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LUX IN TENEBRIS di Antonio Di Grado (terza parte)

febbraio 24, 2020

LUX IN TENEBRIS. Pubblichiamo la terza puntata di questi “appunti” di Antonio Di Grado sulla cultura a Catania nella seconda metà del Novecento

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di Antonio Di Grado

Ma il teatro a Catania, città teatrale e innamorata del teatro, non era e non è solo lo Stabile: innumerevoli compagnie, da quelle amatoriali alle avanguardie, hanno calcato le scene etnee, spesso in competizione con il teatro di Giusti, ritenuto poco incline all’innovazione e alle sperimentazioni: ed ecco, giusto per citare i due casi più antichi ed emblematici, il Teatro Club di Nando Greco, nobile e generoso innovatore, capace di portare a Catania il meglio della più avanzata produzione teatrale coeva, dal Living Theatre a Carmelo Bene, e il Piccolo Teatro di Gianni Salvo.
E dovremmo dire, quanto alle istituzioni culturali, del Teatro Massimo Bellini, delle sue proposte spesso rilevanti ma inficiate da mortificanti vicissitudini di sottogoverno e da una deleteria elefantiasi, ma anche della vivace Associazione Musicale Etnea fondata nel 1973 e diretta da Enrico Failla; dovremmo dire dell’Accademia di Belle Arti e in genere dell’attività artistica, in quegli anni svettante nei nomi di pittori quali Rimini, Comes, Romano, Milluzzo, Sciavarrello, Contrafatto. E se è d’arte che si parla, non si può certo trascurare l’attività, sempre attenta alle risorse e alle urgenze del territorio, d’un geniale cineasta come Ugo Saitta, dal capolavoro del neorealismo documentaristico Zolfara ai successivi cortometraggi quasi sempre sceneggiati da Giuseppe Berretta, un docente liceale che in gioventù s’era accompagnato con Giaime Pintor, Mario Alicata, Ruggero Jacobbi.
Ma sono proprio quegli anni Sessanta a segnare una svolta, di ricambio generazionale e, in accordo alla ventata di modernizzazione che travolge l’intero paese, di avvio di nuovi percorsi e nuove pratiche, di aperture di nuove finestre sull’Europa e sul mondo, non più all’ombra del campanile ma nella luce spiegata di nuove e finalmente illimitate frontiere. Pasolini l’avrebbe chiamata omologazione; io preferirei parlare di avventura, di esplorazione, di aria aperta e non più stagnante nei polverosi salotti e nelle irrespirabili penombre della Catania di Brancati.
Aria di rivolta; e se parlo di rivolta, trattando del Sessantotto catanese e italiano ed europeo, di cui due anni fa si celebrò distrattamente il cinquantenario, è per sottolinearne la matrice esistenziale e generazionale: le porte di casa sbattute con rabbia dietro le spalle, la riappropriazione di una sessualità libera e gioiosa, l’utopia dell’immaginazione al potere, la voglia febbrile di contare, e di gridare la propria insofferenza non solo per il baronaggio universitario ma per una gerontocrazia asfittica e occhiuta, e ancora la traboccante pietas per i “dannati della terra” – o, come scriveva Vittorini un quarto di secolo prima, per il “mondo offeso”, per il “genere umano dei morti di fame”. Rivolta, dunque: libertaria e perciò impolitica, al contrario delle rivoluzioni che a un potere politico tendono a sostituirne un altro, dispotico quanto e più del precedente. La “politica” venne dopo, a intristire e intruppare tensioni nate intorno a un libro o a un film, in aule gremite – e rimbombanti d’idee disparate e disperate – o nell’angusto abitacolo-alcova d’una “cinquecento”. Venne dopo, coi suoi arcigni gruppuscoli e le sue mistificanti mitologie, leniniste o maoiste o altro che fossero.
Ma quel drappello di giovani che nel joli mai dell’anno di grazia 1968 si mossero dall’agenzia Einaudi di Sergio Reyes per occupare il Palazzo centrale dell’Ateneo catanese altro avevano in testa: Marcuse e Lévi-Strauss, Brecht e Godard, Rosa Luxemburg e la scalinata di Odessa, Garcia Lorca e i samurai di Kurosawa, gli eroi di Stendhal o di Hemingway, tutt’al più un Chè romantico e avventuriero e magari, sì, anche Il Capitale ma nel compendio di Carlo Cafiero. A loro si aggiunsero anche i giovani del neonato “dissenso cattolico”, che in una chiesa che si voleva ridestare dalla base (sull’onda di esperienze come la Barbiana di don Milani o l’Isolotto fiorentino, o di miti come Helder Camara o Camilo Torres) ormai scalpitavano; e molti, provenienti dalla FUCI e dalla “Gioventù studentesca” creata a Catania da don Francesco Ventorino e in Italia da don Luigi Giussani, ne usciranno infatti da lì a poco. Decisiva esperienza di intensa socializzazione, anzi di comunione fraterna, ma anche di attività caritativa nei quartieri disagiati, quella di “Gioventù studentesca”; e se in molti l’abbandonammo per la politique d’abord, non sarà un caso quello inverso d’un intellettuale comunista come Pietro Barcellona che molti anni dopo, i suoi ultimi, dialogherà intensamente – attirandosi gli strali dei suoi vecchi compagni di strada – con don Ventorino e i suoi discepoli.
Quei giovani cattolici frondisti, prima o poi affrancatisi dalle etichette e dalle appartenenze ecclesiali, contribuirono a rafforzare il messianismo e il terzomondismo della cultura sessantottesca, trasferendone poi gli ultimi echi nei nuovi raggruppamenti (“Il Manifesto”, “Lotta continua”, la diaspora marxista-leninista), quando anche loro ne furono assorbiti.
O nel Partito comunista, che ancora attardato da una leadership di matrice ruralista nonché dalla cauta Realpolitik togliattiana, attendeva sornione il ritorno all’ordine dei reprobi, degli “estremisti” dispersi nella diaspora extraparlamentare. Era forte, del resto, d’una presenza capillare nel territorio grazie alle “sezioni”, luogo di dibattito permanente (e non è “cultura” anche questa?) e promessa di radicamento nel “popolo” che non potevano che allettare quegli orfani, che del popolo leggevano solo sui libri. Tra quelle new entries, provenienti soprattutto dal defunto PSIUP che del Sessantotto studentesco era stato l’ala più vigile e colta, c’erano anche i cattolici: e non soltanto un giurista e filosofo come Pietro Barcellona, che di quella metà etnea del secolo fu uno degli intellettuali di punta, e di rilievo nazionale, e nel PCI si spese a lungo prima di ritrarsene sdegnato, ma anche quel nutrito gruppo di ex FUCI e GS che rilevò presto le leve del partito, imponendovi un’egemonia assai poco inclusiva (e ne seppe qualcosa un architetto ed intellettuale come Giacomo Leone, generoso depositario e dispensatore d’idee “forti” per la città, allora appassionatamente impegnato in un PCI sempre più sordo alle sue istanze), e quel ch’è peggio traghettando il partito dai successi elettorali della stagione berlingueriana ai suoi minimi storici.
Il progressivo smantellamento del PCI e delle sue sezioni, e dunque l’estinzione di quell’accesa battaglia delle idee che ebbe luogo negli anni Settanta, fu una delle cause dell’impaludamento della cultura catanese nella morta gora del decennio successivo. Mentre si succedevano sindaci sempre più incolori e subito dimenticati (unica eccezione, alla fine del decennio, una prima, breve sindacatura di Enzo Bianco, con al fianco l’assessore comunista alla cultura Franco Cazzola), e le istituzioni culturali dall’università ai grandi teatri sopravvivevano con laboriosa ma ormai stanca lena, sempre più si affermava l’immagine di una città in disordinata e maldiretta crescita, insomma di uno “sviluppo senza progetto”, secondo l’efficace formula coniata dallo storico e longevo preside di Lettere Giuseppe Giarrizzo nella sua notevole monografia laterziana sulla storia della città post-unitaria.
E di una cultura scollata da questi processi: non a caso emergono quelle poche figure intellettuali, come Leone, Barcellona, Giarrizzo, che un progetto l’avevano, un’idea della città, della sua storia, della sua fisionomia, della sua vocazione e d’un futuro per cui battersi.
Furono proprio Giacomo Leone e Giuseppe Giarrizzo gli artefici delle due grandi realizzazioni degli ultimi decenni del secolo: il complesso delle Ciminiere e il restauro del monastero dei Benedettini, ad opera dell’architetto De Carlo, con la sua destinazione a ospitare la Facoltà di Lettere. Avversato, il primo, per via delle malversazioni degli allora presidenti della Provincia, che ai moralisti cattocomunisti fecero ignorare la geniale invenzione di Leone, che assemblava archeologia industriale, pietra lavica e spazi di discussione ed esposizione sullo sfondo della distesa marina; e poi svilito, sottoutilizzato, semiabbandonato, perché ancora non capito nelle sue magnifiche possibilità, da una “politica” miope e avara. Quanto al secondo, l’ex Monastero, grazie a Giarrizzo e De Carlo Catania può vantare la più bella sede universitaria d’Italia e un bene culturale, l’unico tra i tanti sontuosi edifici barocchi della città, tornato all’antico splendore.
Il trentennale dominio di Giarrizzo sulla Facoltà di Lettere catanese ebbe inizio all’indomani del Sessantotto, ossia di quella rivolta abortita che qualcuno seppe usare con astuzia come mero ricambio di élites, ed altri abiurarono in cambio di modeste prebende o rimpiansero a vita nel ghetto dei reduci. Può dirsi anzi che, a Catania come altrove, l’unico sommovimento destinato a durare e a vincere, tra i frutti del ’68 ma più in generale fra tutte le sedizioni e le ideologie del secolo, fu il femminismo, inteso come rivendicazione della parità dei sessi ma anche, se si guarda alle sue molteplici conseguenze, come nuova sensibilità rivolta alla soggettività e al “privato” e come attenzione ai diritti civili e alle minoranze. E se in questo mio catalogo risultano poche le presenze femminili, non è certo perché si ignori la loro rilevanza nei movimenti e nelle associazioni, ma perché vi veniva sovente mortificata e resa subalterna: tranne appunto nel coloratissimo femminismo etneo degli albori, in cui spiccavano fiere combattenti come Emma Baeri, Anna Vio, Rosalba Piazza.
Tornando alla duratura e indiscussa egemonia di Giarrizzo è da dire che essa fu certo il frutto della sua statura intellettuale, indiscutibile e carismatica pur se avversa a correnti di pensiero estranee al suo tenace storicismo, ma pure di una incontrastata superiorità su un ceto docente non più “baronale” e oligarchico, livellatosi e quietatosi dopo l’ondata di assunzioni dei primi anni ’70. Ed ebbe fine proprio sul finire del secolo, quando l’università e soprattutto gli studi umanistici iniziavano il loro declino, voluto da governi sia di centrodestra che di centrosinistra, altrettanto solerti non solo nel dequalificare e taglieggiare gli atenei, ma anche nel sostituire al pensiero critico una frammentata congerie di nozioni e di asettiche tecniche da convertire in “crediti” e da smerciare, come un’azienda di laterizi, in un mercato che ovviamente non sa che farsene di Petrarca o di Spinoza.
Non tutto, certo, andava perduto, malgrado lo zelo con cui quei governi delegittimavano e snaturavano l’istituzione universitaria e in particolare gli studi umanistici: e mi riferisco non solo all’encomiabile e laboriosa resistenza di più d’un docente e studioso “di tenace concetto”, ma fra l’altro alla nascita e all’attività della Fondazione Verga, voluta e diretta da Francesco Branciforti, e al contributo alla valorizzazione dei beni culturali offerto da storici dell’architettura e museologi come Giuseppe Pagnano e Giuseppe Dato.
Ma questa è storia recente.

(La quarta e ultima puntata di “Lux in tenebris” sarà pubblicata lunedì 2 marzo)

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