte è una presenza violenta ma acclimatata”. Nessuno Stato africano “può diventare Nazione. Tribù di diverse estrazioni si giustappongono in insediamenti instabili e irrequieti; diverse le lingue, diversi i tempi piscologici”. Naturalmente Manganelli parla dell’Africa nera, quella oltre il Sahara. Ma nonostante la verticalità delle sue riflessioni resta un dubbio decisivo, che Manganelli non scioglie. Se ai suoi occhi l’Europa è fatta a immagine degli europei, come mai l’Africa non è fatta a immagine degli africani? Come mai qui l’habitat sembra essersi imposto sugli uomini? Non sarà, quella colta da Manganelli, un’Africa soltanto mentale, non realmente esperita?

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La scheda del libro
A Manganelli, che nel 1970 la attraversa dalla Tanzania all’Egitto portandosi appresso l’immagine illusoria e il cliché cinematografico elaborati dal disagio europeo, l’Africa si rivela d’improvviso. Pachiderma planetario dove l’uomo è un’eccezione, affida la sua dignità non allo splendore di monumenti intimidatori, ma a simboli inconsapevoli, «intensamente araldici»: gli animali. E il viaggiatore, di fronte a quella minacciosa intensità, non può che sentirsi «esotico ed estraneo», affascinato, allarmato. È uno choc che lascerà tracce profonde: sulla via del ritorno, il Partenone apparirà a Manganelli un gesto di «violenza ragionevole nei confronti della stessa demonicità greca».

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